Ci sono voluti più di due anni per assemblare con due milioni e mezzo di bulloni i quindicimila pezzi che compongono i trecento metri della torre che l’ingegner Eiffel aveva progettato per l’esposizione universale del 1889, destinata ad essere smontata poco dopo ed invece diventata il simbolo permanente di Parigi, discusso ed odiato da molti e fra gli altri detestato da Verlaine che era disposto a qualunque deviazione pur di non passare nei paraggi ed essere costretto a vederla. Il ristorante JULES VERNE è collocato al secondo piano della torre, a 123 metri di altezza: vi si accede dal pilastro sud con un ascensore riservato e ci si ritrova in un ambiente di molte pretese, tutto arredato in nero, con grandi vetrate che consentono di godere a trecentosessanta gradi della vista di Parigi, lusso esterno che si aggiunge al lusso dell’interno. Qui opera da anni un grande chef di nome Alain Reix che ne ha fatto un vero punto di riferimento per l’alta cucina parigina a cui si accede soltanto dopo mesi di paziente attesa. I piatti proposti sono addirittura in grado di condurre al delirio chi li gusta ed allo stesso tempo hanno un’intrinseca impronta genialmente delirante che deriva dalla scelta di esaltare di ogni piatto gli ingredienti secondari, talvolta umili, rispetto all’elemento principale che è di sua natura sempre nobilissimo.
Quando ci siamo arrivati, la sera di San Silvestro, abbiamo avuto l’esperienza che segue:
L’amuse bouche di uova di quaglia sul crostino di fegato di anatra accoppiato impeccabilmente con il Kir fatto con Aligoté e Cassis. Il foie gras de canard au torchon, épices douces à l’écorce d’orange, originale per un sentore leggero come un’eco che ricorda la castagna e cremosissimo, è esaltato dal profumo d’arancia; noi lo abbiamo abbinato con un Vouvray Moelleux del 1976, un vino della regione della Loira, le cui uve quasi macerate danno questo morbido liquore, dorato e sontuoso, fruttato di cotogna e moscato che lo rendono non meno adatto al fegato del giustamente celebrato Sauternes.
La marinata di coquilles Saint-Jacques aux truffes, salade frisée aux artichauts, quasi perfetta, malgrado un eccesso di prezzemolo fresco nel piatto, proponeva in modo evidente il predominio del tartufo che invece forse avrebbe dovuto essere solo di cornice alla leggerezza impalpabile delle capesante.
L’homard en bouillon de poule au cèpes ripresentava il rapporto inverso rispetto alla tradizione tra i porcini trionfanti e l’umiltà dell’aragosta passata nel brodo di gallina.
Il dos de bar aux pommes écrasées et caviar Sévruga fortunatamente non cadeva nella trappola di mettere in evidenza le patate schiacciate e trovava un bell’equilibrio tra le uova di storione e il branzino.
Sui tre piatti di pesce abbiamo ritenuto giusto soffermarci su un Puligny Montrachet del 1993, un bianco di Borgogna di ottima stoffa, dal profumo di mela, biancospino e un leggero sentore umido di bosco.
Il filetto di cerva poelé, con la composta salata ai fruits d’hiver si presentava come un piatto all’antica, stracotto, forse servito più freddo del consentito, il che contribuiva a falsare i rapporti tra i vari elementi del contorno di frutta. Non abbiamo avuto la mano felice con un Margaux del 1988, un Bordeaux rosso la cui etichetta abbiamo letto forse con distrazione, soprattutto caratterizzato da un forte e amaro goudron.
Il formaggio bianco e cremoso:Vacherin à la cuillère, salade de mache, saporito e fresco è stato il preludio di una ganache pralinée, sablée au beurre demi-sel, autentico coup de théatre dello chef: soffice cioccolata e mandorle aeree, incorniciate da un biscotto cosparso di sale, come elemento fondamentale che per contrasto esaltava ogni sfumatura del dolce.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare in un ambiente così pretenzioso, il servizio si distingue per una cortesia quasi affettuosa, mentre è invece assolutamente prevedibile il conto addirittura astronomico!
Archivio di dicembre 1998
34 – Dicembre ‘98
martedì, 1 dicembre 1998Psicoanalisi contro n. 34 – Breve compendio di teoria e storia delle psicoterapie (3^parte)
martedì, 1 dicembre 19987. In generale possiamo dire che la terapia debba entrare in azione quando il disagio dell’essere umano si è manifestato, allora il terapeuta, usando le conoscenze che ha a sua disposizione, interviene per ripristinare la cosiddetta salute, fisica o psichica. L’intervento terapeutico si articola in parecchi momenti: anamnesi, diagnosi, terapia vera e propria. In senso stretto viene messo in discussione se faccia parte della terapia la profilassi, ovvero quegli interventi sulla persona o sulla realtà che la circonda atti a prevenire il disturbo, certo è che la profilassi costituisce il momento più “sociale” della cura. In particolare vi sono modalità terapeutiche in cui i diversi momenti della cura sono difficilmente isolabili: la scienza dell’alimentazione, per esempio, può intervenire su un disturbo oppure indicare un comportamento. Stile di vita, sport, urbanistica, agricoltura, ecologia e difesa dell’ambiente, con tutte le eventuali implicanze politiche, sono altrettanti possibili interventi di profilassi e addirittura di cura. Sono forse da considerare affini alle terapie anche certe tecniche di evitamento, come avviene nel caso di allergie o idiosincrasie patologiche.
