Archivio di agosto 1998

Psicoanalisi contro n. 30 – L’uomo nero

sabato, 15 agosto 1998

Il 10 dicembre 1948 1′O.N.U. promulgava la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In precedenza in seno alla stessa organizzazione ne erano già state tentate alcune bozze nel 1942 e nel 1945. I Paesi aderenti cercavano così di dare una risposta alle aberrazioni totalitaristiche che il mondo aveva conosciuto fino a pochi anni prima.

Il problema dei diritti dell’uomo era già stato affrontato in passato, nel 1789, dall’ Assemblea Nazionale in Francia ed una ventina di anni prima era stato preso in considerazione nei Bills of Rights degli stati americani che si erano ribellati al colonialismo inglese. Il clima in cui era maturata tale sensibilità era quello del giusnaturalismo della cultura filosofica illuministica e liberale, che affermava l’esistenza di principi naturali ed universali, inalienabili ed uguali per tutti gli uomini, ai quali deve uniformarsi ogni diritto positivo. Dal Settecento ad oggi due sono state le posizioni che si sono fronteggiate in proposito: da una parte il giusnaturalismo illuministico – corrente filosofico-politica che ritiene esista un diritto uni versale basato sulle leggi della natura – che impone allo Stato il dovere della tutela, sempre e comunque, di tali diritti universali validi per tutti gli uomini; dall’altra parte la posizione di chi sostiene che il diritto è tale solo all’interno di uno Stato che abbia posto un limite al proprio potere stipulando con i cittadini un patto regolato attraverso le leggi positive.
La dichiarazione del 1948 si rifaceva, più o meno consapevolmente, all’antico giusnaturalismo, ribadendo l’esistenza di diritti universali che non possono essere negati e che valgono per tutti gli uomini, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione.
Essi sono al di sopra degli usi e costumi dei singoli popoli e la comunità internazionale ha il dovere di impegnarsi perché siano rispettati sempre ed ovunque. Di fatto la storia ha continuamente contraddetto questo principio: che pure è rimasto e rimane, almeno teoricamente, come un obiettivo da raggiungere.

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In effetti il cosiddetto relativismo culturale, corrente dell’antropologia contemporanea che ha il grande merito di esortare tutti ad esprimere il giudizio soltanto mettendosi dal punto di vista della civiltà che si intende giudicare, è di fatto contrario al principio dell’universalità dei diritti umani.
Lévi Strauss, il grande antropologo relativi sta, in un suo intervento all’UNESCO disse che «le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno, anch’esse, la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali i cui mutamenti più rivoluzionari lasciano sussistere intere zone e si spiegano a loro volta in funzione di una situazione strettamente definita nel tempo e nello spazio. Preso fra la duplice tentazione di condannare esperienze che lo urtano sul piano affettivo e di negare differenze che non comprende intellettualmente, l’uomo moderno si è abbandonato a cento speculazioni filosofiche e sociologiche per stabilire vani compromessi fra questi poli contraddittori, e rendere conto della diversità delle culture pur cercando di sopprimere quanto tale diversità conservava per lui di scandaloso ed urtante».
Che atteggiamento si deve assumere nei confronti di pratiche che la nostra cultura e il nostro senso morale ritengono aberranti come quella della schiavitù, che ancora esiste in alcune regioni dell’Africa nera?
È giusto che l’organizzazione delle nazioni unite metta in opera tutto il suo potere per impedire la compravendita di esseri umani?
Se a una tale domanda sembra facile rispondere in senso affermativo, diventa però più difficile la risposta quando si tratta di intervenire su pratiche che rispecchiano altri aspetti della cultura dei popoli.
Come legittimamente aspettarsi che certe tradizioni «barbariche» vengano superate dal progresso della «civiltà», senza rischiare di sopraffare razzisticamente i popoli diversi da noi?
Anche la nostra cultura conosce abitudini aberranti che sono diventate rituali moderni, come la violenza negli stadi, l’emarginazione degli anziani, le stragi dello «sballo» del sabato sera dopo la discoteca.
La funzione della scuola potrebbe essere fondamentale al fine del superamento di queste contraddizioni: prima di tutto non nascondendole e contribuendo alloro chiarimento all’interno della nostra società, e soltanto in seguito ponendosele come problema nei confronti degli usi e costumi degli stranieri la cui diversità tanto spaventa.

