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Psicoanalisi contro n. 3 – IL SI BEMOLLE DORATO

mercoledì, 1 dicembre 1993

Una persona che, tempo fa, era in analisi con me, mi raccontò di una sua precedente esperienza psicoterapeutica, interrotta un po’ bruscamente, per la reciproca insofferenza e profonda avversione venutesi a creare nel rapporto analitico.
Il paziente in questione era un musicista e, come spesso accade ai cultori di quest’arte, era un po’ chiuso nei confini del suo mondo sonoro: si esercitava allo strumento, andava alla ricerca di brani inediti o poco noti del passato, possedeva un’ottima preparazione filologica, in particolare sul periodo di cui si considerava uno specialista, oltre che una grande conoscenza di tutta la storia della musica. Suonava, leggeva e ascoltava musica, studiava su trattati e partiture preparava con cura i suoi concerti, scriveva per alcune riviste musicali: il suo mondo era, ed è tuttora, la musica. Un mondo vasto, immenso, uno smisurato universo, con tanti soli, costellazioni e cose ancora ignote e meravigliose da scoprire. Spesso però questo universo è rinchiuso in barriere molto rigide e compatte, poco permeabili da altre realtà, e spesso il musicista vive nel suo mondo, restando un po’ troppo assorbito da questo linguaggio. Ciò si percepisce talvolta in esecutori ed interpreti, compositori e direttori d’orchestra, e le loro stesse esecuzioni e composizioni ne risentono negativa-
mente. La musica deve sorgere, certamente, da uno studio accurato e approfondito, da esercizi tecnici assillanti e ossessivamente ostinati, ma deve scaturire anche, oltre che dalle profondità abissali dell’animo umano e dell’universo, dal quotidiano confronto con la realtà; e questo credo valga per ogni arte.

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Ritornando alla persona che era in analisi conme: mi raccontò del precedente analista che, dopo aver cercato di mostrarsi indifferente, non riuscì più a non manifestare la sua insofferenza per quei discorsi che non capiva; anche per questo l’analisi si era interrotta. In effetti raccontava i suoi sogni in termini inconsueti: «…ho visto un gran mi bemolle blu e poi un sol alla distanza di una terza maggiore, e poi un si bemolle dorato, una terza minore…». E giù una valanga di parole sui significati che per lui aveva il mi bemolle maggiore: «…il sol schizzò lontano, alla distanza di due ottave… i rivolti… una cadenza…». Seguivano lunghe associazioni su alcune difficoltà tecniche della diteggiatura, su certi abbellimenti, sui registri: «…abbellimenti, bellezza… registri, registri di scuola». E via con lunghe descrizioni della meccanica dello strumento, antico e affascinante, i problemi di accordatura; e poi, subito dopo aver parlato di un ragazzo basso: «…il basso continuo…». Se non parlava di musica, improvvisamente non sapeva più di che parlare; o meglio: le cose che riusciva a dire non erano mai quelle che realmente gli erano affiorate per prime alla mente. Se si lasciava andare ai suoi pensieri, pensava alla musica, al suo strumento, ai concerti, a vecchi fogli ingialliti.
Spesso, seduttorio, soggiungeva: «Come è bello che con lei, che è musicista come me, io possa parlare tranquillamente di tutto questo. Lei mi segue e non la sento irritato». Debbo dire che qualche volta ci scappavano vivaci discussioni su problemi di tecnica od estetica musicali che, forse, con l’analisi avevano poco a che fare, ma riuscivamo comunque a recuperare tutto, anche mie e le sue resistenze, e il lavoro poté proficuamente continuare.
Aveva iniziato l’analisi con me, con affrettato entusiasmo, senza neppure aver letto nulla di mio e senza avermi mai ascoltato, soltanto perché gli avevano detto che io ero un musicista.
Sentii però come una vittoria il giorno in cui mi accorsi che le barriere di quell’universo musicale si stavano abbassando e il mondo irrompeva, con inarrestabile intensità, con la ricchezza di una realtà fatta anche di cose che non erano solo musica.

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Io non ho mai creduto e non credo che si debba necessariamente essere musicisti per fare psicoanalisi con un musicista, perché allora lo stesso problema si porrebbe con un fisico nucleare, con un pescatore o con un motorista, con un chimico o un odontotecnico: tutti infatti avrebbero bisogno dell’analista specializzato nella materia. Vi possono essere indubbiamente esperienze di vita o culturali che allontanano il terapeuta dal paziente, ma non vi si può rimediare pensando a un analista con una conoscenzaenciclopedica. Èvero però che più l’ analista sa, meglio può svolgere il proprio lavoro. Giova a questo fine la curiosità del terapeuta verso il mondo e tutto ciò che il mondo può contenere, verso gli uomini e l’infinita possibilità delle diverse situazioni esistenziali, dei diversi linguaggi con cui l’umanità si esprime. La curiosità deve portare lo psicoanalista a scrutare, con abbandono quasi totale, ciò che gli sta intorno e a risentirne l’eco dentro di sé.
Proprio per questo, l’analista troppo chiuso nel mondo della sua scienza, non solo non è un bravo psicoanalista, ma neppure esiste come psicoanalista: non c’è. Perché la psicoanalisi è scienza dell’uomo e l’uomo non è un’entità astratta- è sempre questo o quell’uomo, inserito in questo o quel gruppo sociale, che ha avuto queste o quelle vicende. Lo psicoanalista deve sapere imparare, quando ancora non sa, dalle esperienze dei propri pazienti. Ecco perché l’arte è quanto mai utile. Sono utili anche l’astronomia e la cibernetica: tutto giova all’analista, ma è fondamentale che egli sappia cogliere il significato dell’esperienza artistica. Non tanto perché così sarà meglio in grado di gestire analisi con pazienti artisti, conoscendone le problematiche poetiche, estetiche e tecniche e l’influsso che hanno sulla vita quotidiana, ma perché solo se sarà capace di immergersi profondamente in questo duplicato del mondo che è l’arte, saprà riconoscere questo duplicato dell’arte che è il mondo.
Non credo che sia nata prima l’arte e poi l’uomo o prima l’uomo e poi l’arte.