In tutti i casi, fa parte dell’atteggiamento terapeutico anche la valutazione del rapporto costi-benefici, sia in senso assoluto, sia in senso relativo. Determinati stili di vita, che dipendono dai ritmi di lavoro, dalla qualità del cibo, e persino dall’inquinamento atmosferico possono determinare lo sviluppo di alcune patologie; ma talvolta contrastarli avrebbe costi eccessivi, come avverrebbe per esempio se si decidesse paradossalmente di eliminare ogni forma di locomozione di mezzi di trasporto veloci funzionanti ad energia “artificiale”: si eliminerebbe l’inquinamento e ridurrebbe la mortalità, ma a costi socialmente non sostenibili per la nostra civiltà. Un compromesso è quello verso cui ci si è orientati, fissando regole di comportamento, stabilendo limiti alle soglie di inquinamento, incentivando le ricerche per l’impiego di energie cosiddette “pulite” e per il conseguimento della maggior sicurezza possibile. La salute è un bene, oltre che individuale, anche sociale che va difeso in ogni sede anche non strettamente terapeutica e questa difesa è un dovere politico e morale, oltre che scientifico. Paradossalmente, il mondo conosce anche situazioni al cui interno i rapporti costi-benefici sono adeguati ad un altissimo livello della qualità di vita, ma ciò avviene a spese delle popolazioni di aree molto vaste alle quali viene imposto di sostenere tutto il peso di una scelta altrui.
È più importante privilegiare la salute e l’equilibrio psicofisico dei bambini in quanto adulti di domani oppure investire nel presente, popolato però da quelli che erano i bambini di ieri? È chiaro che un principio di giustizia sembrerebbe pretendere per ogni uomo la stessa massima sollecitudine possibile, dal momento del suo concepimento a quello della sua morte.
8. La psicologia è la scienza della psiche e la psicoterapia è la sua applicazione nella cura. Dal punto di vista conoscitivo e terapeutico si possono dividere le terapie psichiche in: neurologia, psichiatria e psicologia clinica.
La neurologia studia l’anatomia del sistema nervoso centrale e periferico, il suo funzionamento e le possibili alterazioni, dal punto di vista strettamente cellulare. Le altre due sono sovrapponibili: si potrebbe dire che la psichiatria è praticata da medici ed interviene con i farmaci, mentre la psicologia clinica opera per mezzo di non medici e non si serve di farmaci. Oggi, però, la psicologia clinica è praticata sia da medici sia da non medici e spesso fa ricorso ai farmaci.
a) La neurologia rigorosamente farmacologica o chirurgica, somministra il farmaco od effettua l’intervento che reputa più adatto, osserva le reazioni ed eventualmente corregge la prescrizione o la posologia, senza affrontare col paziente le motivazioni del suo disagio, limitandosi ad un ascolto frettoloso dell’anamnesi, su cui basa la sua diagnosi, riferita a qualche schema clinico precostituito. È questo un tipo di terapia di basso profilo che affronta i problemi ad un livello soltanto meccanicistico, che trascura l’analisi delle possibili cause del disagio e rimane legata a una concezione positivistica ottocentesca. Proprio per queste ragioni, può essere messa in discussione la legittimità di un suo inserimento tra le psicoterapie propriamente dette.
b) La psichiatria riconosce l’esistenza di alcune dinamiche psichiche, talvolta arriva a servirsi delle categorie di lettura proprie della psicologia del profondo; tenta di intervenire con i farmaci o con tecniche psicoterapeutiche legate al comportamentismo che hanno soprattutto lo scopo di inibire i comportamenti ritenuti patologici o devianti; è questo un approccio che può essere estremamente vario, secondo la formazione del terapeuta e le sue convinzioni culturali, secondo le quali viene dosato il rapporto tra il farmaco e la psicoterapia.
A fianco di queste forme di terapia che valutano in modo più o meno organicistico o più o meno psicologico il disturbo psichico c’è poi da considerare la posizione di chi lo considera esclusivamente frutto della situazione sociale e quindi non si propone di intervenire sul malato, ma interviene sulla società: è questa la posizione dell’ «antipsichiatria» degli anni ‘70, che oggi sta ritornando in auge.
c) La psicologia clinica interviene sul disagio con tecniche che in linea di principio, almeno alle origini, avrebbero dovuto escludere ogni ipotesi di intervento chirurgico o farmacologico.