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Ogni essere umano è diverso dall’altro ed è proprio per questa diversità che ciascuno di noi, confrontando si con gli altri che lo circondano, percepisce la propria identità. Spesso la follia è caratterizzata dalla sensazione di disperdersi, di non percepire i confini tra il sé e il fuori di sé: i fantasmi interni vengono proiettati all’esterno e ci si difende da loro aggredendo, ma restando in realtà prigionieri di violenza e disperazione.
Ognuno recita tanti personaggi, nessuno è completamente quello che appare o che crede di essere. Ciascuno è la somma delle maschere che indossa, volta per volta, nel rapporto con gli altri per i quali è il medico, il fratello, il figlio, uno spettatore, un innamorato, uno che prende il sole sulla riva del mare…
Se però l’individuo fosse soltanto la somma di tutte le maschere, si perderebbe nell’infinità delle rappresentazioni: in realtà un nucleo solido esiste, anche se non è facile identificarlo e definirlo, come sa molto bene chi pratica la psicoanalisi.
Fantasia e realtà, di ieri e di oggi, si sovrappongono e si mescolano con proiezioni ed identificazioni continue che si spostano tra il sé e il fuori di sé. L’Io però ha una sua persistenza nel tempo e nello spazio, oltre che nella fantasia. lo sono io perché mi riconosco in alcuni gesti che compio e nella relazione che mi dirige verso l’altro, che è diverso da me.
La percezione di questa diversità fonda l’identità dell’Io: che non è però una gabbia che imprigiona, ma, pur essendo sfuggente e contraddittoria, permette al Sé di riconoscersi e di riconoscere l’altro.
Non si può vivere senza schemi, senza regole, senza principi: la spontaneità assoluta è un pericoloso mito, irraggiungibile ed assurdo. È necessario sapere come ritrovare se stessi e come farsi riconoscere dall’altro.
L’Io è il punto di riferimento, il nucleo intorno al quale ruotano i sentimenti di amore e di odio, di rifiuto e desiderio.

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Se però l’altro fosse assolutamente diverso da me, tanto da non poter proiettare su di lui parte di me stesso, o da non potermici parzialmente identificare, l’altro per me sarebbe un nulla incomprensibile e sfuggente, con cui non potrei entrare in rapporto. Per incominciare a conoscere qualcosa o qualcuno che non si conosce bisogna poter partire da un elemento già noto, proprio come si fa quando si apprende il procedimento della scrittura con l’insegnante che ci aiuta nel passaggio dall’immagine al suono e da questo al segno grafico. L’albero è un’immagine, ma è anche un suono, che incomincia con la vibrazione della lettera a: da quell’immagine e da quel suono si giunge ad una terza entità, che è una parola scritta su di un foglio. Quando i bambini hanno incominciato a conoscere gli alberi? Probabilmente li hanno sempre conosciuti, perché un messaggio genetico permette loro di riconoscerli quando li vedono. L’inizio della conoscenza è un riconoscere quello che già in qualche modo era noto ed è registrato nel patrimonio ereditato dal concepimento; ma perché ciò sia possibile è necessario che le cose assomiglino a quelle che in quel patrimonio sono inscritte. Senza la somiglianza e senza la diversità non si potrebbe incominciare a conoscere e a riconoscere il mondo e neppure se stessi. Gli altri sono riconoscibili perché mi assomigliano e allo stesso tempo sono diversi da me; questa diversità e questa somiglianza mi permettono di riconoscere quindi anche me stesso.