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L’espressione artistica è nata con l’uomo: l’uomo è un’opera d’arte, o meglio: l’uomo si esprime e si costruisce attraverso la ricerca dell’espressione artistica. Nessun gesto è privo di finalismo; non è vero – come si diceva un tempo – che i bambini prima si muovano in modo scoordinato e poi lentamente coordinino i gesti dando loro un significato e uno scopo. Ogni gesto, anche il più «istintivo», è inserito in una organizzazione teleologica; ma il fine è sempre il soddisfacimento di un piacere che già il gesto in sé tenta di realizzare; se così non fosse, non potrebbe neppure avere inizio il gesto. Il piacere del gesto è quel di più, apparentemente inutile e quindi assolutamente essenziale, che fa sì che, con quel gesto, si esprima qualcos’altro che il semplice tentativo di raggiungere lo scopo. Ogni gesto erra per un momento nell’aria, come per raccontare una storia, per dire ad un tempo ciò da cui trae origine e ciò cui tende.
L’arte, allora, sarebbe «raccontare storie»? Ma che cosa è la vita umana se non una grande e tragicomica storia? Se l’arte è un gesto che racconta la vita, o meglio: che fa diventare vita il racconto, come fa la musica, che con puri suoni si articola in vicende e conosce avventure, è allora un momento di disimpegno, di piacere fine a se stesso?
Non ha senso distinguere tra piacere e piacere fine a se stesso: ogni piacere è fine a se stesso. Si potrebbe dire allora che l’arte è autocentrica, che non ha altro scopo al di fuori di sé, a differenza, ad esempio, della scienza, che tende a realizzare qualcosa che è al di fuori.
In questo senso, la psicoanalisi – che è scienza – sarebbe quanto mai lontana dall’arte, e tutte le scienze sarebbero cose diverse e lontane dall’arte.

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L’arte, come la scienza, parte dall’uomo e ritorna all’uomo: racconta una storia verosimile, né più né meno di quanto faccia la scienza. Dov’è infatti l’obiettività della scienza, se non nell’illusione degli scienziati? L’arte inventa un mondo che, almeno per un poco, ha una sua autonoma validità: un agglomerato di suoni, colori, forme, parole e gesti che è vero, non perché imiti la realtà, ma perché ha una sua verità che permette all’uomo di capire qualcosa di se stesso, del suo presente e del suo futuro. Lo stesso fanno gli scienziati, quando parlano delle stelle e degli atomi. Èvero che, ad un certo punto, le strade dell’arte e della scienza divergono: diversi interessi e diversi modi di esprimersi determinano le scelte. La psicoanalisi ha la possibilità, e il dovere, di snidare la cattiva coscienza di tutti, ma deve poi avere l’umiltà di rimettersi in riga e permettere che l’arte dica quello che lei non saprà mai dire; né dell’uomo, né del mondo.
Solo se lo psicoanalista sarà così curioso da voler guardare il mondo, cercando di capire, poco o tanto, la realtà dell’arte, potrà sperare di andare oltre i limiti angusti di una piccola scienza, per diventare uomo capace di curare se stesso e di prendersi cura degli altri.

Psicoanalisi contro n. 3 – LE TERZINE DELLA SALUTE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Da sempre, si parla dell’influenza che l’arte esercita sulla psiche e, basandosi su quest’influenza, c’è chi ha pensato di usare una o più espressioni artistiche in psicoterapia.

La più nota e la più pubblicizzata, è quella che va sotto il nome di musicoterapia; ma anche il disegno, la danza, la rappresentazione di scene teatrali vengono usati come mezzi terapeutici. Servendosi dell’espressione artistica, un essere umano può liberarsi di molte inibizioni, sbloccare nodi intricati della personalità, sciogliere sintomi; in poche parole: ritrovare maggior armonia con il proprio corpo e l’ambiente.
C’è un uso più attivo che consiste nel chiedere al paziente di esprimersi cantando, danzando, suonando, recitando; e c’è un uso più passivo che propone al paziente l’ascolto di musica, l’osservazione di figure e colori, o che lo invita ad assistere a forme di spettacolo allestite da altri. In ogni caso, anche quando la proposta è di fruizione passiva, il tutto viene sempre montato con uno scopo preciso: quello di curare; di aggredire, cioè, i sintomi patologici, per aiutare l’individuo a liberarsene. Tutte queste tecniche, se pur estremamente civili e umane, non sono però, nel loro fondamento, molto lontane dal principio del condizionamento imposto dall’esterno. Infatti sono, in ultima analisi, parte di quel sistema di interventi coercitivi quali gli elettroshock, i bombardamenti psicofarmaco- logici, i condizionamenti comportamentisti- ci, etc.
Invece, a mio avviso, le sole tecniche corrette di intervento sono quelle basate sul rispetto della persona e sulla ricerca delle motivazioni del disagio. Questo solo può essere il fondamento di un corretto agire terapeutico che porti verso la salute; gli altri metodi, che non si fondano sulla presa di coscienza e sulla gestione comune della cura tra terapeuta e paziente, sono sempre esproprianti e, tutto sommato, castratori.
Il ricorso a queste tecniche che sopraffanno il paziente può rendersi però inevitabile. Io sono contrario alla demonizzazione dei farmaci (e degli psicofarmaci in particolare) che sono spesso guardati con onore dagli psicoterapeuti, come se in questi stesse la fonte di ogni male. È solo l’uso acritico dei farmaci che danneggia seriamente ogni possibilità di una buona terapia: quando sono imposti dal terapeuta ed esprimono quindi il rifiuto a prendere in considerazione la problematica esistenziale del paziente.