Oggi questo non è più vero, le diverse scuole psicoterapeutiche valutano ciascuna a suo modo il rapporto con la farmacologia e fanno ricorso a tecniche di ogni tipo: da quelle puramente verbali a quelle strettamente corporee, passando per le più articolate modulazioni e dosaggi di ingredienti.
9. Una forma particolare di psicoterapia — che oggi è articolata in una miriade di varianti — è quella che si propone di curare attraverso la presa di coscienza, da parte del malato, delle ragioni profonde del suo disagio: questa psicoterapia può essere rigorosamente terapia della parola, oppure può associare ad essa il farmaco o il gesto, ma sempre con lo stesso obiettivo di permettere l’analisi del profondo, e di guarire attraverso l’interpretazione del significato originario dei sintomi che riesce così a cancellare o almeno a controllare.
Cosa voglia dire salute psichica ancora non si sa, certo è che varia secondo i contesti ambientali e sociali; quale che sia però il contesto ed il criterio per cui si reputa necessario intervenire terapeuticamente, soltanto il metodo che si serve della presa di coscienza pare oggi rispettare ovunque la persona presa in considerazione come paziente. Il terapeuta può servirsi di una benzodiazepina per attenuare l’ansia, ma realizza correttamente il suo ruolo solo se prevede nel quadro terapeutico la possibilità di dare al suo paziente gli strumenti per prendere consapevolezza delle ragioni inconsce per cui l’ansia si è insediata. La presa di coscienza non prescinde neppure dalle spiegazioni organicistiche e funzionali, ma ristabilisce l’unità della persona e la rispetta.
Non c’è limite al concetto di psicoterapia, ma l’approccio corretto è solo quello che passa attraverso la presa di coscienza da parte del malato.
Due sono le derive possibili: 1) quella che riconosce alla presa di coscienza una certa utilità, ma che ne rifiuta l’efficacia terapeutica, senza l’appoggio di farmaci che modifichino sostanzialmente o funzionalmente i sistemi neuro-psichici coinvolti; 2) quella che pensa che i sintomi più o meno gravi siano espressioni di contenuti soltanto inconsci ed esperienziali e che vadano curati esclusivamente all’interno di un ambito psicodinamico, rifiutando ogni sussidio farmacologico.
Non c’è invece contraddizione nell’applicazione dei farmaci all’interno delle terapie psicodinamiche, né ve ne è nell’operazione inversa di inserire a fianco del farmaco un lavoro di elaborazione ed interpretazione che ha come fine la presa di coscienza. I sintomi vanno combattuti con tutti i mezzi, ma la liberazione dal disagio non si realizza con la loro semplice scomparsa – che, sia detto per inciso, è spesso dapprima uno spostamento o una trasformazione – la quale è solo il primo passo verso la guarigione. In occidente, oggi, lo strumento privilegiato di comprensione è la ragione, che è considerata una delle funzioni principali della mente, situata nel complesso apparato cerebrale. Ciò potrà un giorno nuovamente essere contraddetto, come è avvenuto in altri tempi ed avviene in altri luoghi, da altre genti e altre culture, ma deve rimanere valido per noi.
Tutte le tecniche terapeutiche hanno quindi valore solo per i risultati positivi che ottengono, restituendo la massima felicità possibile a chi patisce nel dolore della malattia, quale che sia la Weltanschauung, sempre opinabile, che le sottende. Che la psicoterapia sia una scienza ed una pratica suggestiva è innegabile, oggi come ieri, ma il valore che dobbiamo considerare come minimo comune per definirla ed accettarla come tale è quello per cui viene riconosciuta comunque come espressione della capacità che solo un uomo può avere di comprendere l’altro uomo.
Forse va aggiunto che nessun uomo ha il diritto di intervenire sul suo simile, senza aiutarlo a comprendere quale è il progetto di cura e il concetto di salute a cui fa riferimento, al fine di permettergli tutta la libera scelta possibile, e ciò vale sia in campo psicologico, sia in qualunque altra forma di cura.
Qual è allora l’essenza della psicoterapia? 1) una psiche umana che tenta di capire la psiche di un altro uomo; 2) l’intenzione di usare questa comprensione per superare il disagio psichico; 3) l’obiettivo finale della presa di coscienza.
Date queste premesse, si può considerare psicoterapia ogni forma di psicologia clinica, dinamica e non dinamica, individuale e di gruppo, compresa tra quelle sopra elencate o anche in aggiunta, purché non escluda esplicitamente l’ipotesi della presa di coscienza da parte del paziente.
In ogni caso il terapeuta deve essere consapevole che il suo fine è di alleviare la sofferenza e che il solo male incurabile è la morte, che si può rinviare, ma non sconfiggere. La presa di coscienza, raggiunta insieme dal paziente e dal terapeuta, è la vera e sola forma di psicoterapia possibile. Questo significa passare dal campo dei giudizi di fatto a quello dei giudizi di valore, poiché porta a concludere che la terapia migliore è la psicoterapia a base dinamica, in quanto è la sola che pone esplicitamente come proprio obiettivo finale la presa di coscienza delle strutture più profonde dell’inconscio.