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Talvolta però la diversità mette a disagio e fa paura. L’altro è diverso, ma il diverso può essere causa di disorientamento, se non riesco a trovare in lui gli elementi che mi permettono di riconoscerlo e quindi di conoscerlo. Il diverso che non conosco mi fa paura perché temo mi possa aggredire, possa mettere a rischio la mia integrità, insidiare quello che io possiedo come patrimonio affettivo, culturale e materiale. Il diverso viene da un altro mondo, ha abitudini che io non conosco, la sua morale contraddice la mia. È vero tutto questo? Il pericolo di essere aggredito può essere reale e non solo fantastico, ma lo stesso pericolo può venire solo da un diverso o anche da un simile? Perché temiamo maggiormente l’aggressione del diverso da noi?
Fin da bambini abbiamo avuto paura dell’uomo nero, un uomo cattivo così diverso dal nostro buon papà. L’uomo nero è un fantasma acquattato nel profondo dell’inconscio, una maschera che il bambino crede che non vorrà mai portare, ma che poi trasmetterà ai suoi figli quando ripeterà con loro il gioco terrificante. Il diverso diventa l’incarnazione concreta di quel fantasma infantile, si teme che voglia farci male, e allora ci si ritiene in diritto di aggredirlo per primi.

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Il razzismo e la xenofobia sono fondati su fantasie patologiche che fanno riaffiorare l’uomo nero, di cui non abbiamo mai smesso di avere paura: e con noi ne hanno paura i genitori, gli insegnanti, gli amici. I bambini-spesso assumono espressioni di terrore all’avvicinarsi di un estraneo, mai visto, si nascondono dietro gli adulti, piangono e vogliono fuggire. Le mamme e gli altri adulti sono soddisfatti di questa paura che rimette tutta la fiducia solo in loro. Sono pochi i bambini che, fiduciosi, si avvicinano ad uno sconosciuto, con un sorriso, e in questo caso i famigliari non nascondono una certa protettiva e gelosa preoccupazione: timorosi dell’espropriazione preferiscono fantasticare ed inculcare il sentimento del pericolo. Sono queste tra le prime radici del futuro uomo malato di razzismo e xenofobia.

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Un’altra possibilità è quella di vedere nel diverso il portatore della novità che rende più ricchi, perché non solo con la sua diversità conferma la nostra identità ma anche è capace di spezzare la chiusura narcisistica di chi non ha altri interlocutori al di fuori di esseri uguali a se medesimo. Essere curiosi della diversità dell’altro vuol dire essere capaci di avvicinarglisi senza timore, disponibili a dare e a ricevere quello che di utile può essere scambiato. Se il diverso realmente aggredisce è segno di salute sapersi difendere, ma se la prudenza non è pregiudizio malsano, la chiusura immotivata ed assoluta è segno di ottusa violenza, espressione di una personalità troppo piccola per reggere il confronto con l’altro da sé.
Ciò significa anche perdere l’opportunità di arricchirsi di valori. Capire gli altri significa sapersi mettere dal loro punto di vista, diceva un filosofo del Settecento. Mettersi dal punto di vista del diverso vuol dire capirlo ed in parte appropriarsi dei valori possibili contenuti nella sua diversità. Svalutare il diverso vedendo in lui solo l’aggressore, l’inferiore che può essere sfruttato, solo il povero che chiede a noi qualcosa che gli manca, significa mantenere rigida la gabbia dei nostri timori che lo escludono ma che ci rinchiudono in un gioco di morte reciproca.
I bambini apprendono dagli adulti le regole della diffidenza verso lo straniero che si immagina venuto per aggredire e rubare. Eppure guardando da vicino quell’uomo nato sotto altri cieli, con la pelle di un colore appena diverso dalla nostra, possiamo scoprire che ha negli occhi la nostalgia per qualcosa che non conosciamo e che gli dà la stessa luce che ritroviamo in noi quando siamo lontani da casa. Ecco che allora ci si rende conto di quanto ci sia simile nel ricordo della casa, della famiglia, degli amici, della terra lasciata dietro di sé. Questa scoperta di avere di fronte uno come noi, e quindi di poter essere come lui, però ci terrorizza: abbiamo paura di quello che possiamo diventare e forse già siamo. Scoprirsi uguali ad un altro può essere motivo di rassicurazione e di gioia per chi si sente a proprio agio nella sua pelle; ma chi non è saldo nella sua identità, chi è malato, si spaventa e diventa aggressore per vincere la sua paura, per annullare quell’immagine di sé che non riesce ad accettare. Il risultato può essere il razzismo dichiarato oppure quella forma di cripto-razzismo che allontana da se l’altro, osservandolo come un oggetto che obbedisce alle leggi di un mondo su cui non si esprime alcun giudizio semplicemente perché è un altro dal nostro. Il cosiddetto relativismo culturale è la forma acculturata di questo cripto-razzismo che accetta formalmente l’altro, allontanandolo e relegandolo in un suo universo, senza dargli la possibilità di interagire.