Se rimane però chiaro che il fine della cura è l’acquisizione della consapevolezza dell’insieme delle cause patogene, può essere lecito anche l’uso di qualche elemento chimico che possa aiutare il paziente – si badi bene: aiutare, non ottundere o reprimere -. Perché allora escludersi le possibilità messe a disposizione dalla ricerca scientifica. Io ho fatto ricorso alle tecniche dell’arte, particolarmente mi sono servito della musica, nel tentativo di intervenire con persone disturbate anche in modo grave: i cosiddetti matti.
Ho fatto loro ascoltare musica, ho cercato di insegnare ad eseguirla e a comporla; li ho invitati ad abbandonarsi alle melodie e ai ritmi, a esprimersi attraverso di essi. Ho visto atteggiamenti rattrappiti sciogliersi, sguardi illuminarsi, persone isolate da sempre, articolare suoni e movimenti, in sintonia con quelli di altri; ma tutto ciò mi è sempre parso aleatorio e impreciso, ambiguo, senza la capacità di raggiungere la fonte della consapevolezza. Pur non escludendo la possibilità di un effetto terapeutico delle forme artistiche, io mi sono allontanato da questo tipo di prospettiva ed ho preferito affrontare l’arte direttarnente. L’arte è terapeutica di per sé e non quando è prescritta e somministrata in dosaggi di tipo farmacologico, in situazioni e luoghi che sono della cura e non dell’arte. Lo studio specialistico e la casa di cura vanificano gran parte delle possibilità terapeutiche dell’arte. L’arte è terapeutica di per sé, quando agisce nel suo mondo, e il terapeuta non può fare altro che educare all’amore per l’arte, se vuole servirsene come strumento della comprensione del mondo e dell’inconscio. Per questo, è fondamentale la preparazione, anche artistica, del futuro psicoterapeuta: chi non ama l’arte, chi non la conosce a fondo, non è in grado di fare il mestiere di «curatore di anime»; sarebbe solo un ciarlatano, se ci si provasse. Chiaramente, non si può pretendere dal terapeuta la professionalità nella pratica dell’arte, ma almeno un coinvolgimento e una conoscenza più profonde di quelle che abitualmente vengono richiesti all’uomo di media cultura, frequentatore e fruitore di qualche buon film, spettacolo, mostra o concerto. Lo psicoterapeuta ha il dovere di impegnarsi ad affrontare il mondo dell’ arte, perché l’arte è presente sempre, nel panora ma complessivo in cui si muovono le persone che ricorrono alla cura; sia nell’aspetto paludato e ufficiale, sia nella veste di creatività popolare o istintiva – e non intendo solo il folclore – È anzi dovere dello psicoanalista saper distinguere e scegliere in quel marasma di spazzature pseudo-artistiche che inquinano la civiltà odierna. L’ecologia deve infatti andare oltre la pura e semplice lotta alle buste di plastica e alle lattine che inquinano mari e boschi, alle piogge acide e ai residui del petrolio; ma deve prendere consapevolezza anche dei disastri acustici, cromatici, estetici, armonici e ritmici che, sotto forma di cascami delle varie arti, insidiano l’integrità e l’equilibrio dell’uomo; si pensi, tanto per fare un esempio, al bombardamento sonoro cui siamo continuamente sottoposti da riproduttori e diffusori di rumori pseudo-musicali: l’ecologia del suono è una battaglia da combattere non solo in vicinanza di aeroporti o alle catene di montaggio.
È quindi fondamentale che l’analista abbia un proprio concetto di ciò che è artisticamente sano; deve saper scegliere quale musica e quale poesia, se l’arte colta o folclorica, aulica o dimessa. Deve avere scelto il suo rapporto con l’arte e deve sapere quale scelta propone ai suoi pazienti. Ciò non significa che il terapeuta debba spingere il depresso a suonare il piffero e l’ossessivo a scrivere terzine di endecasillabi e che guarisca solo chi è diventato Dante Alighieri.

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Queste mie righe non riflettono forse una grande lucidità di idee; il rapporto tra arte e psicoanalisi mi ha sempre coinvolto; ma dopo averci tanto pensato mi càpita spesso di scrollare la testa dicendo: «io sono un artista e mi basta!» o anche: «ma io sono uno psicoanalista! L’uno e l’altro possono coesistere senza intralciarsi». Ma poi sento che queste conclusioni non mi bastano; infatti sono convinto che l’arte sia salute; l’arte guida verso la salute, è strumento di salvezza Sono consapevole che, affermando questo, mi comprometto come psicoanalista, se parlo di arte, e come artista, se parlo di psicoanalisi. Ho scelto di diffondere le mie teorie psicoanalitiche al di là della cerchia dei miei pazienti, perché penso che siano utili alla maggior comprensione degli esseri umani tra di loro, alla lotta contro il male che tutti ci insidia.
Così anche ho scelto di parlare dell’arte, perché la considero una presenza che deve essere costante nella vita di tutti e non un patrimonio di pochi e non mi dispiace l’immagine di una folla di popolo che, come nell’Atene di Pericle, si reca in una bella giornata di sole, ad assistere alle rappresentazioni che si susseguono, dal mattino alla sera, nel pubblico teatro della città. Che importa se qualcuno si annoia, o se, in un angolo buio, un altro bacia la bocca amata!

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Da sempre anche si è parlato delle prerogative educatrici dell’arte. Nelle scuole si insegna la letteratura e non solo a leggere e a scrivere; si insegna persino un po’ di storia dell’arte figurativa e si dà qualche nozione musicale. Sebbene io creda che l’arte, già di per sé, sia educativa, ritengo ugualmente che si debba educare all’arte. L’arte non può essere solo un mezzo, deve essere un fine. L’arte è la salute trovata, la maturità conquistata, patrimonio dell’uomo sano e civile. Non mi piace l’idea di usare l’arte o la scienza come mezzo, preferisco siano fini Per fortuna, io credo poco alla logica dei mezzi e dei fini: per me esistono soprattutto i desideri, che devono essere realizzati. I desideri sono fini? Certo: sono gli unici fini in vista dei quali l’essere umano agisce.
In che cosa consiste, allora, l’educazione? Nel riuscire a trasmettere l’amore per l’arte e non soltanto: anche l’amore per la scienza. Nessuno di noi è sano, nessuno di noi è maturo, ognuno di noi deve tendere alla guarigione ed alla buona educazione; l’arte ha questa duplice funzione di essere terapeutica ed educativa; ma, per fortuna, è anche molto di più; i terapeuti e gli educatori debbono saperlo e debbono indirizzare i lori desideri e quelli dei loro pazienti e discenti a confondersi con le meravigliose costruzioni dell’arte: l’arte del passato e del presente. Di quale arte? Quella per uomini sani; ma gli uomini sani non esistono; esiste invece l’arte.

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Voglio ritornare un po’ sui discorsi precedenti, perché temo di essere stato eccessivamente oscuro e contraddittorio. Forse è sufficientemente esplicito ciò che ho detto intorno all’arte come strumento terapeutico: sono scettico nei confronti di una somministrazione per dosi dell’arte a persone più o meno passive. lo so che l’arte è terapeutica, ma bisogna trovarla nei luoghi ad essa consacrati o saperla scoprire ogni giorno leggendo un libro o suonando uno strumento. Ciò che più mi rimane oscuro è come sia possibile che l’arte, che per un verso è strumento della cura, per l’altro possa costituire il premio e il privilegio di chi ha già raggiunto la salute. Per godere fino in fondo dell’arte bisogna essere sani; ma senza la conoscenza dell’arte non si potrà mai essere sani. Chi non ama l’arte è malato, gravemente malato. L’amore per l’arte è una tensione che porta a scoprire, a guardare, ad osservare, ad ascoltare e quindi a guarire. Ma, se siamo giunti all’arte significa che eravamo già sani. L’arte è salute e mezzo per la salute.

Forse, ora queste mie considerazioni sono un po’ più esplicite, ma ancora resta l’ambiguità del mio discorso sull’educazione. Io impongo, nella scuola che ho fondato per la preparazione di psicoanalisti, un approfondito studio di tutte le forme artistiche – spero che non sia solo un’imposizione perché vorrei che coloro che hanno scelto di studiare con me lo avessero fatto anche per amore, se pur riconosco che lo studio intorno all’arte che io pretendo è senz’altro faticoso e tutt’altro che superficiale -. L’arte quindi educa, tanto che serve anche per diventare psicoanalisti. Nessuna scuola, di nessun tipo però avrebbe senso se non vi si insegnasse l’arte. Ciò che mi fa orrore della nostra scuola, da quella materna all’università, è che l’arte gravi come un peso, un dovere, mentre dovrebbe essere invece quasi un premio. E’ una gioia leggere «l’ira di Achille» o le «variazioni Goldberg» di Bach. È una scuola esangue, che illividisce l’arte, la rende flaccida, noiosa, imponendola senza amore. L’educazione dovrebbe essere soprattutto educazione all’amore, quindi anche all’amore per l’arte. Nonostante tutto, le opere del passato brillano davanti agli studenti nel loro splendore e qualcuno ne rimane affascinato, superando l’ostacolo costituito dalla rancida bava che su di esse spande la cadaverica concezione che ne dà il sistema di nozioni scolastico.
Continua la contraddizione tra arte che è obiettivo da raggiungere e mezzo per raggiungere quell’obiettivo; voglio che rimanga questo carattere duplice: educativo e terapeutico. Si guarisce e si educa solo nell’amore per l’arte e tramite di questo amore può essere solo l’amore di un maestro.

Psicoanalisi contro n. 3 – CONTRAPPUNTO A TRE VOCI: MUSICA, ARTE E PSICOANALISI

mercoledì, 1 dicembre 1993

Si dice che l’arte viva nel regno dell’emotività. Da secoli si dice questo;
ma da sempre per me questa affermazione è incomprensibile. Io penso che non sia possibile nell’uomo isolare l’emotività dagli altri aspetti della persona. Per me l’arte è soprattutto bisogno di comunicare secondo determinate regole, chiamate regole dell’arte. L’arte è comunicazione per mezzo dell’arte.
Cioè è un gatto che si morde la coda. Poesia come fare qualcosa che sia arte. Questo fare mi sfugge e mi coinvolge, mi destruttura e mi stimola, in queste righe, come psicoanalista, voglio parlare dell’arte e in particolare delle due forme d’arte che mi sono vicine: il teatro e la musica. Costruirò un piccolo contrappunto a tre voci per dire qualcosa intorno ad un argomento che per me è di grande importanza.
La psicoanalisi è sempre stata affascinata dal teatro: i simboli del teatro, i suoi personaggi e soprattutto il suo realizzarsi all’interno di uno spazio immaginario e figurato lo rendono simile ai sogni, con tutta la carica di significati profondi ed oscuri da cui i sogni sorgono.
La terapia psicoanalitica stessa è molto vicina ad una rappresentazione teatrale. Per il paziente operare il transfert sull’analista non vuol dire altro che
recitare con lui la propria storia. il passato rivive tra le tranquille pareti di uno studio e il terapeuta, rintanato nella sua poltrona, veste, di volta in volta, i panni del padre, della madre, del fratello maggiore, della nonna ecc.
Per fortuna la psicoanalisi non è riducibile a questo scheletrico e riduttivo teatrino. Il teatro della psicoanalisi e ben più ricco e profondo. Non è il caso, però, di affrontare qui questo argomento.
La musica, invece, ha interessato stranamente molto meno gli psicoanalisti sia nella loro pratica sia nel momento dell’elabora zione teorica. Penso che il motivo principale di questo disinteresse sia dovuto ad un elemento fortuito e anche un po’ squallido: i grandi padri della psicoanalisi e della psicologia dinamica, Freud in testa, erano desolatamente ignoranti in campo musicale. In seguito, vi sono stati psicoanalisti che si sono sforzati di colmare questa lacuna; senza però riuscirvi.
La psicoanalisi si è sempre trovata più a suo agio quando ha avuto a che fare con le espressioni artistiche della letteratura e delle arti figurative che con il mondo dei suoni: i saggi di Freud e di Kris ne sono ladimostrazione.

Pare essere in contraddizione con queste constatazioni il fatto che la psicologia, addirittura prima della psicoanalisi, abbia usato la musica come mezzo terapeutico. Oggi il termine e la pratica della «musicoterapia» sono diventati di moda. In Italia però, sulla musicoterapia in particolare, o, più in generale, sulle relazioni tra psiche ed espressione musicale, ci sono studi molto scarni che si richiamano soprattutto ad esperienze geograficamente lontane, e che queste esperienze ripetono in modo rozzo e acritico.