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Diversità e somiglianza sono due realtà dinamiche che ci permettono di conoscere l’altro e riconoscere noi stessi, di interagire, unire gli sforzi per il benessere nostro e altrui.
Basta la buona volontà per superare quelle miglia di mare che fanno di lui uno straniero in questo luogo e di noi farebbero degli stranieri nella sua patria.
L’uomo appartiene ad una sola specie: le nazioni e i popoli sono formati da individui ai quali debbono essere riconosciuti sempre ed ovunque la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi sentimenti, le stesse speranze. Inventarsi la diversità per poter odiare è un’astuzia diabolica che va contro l’umanità intera.
Il razzismo e la xenofobia sono i pericolosi annunci dell’odio che predispone ognuno di noi a voler distruggere tutti gli altri; ma un uomo solo nell’universo non saprebbe sopravvivere e neppure perché vivere.
Benvenuto quindi sia chi arriva di lontano in cerca di una nuova casa, di nuovi fratelli.

Psicoanalisi contro n. 30 – Razzismo e sessualità

sabato, 15 agosto 1998

Nel nostro Paese la gravità dei problemi di ordine sociale ed economico non ha incominciato a farsi percepire con l’avvento del fenomeno dell’immigrazione, ma certo l’arrivo di popoli molto diversi per razza, colore e cultura ha determinato una fase per qualche aspetto nuova. Prima l’immigrazione era soprattutto interna, con flussi di passaggio da una regione all’altra del territorio nazionale, che determinavano tuttavia conflitti non lievi e fenomeni di emarginazione tra i residenti e gli «ospiti» culminati con episodi sporadici, ma clamorosamente significativi, simbolicamente concentrati poi nell’intolleranza delle tifoserie calcistiche, un campanilismo che di fatto era una vera manifestazione di patologico razzismo di massa verso chi pur tuttavia era cosi poco «diverso».

L’attuale società multi-razziale ha moltiplicato le occasioni del conflitto, con la moltiplicazione delle varianti che per la sua stessa natura essa implica. Si incontrano e scontrano i costumi di popolazioni spesso fino a ieri sconosciute le une alle altre ed ora a stretto contatto anche nelle manifestazioni più quotidiane: dal modo di pregare a quello di mangiare e di praticare il sesso.
Nascite, matrimoni e morti sono celebrati in modo diverso e spesso incomprensibile; da parte di tutti si fa fatica a capire, e le difficoltà economiche esasperano il quadro complessivo ingenerando stanchezza ed intolleranza; diviene così predominante la voglia di chiudersi nella cerchia dei propri simili, respingendo ogni proposta di accettazione della diversità considerata come un’ aggressione.

L’ostilità è il tratto caratteristico della relazione con l’altro e per l’immigrato spesso quest’ostilità si aggiunge ad un’ analoga ostilità sofferta in patria. La somma dei fattori di disagio diventa opprimente per tutti, in condizioni in cui manca lo spazio, il cibo, il lavoro; ma a questi oggettivi dati di fatto va aggiunto un elemento che non ha molto a che fare con essi.