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Io ho sentito, fm da subito, il fascino degli intrecci complessi relativi al rapporto con i problemi estetici ed artistici ed ho tentato di pormi con i miei strumenti psiconalitici anche di fronte all’espressione artistica. Le ragioni di questo interesse sono forse altrettanto fortuite e banali di quelle che stavano all’origine del disinteresse che la psicoanalisi mostrò per la musica: il fatto è che ho un passato e un presente di compositore musicale e di autore di teatro Una storia per altro molto tradizionale: preparazione «classica», studi di pianoforte, armonia, contrappunto, ecc.; poi la gavetta nei teatrini off: molto impegnati, allegri e anche un po’ angoscianti. Le prime musiche di scena dal rock all’imitazione del barocco; poi la voglia di fabbricare, oltre che le musiche, anche le situazioni, scrivere le parole, inventare i gesti: il teatro acquista un autore. Io sono stato affascinato, oltre che dal teatro per adulti anche da quello per bambini. Mi verrebbe voglia di dire che i bambini sono più… degli adulti per qualche aspetto; ma più che cosa? Forse è più saggio e meno scorretto dire che sono bambini e basta. Pian piano, intanto, gli studi di psicologia e di psicoanalisi in particolare, stavano acquistando importanza e significato la mia analisi personale e gli stanzoni di un’ospedale psichiatrico in cui vengo a trovarmi, prima come studente e poi come uno che cerca di fare qualcosa, mi stravolgono e mi destrutturano. Contemporaneamente, soprattutto la notte vivevo romanticamente la bohème della musica e del teatro

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La grande importanza psicologica del teatro non deriva soltanto dal fatto che le sue produzioni fantastiche permettono giochi mentali quali l’indentificazione o la proiezione con o sui personaggi; e neppure perché l’inconscio lo usa, spesso, per i suoi giochi simbolici. Sarebbe forse più corretto dire che il teatro non tanto è importante per la psiche, quanto coincide proprio con la psiche. La psicoanalisi classica ha unito e nello stesso tempo ha staccato dall’Io individuale una formazione psichica inconscia chiamata Super-Io.
Questa misteriosa unità non è soltanto la coscienza morale di ognuno di noi; è anche un occhio che osserva, cioè uno spettatore. Questa è una delle più geniali intuizioni di Freud: ognuno di noi è attore e spettatore di se stesso. Una psicoanalisi vecchia e tradizionalista vuole che questo spettatore sorga nell’individuo dopo alcuni anni di vita, ad un punto dello sviluppo del bambino, successivo a quello in cui si sarebbe formato l’Io. E questo Io, a sua volta, si formerebbe abbastanza tardi. Questo romanzetto mi sembra poco credibile. Sono convinto che ogni bambino ha, o meglio è fm da subito un Io.
Non abbiamo il diritto di negare all’essere umano appena nato sentimenti, emozioni, gusti e desideri e pensieri organizzati, soltanto perché sono espressi in modi differenti dai nostri e per noi, di conseguenza, difficilmente decifrabili. Oltre che essere convinto che il bambino è fin da subito un Io strutturato, sono anche convinto che egli nasca programmato per la «relazione» con l’altro. Non solo il neonato si offre, all’altro; ma si esibisce.
Il cucciolo dell’uomo non nasce autosufficiente, le mani dell’adulto lo accolgono, lo proteggono, e lo violentano. Non ha senso affermare che il bambino abbia un rapporto privilegiato con il seno materno.

Questa è una proiezione delle madri, ben comprensibile; ma che ha, secondo me, un significato che riguarda soprattutto loro. Il bambino ricerca l’altro e gli si esibisce; gli altri lo toccano, e lo nutrono, lo riscaldano e lo spaventano: il Super-Io è, immediatamente li presente, giudice e spettatore. Io vado ancora più indietro: penso che il rapporto con l’altro sia cominciato anche prima, in quel ventre caldo, amico ed ostile allo stesso tempo.
Noi recitiamo sempre anche quando siamo soli: per spettatori del passato, del presente o del futuro. Non è soltanto l’allucinazione «schizoparanoide» che proietta all’esterno questo spettatore diventato persecutore. Ogni essere umano, bambino oppure adulto, non riuscirà mai a vivere soltanto; ciascuno reciterà sempre un poco. Poi, in un secondo momento, questo teatro diviene oggettivo, diviene «teatro secondo», cioè cultura; poi ancora diviene «teatro terzo», cioè il teatro vero e proprio.

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Il teatro, quindi, come ho detto, non solo ha un significato psichico essenziale; è la struttura stessa della psiche.
Una cosa che ritengo, oltre che ridicola, estremamente riduttiva è la favoletta medioevale e continuamente ripetuta che fissa la nascita dell’essere umano al momento in cui viene partorito. Ritengo anche scorretto scientificamente e politicamente, sostenere che la vita intrauterina sia soltanto felice, annegata in un inconsapevole caldo mare protettivo. Questa non è che una stupidissima e delittuosa invenzione borghese, utile a chi vuole continuare a sfruttare nella fabbriche
e nei campi il lavoro della donna incinta: «Tanto ci pensa la natura a proteggere quella vita dentro il corpo della donna». Le frustrazioni, gli stress, le angosce della madre,
e probabilmente anche le tensioni emozionali dell’ambiente, aggrediscono il feto che si sta preparando a venire al mondo. La vita intrauterina ha caratteristiche sue proprie: probabilmente le immagini visive, i colori e le espressioni verbali non fanno parte dell’esperienza immediata del feto. La sua esperienza consiste infatti in una situazione corporea basata essenzialmente sul ritmo di una pulsazione. Il ritmo scandisce la vita dell’embrione; un ritmo scandito non solo dalle pulsazioni, contrazioni dell’organismo embrionale in contrappunto con l’organismo materno; ma un ritmo in cui il bambino che sta per nascere sente e, forse, aspetta i movimenti, le andature, gli spostamenti anche spaziali della madre. Pulsazioni che forse sono anche suono interiore.
Che cosa è questo se non musica?

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Io non penso che la musica sia un fatto essenzialmente sonoro, anzi la musica ha scoperto il suono e se ne è appropriata. Ogni volta che si tenta di risalire alle origini di qualche cosa si fa della mitologia; questo vale anche per la vita intrauterina quale la ipotizzo io quando parlo del suo significato essenzialmente musicale. Io credo che anche operativamente la musica possa essere un mezzo terapeutico di cui si possono giovare tanto la gestante che l’embrione. Per questo sto mettendo a punto alcune tecniche di intervento che non è il caso qui di esplicitare, anche perché sono per il momento imprecise e nebulose; ma che si rifanno alla mia convinzione che la musica sia un fatto prima di tutto collegato al ritmo vitale e solo poi riportabile all’aspetto della sonorità. Il teatro e la musica hanno quindi un significato che non è soltanto estetico e possono perciò (a mio parere debbono) essere usati sia quando ci proponiamo di costruire una metapsicologia che quando pensiamo di intervenire in campo terapeutico. Questo è il mio tentativo.
Il teatro e la musica possono essere usati prevalentemente in due modi che sono legati tra di loro da fili sotterranei e tenaci, anche se appaiono molto diversi ad una prima osservazione.
Il primo modo è quello di far agire il teatro e la musica. Far agire il teatro significa stimolare le persone ad esprimersi attraverso tante situazioni teatrali che non sono poi altro che le situazioni che ognuno si trova a vivere, per lo più inconsciamente, in ogni istante.

Fare agire la musica vuole dire stimolare nelle persone le profonde capacità di emettere suoni, esprimersi in un ritmo e in una danza, fino ad appropriarsi di un linguaggio musicale ed essere in grado di cantare e suonare uno strumento, da soli o in rapporto con altri.
Il secondo modo è quello di far subire il teatro e la musica. Cioè: presentare allo spettatore, all’ascoltatore un prodotto teatrale o musicale già costruito.
Quando accenno alla diversità solo apparente di questi due modi di porsi nei confronti del teatro e della musica voglio intendere che non c’è più partecipazione, o più spontaneità, o più creatività in uno che nell’altro. Quando si agisce non si è mai completamente liberi e spontanei, perché si seguono sempre, con maggiore o minore consapevolezza, moduli preesistenti e in parte condizionanti, e siamo allo stesso tempo anche spettatori di noi stessi e di chi agisce con noi. Così come quando ci poniamo come spettatori non siamo mai completamente passivi, ma interpretiamo e contribuiamo a creare il senso di ciò che si-sta rappresentando davanti a noi. La partecipazione emotiva e la lettura interpretativa costruiscono anche la percezione di ciò che stiamo ascoltando od osservando.
L’utilità pedagogica e terapeutica del teatro e della musica, quando sono agiti, è abbastanza evidente; forse meno evidenti sono i pericoli, talvolta gravi, che possono nascondersi dietro questo agire.
Osserviamo prima gli aspetti positivi: attraverso la rappresentazione di personaggi diversi esibiti a noi stessi e ad altri, riusciamo talvolta a spezzare la barriera di atteggiamenti fisici e psichici stereotipi e irrigiditi; riusciamo a vivere con accettazione consapevole stati d’animo molto diversi tra di loro che normalmente rifiuteremmo; balzano evidenti desideri rimossi oppure agiti con cattiva coscienza.
Anche l’esporsi costituisce rappresentazione, anche il cercare nuove positure del corpo, ascoltare e percepire la nostra corporeità insieme con quella degli altri: diventa importante acquistare la capacità di toccare il nostro corpo e il corpo degli altri ed imparare a farci toccare. Gli adulti soprattutto hanno il corpo irrigidito da rituali che hanno finito per calar loro addosso imprigionandoli. Alcuni si ribellano a questi rituali assumendo atteggiamenti e positure fisiche anticonformistiche; spesso il rimedio finisce con l’essere peggiore del male: vediamo in questi casi corpi sgangherati e sudici, ipertesi in una provocazione ritualizzata quanto i riti a cui intende opporsi, talora anche peggio.
La riappropriazione del corpo deve avvenire attraverso il piacere dato e ricevuto nel tentativo di ascoltare e assecondare il ritmo e la musica interni. È necessario essere consapevoli che la «spontaneità» è impossibile: il nostro agire segue sempre dei moduli, l’importante è scegliere quei moduli che siano in accordo con il nostro bisogno di benessere e con le nostre reali possibilità di comunicare con gli altri.
La musica è anche, sempre, linguaggio: importante non è diventare capaci di emettere suoni scoordinati ed autistici; ma imparare ad assaporare il suono, costruendo con esso la possibilità di comunicazione. L’espressività a tutti i costi può costare il prezzo di una dissociazione psicotica in temperamenti predisposti alla disintegrazione psichica. Questo dovrebbe essere tenuto presente da molti animatori teatrali i quali senza nessuna preparazione psicologica e psicoanalitica fanno recitare, nella scuola, o altrove, i bambini, non essendo in grado, per lo più, di controllare le piccole esplosioni che possono causare nelle personalità in formazione le interpretazioni di certi moli o di certi personaggi.
Questi animatori spesso si compiacciono della bizzarria delle soluzioni e della partecipazione emozionale dei bambini che danzano e recitano, senza però rendersi conto che qualche volta favoriscono con gravi attacchi distruttivi la compattezza del sé; attacchi che spingono i malcapitati bambini sulla strada dell’angoscia e del disorientamento piuttosto che su quella auspicata della ricchezza emozionale e dell’appropriazione del piacere. È

però altrettanto importante, dal punto di vista terapeutico e pedagogico (oltre che culturale, s’intende) imparare a fare lo spettatore: ad assistere e ad ascoltare, subire una rappresentazione o una musica agite da altri. Nella nostra società è assai difficile trovare persone capaci di ascoltare ed osservare gli altri. Quelli che io chiamo meccanismi narcisistici di chiusura sono continuamente presenti negli pseudo-rapporti che si costituiscono ogni giorno.
Uno spettacolo teatrale o un brano di musica sono strutture articolate e ricche di possibilità emozionali• imparare a leggere con attenzione e partecipazione, senza allontanarsi in fantasie autistiche, è un esercizio psichico fondamentale. L’incapacità di «stare attenti» (espressione, questa, cara alle maestre di vecchio stampo) è il primo impedimento all’arricchimento culturale e alla comunicazione.
Saper ascoltare, saper guardare, sono i modi migliori per spezzare la chiusura narcisistica.