Agli inizi del secolo erano azzimati giovanotti per bene i magrebini che arrivavano in Francia inviati dalle loro ricche famiglie a studiare nelle università di quel Paese, e il loro desiderio di integrazione era fuori di ogni ragionevole dubbio. Ma a fronte dei pochi che ci riuscirono si registrò una maggioranza che reagì chiudendosi in un umiliato separatismo alla curiosità dei francesi avidi di esotismo, ansiosi di indagare su costumi presunti «selvaggi» di un’Africa che non corrispondeva alla realtà da cui provenivano, considerata terra di riti barbarici, di donne velate, di costumi primitivi e sanguinari. Quei giovani furono vittime di un razzismo forse falsamente benevolo e comunque immune da ogni motivazione sociale, del tipo di quelle che caratterizzano la discriminazione razziale verso le successive ondate di lavoratori arabi delle ex- colonie, venuti a cercare in Francia quel pane che mancava loro in patria. A quel punto fu chiaro in Francia, ed è chiaro altrove, che la pretesa era di sancire la sostanziale inferiorità di chi avendo colore, odore e costumi diversi, può solo aspirare ad un ruolo subalterno. La lotta per la difesa dei diritti della diversità rese poi addirittura chiaro che la cosa che nessun bianco poteva accettare era l’idea che uomini di un altro colore potessero essere considerati simili ed uguali.

Questa somiglianza negata è la radice più profonda del razzismo: negandola si vuole negare la possibilità di ogni scambio di ruolo e ad essa si aggiunge il sentimento primario di espropriazione che si prova di fronte all’altro che viene a chiederci di dividere con lui un bene qualunque: cibo, affetto, sentimento, che nella famiglia borghese è emblematicamente rappresentato dalla gelosia e dall’odio che il primogenito prova verso il nuovo fratello. Se i fratelli non riescono a superare la patologia che questo odio manifesta, la famiglia rimane spezzata.

Lo stesso avviene nel tessuto sociale: se il bisogno di negare la somiglianza con chi appare diverso, e l’odio per chi viene di fuori a chiedere di mettere in comune i beni a disposizione non sono superati, si generano razzismo e xenofobia, anche indipendentemente dai conflitti che i pretesti sociali, politici e culturali possono scatenare.
Lo straniero viene cacciato perché comunque è venuto per portare via qualcosa che non gli compete e perché cerca un contatto che gli è interdetto in quanto lecito solo tra simili.

Le macro-società hanno però reagito in modo diverso dalla famiglia borghese, e a partire dai tempi dell’imperialismo romano, su su fino alla costituzione delle grandi metropoli europee – veri crogioli di razze e di popoli – la curiosità per il diverso ha favorito la fantasia a sfondo sessuale e l’attrazione-repulsione per il «contatto» fisico. Il desiderio e la contemporanea sua negazione hanno originato per lo più lo scontro, senza però annullare la ricerca di quel particolare piacere primario. In tempi moderni la speculazione politica ed il colonialismo economico e culturale hanno rafforzato la rimozione del sentimento di piacere sottolineando soprattutto i rischi del contatto con la diversità: malattie, veneree e non, aggressività e violenza.

Poco serve dire che ci sono infiniti altri pericoli, assolutamente «domestici» che non provocano un rifiuto così profondo degli eventuali portatori. Un errato senso della politica a lungo andare ha permesso e rafforzato la mistificazione di un concetto apparentemente semplice come quello di «nemico», identificandolo erroneamente con il «diverso».

I maschi neri super-virili o le femmine orientali lussuriose e lascive sono stati per secoli oggetto delle fantasticherie di una letteratura della malafede, che ha però lasciato sedimenti profondi nell’inconscio individuale e sociale.
Il fatto che oggi siamo di fronte a tali realtà in carne ed ossa ci indurrebbe a verificare almeno attraverso il contatto la consistenza di quelle antiche fantasie; ma allo stesso tempo agiscono le discriminazioni, le paure ed i tabù.

Il razzismo e il desiderio sessuale sono mescolati e creano disorientamento, perché non si è più capaci di ritrovare l’antico e primario «piacere da contatto» che ricerca il corpo dell’altro senza violenza, né espropriazione; più indispensabile all’uomo dello stesso cibo che lo tiene in vita e della stessa sessualità che ne perpetua la specie.