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La psicoanalisi infantile usa da molto tempo l’osservazione del gioco come chiave di lettura dell’inconscio del bambino. Il bambino, giocando, rappresenta la sua storia, le sue pulsioni e i suoi conflitti. È indispensabile, quindi, come ho già detto, avere la preparazione e la capacità psichica di partecipare in qualche modo a queste rappresentazioni. Vorrei ora esporre alcune esperienze tratte dal mio lavoro degli anni scorsi. Un gruppo di bambini di ambo i sessi tra i sette e i nove anni, senza particolare problemi psicologici evidenti, inizia una esperienza di ricerca espressiva e sonora. Si inizia con un primo periodo di presa di contatto e di conoscenza, anche corporea, del gruppo nella sua totalità, compreso anche il terapeuta. Bambini e terapeuta indossano soltanto una calzamaglia Per qualche tempo si parla e si gioca senza alcuna direttiva, poi il terapeuta propone di allestire uno spettacolo teatrale. Non c’è alcun elemento scenico a disposizione, soltanto i corpi. I bambini non vogliono interpretare personaggi, ma propongono una situazione. Unico elemento esterno: due note che vengono fatte ascoltare da un registratore un do e il sol una quinta sopra, che riproducono un disegno ritmico molto dilatato. I bambini decidono di usare questo ritmo come commento di una storia più articolata. In seguito viene presentato uno strumento che emette le due note con ritmi che possono essere scelti e variati a piacere. A questo punto i bambini decidono di distribuirsi le parti. Usano il corpo del terapeuta e le due note come personaggi. Lentamente si fa sentire nei bambini l’esigenza di una musica più complessa. I personaggi della storia divengono via via sempre più precisi. I brani musicali, ovviamente in disco, vengono scelti con cura e discussi. A questo punto nel terapeuta sale l’ansia a causa dell’estrema disponibilità corporea dei bambini; cerca di razionalizzare; le chiacchierate si rivelano utili non solo al terapeuta. L’esperienza è articolata in una serie abbastanza numerosa di incontri. È parsa estremamente positiva dal punto di vista pedagogico e psichico molto limitata però da un elemento che si rivela determinante. I bambini e il terapeuta avrebbero cioè dovuto essere completamente nudi e il terapeuta avrebbe dovuto avere meno paura delle richieste erotiche dei bambini. A inibire il potenziale di questa esperienza sono state, è vero, anche le preoccupazioni per le conseguenze giudiziarie possibili; ma si è trattato soprattutto dell’impossibilità e dell’incapacità del terapeuta di gestire la situazione e la propria ansia. Se, con sprezzo delle leggi, il coinvolgimento fisico con i bambini si fosse realizzato, l’ansia del terapeuta si sarebbe però trasferita sui bambini stessi.
Le considerazioni psicologiche che si potrebbero trarre da questa esperienza, per quanto astratte, sono molte. Le principali sono:

1) i bambini hanno un profondo desiderio nei confronti degli adulti. La continua frustrazione di queste richieste ha indubbiamente un profondo significato nella nostra cultura;
2) una educazione al contatto epidermico dei corpi nella loro totalità riuscirebbe a sbloccare il rituale ossessivo della nostra cultura, irrigidito nella ipervalutazione del fallo e nella centralità sessuale degli organi genitali e del coito;
3) fondamentale è stato l’intervento della musica come fattore scatenante delle pulsioni libidiche.

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L. era un ragazzetto di circa otto anni, diagnosticato psicotico grave con forti componenti autistiche ed esplosioni autodistruttive. Trascorreva i giorni in modo abbastanza tranquillo, un po’ assente, amava mettere in ordine gli oggetti dell’ambiente in cui si trovava e anche manipolarsi i genitali a lungo. Quando si dedicava a quest’ultima occupazione assumeva un’espressione seria e un po’ sofferente. Spesso, ma non sempre, dopo queste manipolazioni assumeva un atteggiamento prima ansioso e poi esaltato e tentava di difendersi, o comunque di procurarsi lesioni scaraventandosi, per esempio, contro gli spigoli delle pareti o dei mobili. Passata la crisi ritornava una relativa calma. Il terapeuta avvicinò per la prima volta L. durante una crisi abbastanza violenta. Aiutato da un’assistente, prese L. tra le braccia, stringendolo molto forte. L. si dibatté a lungo senza però gridare né piangere; poi si assopì, il terapeuta si sdraiò sul lettino tenendo L. su di lui. Durante gli altri incontri L. fece richiesta di sdraiarsi nuovamente sul corpo del terapeuta. Dopo qualche tempo il terapeuta incominciò un movimento ritmico del proprio corpo e a poco a poco i due corpi incominciarono quasi a danzare. Successivamente il terapeuta sempre stringendo il corpo di L. tra le braccia, si mise, durante gli incontri, a suonare, con una certa fatica, il pianoforte. Per tutto il periodo (otto mesi) per cui durarono gli incontri, non ci furono più atteggiamenti autolesionistici; ma non scomparvero gli altri atteggiamenti di assenza. Furono anche possibili alcuni dialoghi, dai quali emerse, con evidenza, che L. aggrediva il proprio corpo per appropriarsene e per ricercare un contatto con altri corpi. Forse per desiderio di imitare il terapeuta, ma, pensiamo non solo per questo, L. espresse più tardi il desiderio di iniziare lo studio del pianoforte.
M. era una donna di circa quaranta anni, ricoverata da dieci anni in ospedale psichiatrico, inizialmente in seguito ad un episodio schizofrenico di tipo persecutorio, era poi andata sempre più decadendo fisicamente e psichicamente, ancora in grado comunque di fare qualche lavoretto di pulizia; il linguaggio era poverissimo ed abbastanza disarticolato. Il terapeuta arrivando un giorno in reparto si sentì dire che M. era stata molto cattiva ed aggressiva con una suora. Il terapeuta entrò nella stanza in cui erano sistemati gli strumenti musicali e si mise all’organo, iniziando a suonare. M., avvicinatasi, disse di voler cantare. Usando un modulo musicale molto semplice dalla struttura estremamente arcaica, diffuso in tutta l’Italia centrale, M. cominciò a cantare a squarciagola, raccontando ed aggiungendo, sempre cantando, tutta una serie di osservazioni e di riflessioni sull’accaduto. Altre volte M., sempre usando lo stesso stereotipo melodico, volle cantare, a condizione però di essere accompagnata all’organo dal terapeuta, racconti relativi ad episodi della vita d’ospedale o avvenimenti della vita passata. Il linguaggio si rivelava sempre abbastanza ricco con punte espressivamente molto efficaci ed anche umoristiche. Una volta, avvicinandosi al terapeuta, indicando l’organo, M. disse: «Per favore, chiacchieriamo un poco».
La musica, il ritmo, il corpo, la rappresentazione, sono stati usati negli esempi sopra citati, utilizzando sempre parametri psicoanalitici e avendo sempre intenti di analisi. Il problema era di poter stabilire un minimo di comunicazione e rendere attuali i desideri.

L’importante è che ci rifiutiamo di usare in modo semplicemente comportamentistico qualunque tecnica noi intendiamo usare e quindi anche la musicoterapia od ogni altra terapia espressiva. La riappropriazione deve avere sempre come fine la consapevolezza. Lavorare per costruire solo automi obbedienti e magari anche felici non ci interessa. In Italia, ancora più che altrove, la musica e l’espressività sono usate essenzialmente per condizionare, per manipolare, le persone senza permettere loro di riappropriarsi, realmente, di nulla. Sono parecchi gli studi che sono stati fatti nel corso dei secoli per studiare l’influenza della musica sugli stati d’animo. Già Platone aveva sostenuto che esistono diversi tipi di musica che inducono nell’individuo emozioni diverse: musiche esaltanti e musiche snervanti. Molte persone, per lo più non musicisti, credono tuttora in questa ingenua stupidaggine. Sono state fatte addirittura ricerche per determinare quali siano i genere di musica o addirittura i compositori che inducono questa o quella emozione. Sono state messe a punto tabelle con le quali si tenta di dare al musicoterapeuta sprovveduto alcuni parametri di intervento, assolutamente ridicoli, in base ai quali, per esempio, il tal compositore romantico indurrebbe sentimenti di calma e quell’altro un po’ di depressione, e come e quando e quanto di tale musica va «somministrata». Quell’ouverture sarebbe esaltante e quel preludio rilassante e così via.
È vero, forse, che vi possono essere brani musicali che per alcuni aspetti esteriori possono essere definiti, grossolanamente, tristi o allegri, energici od estenuanti ecc. La credenza popolare ha addirittura inventato le ninne nanne per indurre il sonno nei bambini: la monotonia melodica e la pacata ritmicità di questi brani può effettivamente in molti casi, rilassare il bambino ed indurlo a dormire.
Le ninne nanne però hanno effetti diversissimi su ogni singolo bambino, la cosa che le accomuna è che costituiscono un tentativo per combattere la noia di chi culla il bambino e non sa come far passare il tempo. La ricerca delle musiche da usarsi in campo musicoterapeutico deve essere sempre estremamente mirata; il lavoro deve essere
fatto per ogni singola persona e, soprattutto, insieme con ogni singola persona. Un esempio che valga per
tutti: ad un soggetto ansioso e molto sensibile alla musica viene fatta ascoltare una ninna nanna che possiede, almeno apparentemente, tutte le caratteristiche di sviluppo melodico e ritmico in grado di indurre la calma e la distensione che da una ninna nanna ci si aspetta. Invece, quasi subito, la persona in questione non riesce a stare ferma, a controllarsi, si alza dal letto in preda ad un attacco di ansia molto forte che, lì per lì, pare inspiegabile al terapeuta. In seguito, dopo un lavoro di analisi si viene a scoprire che proprio quella era la canzoncina cantata al paziente dalla madre, nei primissimi anni di vita; poiché si era venuto in seguito a formare un grosso nucleo inconscio di conflittualità intorno al rapporto con la figura materna, il richiamo causato dalla ninna nanna era stato fortemente ansiogeno e quanto mai inatteso.

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Io credo che ogni persona abbia introiettato alcuni moduli musicali che sono divenuti suoi tipici. Moduli ritmici, elementari, intervalli e così via. Questi moduli musicali hanno iniziato a formarsi nell’inconscio individuale, probabilmente, fin dalle prime esperienze dei ritmi interni del ventre materno. Queste prime introiezioni hanno determinato i primi elementari meccanismi di selezione sonora che, a loro volta, introiettati, sono venuti a formare la preistoria dei gusti musicali dell’individuo. Ovviamente poi, la storia personale ha lentamente modificato ed arricchito i moduli musicali interni, giungendo talvolta persino ad inibire la capacità di cogliere il linguaggio della musica.
Ogni persona possiede però, questi moduli ritmo-melodici propri; ed è possibile determinarli con una tecnica abbastanza semplice. Riproposti all’ascolto della stessa persona questi moduli riveleranno la capacità di produrre risonanze psichiche stupefacenti. Su questi moduli, inoltre, è possibile con﷓
durre un’indagine strettamente psicoanalitica oppure, anche, lavorare per costruire più o meno complicate composizioni musicali.

A questo punto si aprirebbe il discorso relativo all’educazione musicale: è estremamente complesso. Per il momento, voglio solo dire che ogni persona dovrebbe essere in grado di compone musica come è in grado di comporre frasi con il linguaggio verbale. Il semi-analfabetismo musicale che ci affligge è molto diffuso persino tra coloro che sono in grado di strimpellare uno strumento. Tutti i bambini sono compositori potenziali e partendo dai loro moduli musicali personali è possibile metterli in grado di comporre con estrema facilità. Essere in grado di diventare Beethoven o Strawinsky è poi un altro discorso, come altro è parlare e altro essere Shakespeare.
La musica è un linguaggio che tutti posseggono, ma che in moltissimi è stato distrutto o troppo rimosso. Come abbiamo detto, il bisogno di teatralità è ineliminabile perché è il modo stesso di muoversi della psiche. L’essere umano recita sempre: È però estremamente grave aver operato nella nostra cultura la castrazione dell’aspetto musicale. Il lavoro sul teatro, sull’espressività e sulla musica è appena iniziato.