Psicoanalisi contro n. 30 – Razzismo e sessualità

agosto , 1998

Nel nostro Paese la gravità dei problemi di ordine sociale ed economico non ha incominciato a farsi percepire con l’avvento del fenomeno dell’immigrazione, ma certo l’arrivo di popoli molto diversi per razza, colore e cultura ha determinato una fase per qualche aspetto nuova. Prima l’immigrazione era soprattutto interna, con flussi di passaggio da una regione all’altra del territorio nazionale, che determinavano tuttavia conflitti non lievi e fenomeni di emarginazione tra i residenti e gli «ospiti» culminati con episodi sporadici, ma clamorosamente significativi, simbolicamente concentrati poi nell’intolleranza delle tifoserie calcistiche, un campanilismo che di fatto era una vera manifestazione di patologico razzismo di massa verso chi pur tuttavia era cosi poco «diverso».

L’attuale società multi-razziale ha moltiplicato le occasioni del conflitto, con la moltiplicazione delle varianti che per la sua stessa natura essa implica. Si incontrano e scontrano i costumi di popolazioni spesso fino a ieri sconosciute le une alle altre ed ora a stretto contatto anche nelle manifestazioni più quotidiane: dal modo di pregare a quello di mangiare e di praticare il sesso.
Nascite, matrimoni e morti sono celebrati in modo diverso e spesso incomprensibile; da parte di tutti si fa fatica a capire, e le difficoltà economiche esasperano il quadro complessivo ingenerando stanchezza ed intolleranza; diviene così predominante la voglia di chiudersi nella cerchia dei propri simili, respingendo ogni proposta di accettazione della diversità considerata come un’ aggressione.

L’ostilità è il tratto caratteristico della relazione con l’altro e per l’immigrato spesso quest’ostilità si aggiunge ad un’ analoga ostilità sofferta in patria. La somma dei fattori di disagio diventa opprimente per tutti, in condizioni in cui manca lo spazio, il cibo, il lavoro; ma a questi oggettivi dati di fatto va aggiunto un elemento che non ha molto a che fare con essi.

Agli inizi del secolo erano azzimati giovanotti per bene i magrebini che arrivavano in Francia inviati dalle loro ricche famiglie a studiare nelle università di quel Paese, e il loro desiderio di integrazione era fuori di ogni ragionevole dubbio. Ma a fronte dei pochi che ci riuscirono si registrò una maggioranza che reagì chiudendosi in un umiliato separatismo alla curiosità dei francesi avidi di esotismo, ansiosi di indagare su costumi presunti «selvaggi» di un’Africa che non corrispondeva alla realtà da cui provenivano, considerata terra di riti barbarici, di donne velate, di costumi primitivi e sanguinari. Quei giovani furono vittime di un razzismo forse falsamente benevolo e comunque immune da ogni motivazione sociale, del tipo di quelle che caratterizzano la discriminazione razziale verso le successive ondate di lavoratori arabi delle ex- colonie, venuti a cercare in Francia quel pane che mancava loro in patria. A quel punto fu chiaro in Francia, ed è chiaro altrove, che la pretesa era di sancire la sostanziale inferiorità di chi avendo colore, odore e costumi diversi, può solo aspirare ad un ruolo subalterno. La lotta per la difesa dei diritti della diversità rese poi addirittura chiaro che la cosa che nessun bianco poteva accettare era l’idea che uomini di un altro colore potessero essere considerati simili ed uguali.

Questa somiglianza negata è la radice più profonda del razzismo: negandola si vuole negare la possibilità di ogni scambio di ruolo e ad essa si aggiunge il sentimento primario di espropriazione che si prova di fronte all’altro che viene a chiederci di dividere con lui un bene qualunque: cibo, affetto, sentimento, che nella famiglia borghese è emblematicamente rappresentato dalla gelosia e dall’odio che il primogenito prova verso il nuovo fratello. Se i fratelli non riescono a superare la patologia che questo odio manifesta, la famiglia rimane spezzata.

Lo stesso avviene nel tessuto sociale: se il bisogno di negare la somiglianza con chi appare diverso, e l’odio per chi viene di fuori a chiedere di mettere in comune i beni a disposizione non sono superati, si generano razzismo e xenofobia, anche indipendentemente dai conflitti che i pretesti sociali, politici e culturali possono scatenare.
Lo straniero viene cacciato perché comunque è venuto per portare via qualcosa che non gli compete e perché cerca un contatto che gli è interdetto in quanto lecito solo tra simili.

Le macro-società hanno però reagito in modo diverso dalla famiglia borghese, e a partire dai tempi dell’imperialismo romano, su su fino alla costituzione delle grandi metropoli europee – veri crogioli di razze e di popoli – la curiosità per il diverso ha favorito la fantasia a sfondo sessuale e l’attrazione-repulsione per il «contatto» fisico. Il desiderio e la contemporanea sua negazione hanno originato per lo più lo scontro, senza però annullare la ricerca di quel particolare piacere primario. In tempi moderni la speculazione politica ed il colonialismo economico e culturale hanno rafforzato la rimozione del sentimento di piacere sottolineando soprattutto i rischi del contatto con la diversità: malattie, veneree e non, aggressività e violenza.

Poco serve dire che ci sono infiniti altri pericoli, assolutamente «domestici» che non provocano un rifiuto così profondo degli eventuali portatori. Un errato senso della politica a lungo andare ha permesso e rafforzato la mistificazione di un concetto apparentemente semplice come quello di «nemico», identificandolo erroneamente con il «diverso».

I maschi neri super-virili o le femmine orientali lussuriose e lascive sono stati per secoli oggetto delle fantasticherie di una letteratura della malafede, che ha però lasciato sedimenti profondi nell’inconscio individuale e sociale.
Il fatto che oggi siamo di fronte a tali realtà in carne ed ossa ci indurrebbe a verificare almeno attraverso il contatto la consistenza di quelle antiche fantasie; ma allo stesso tempo agiscono le discriminazioni, le paure ed i tabù.

Il razzismo e il desiderio sessuale sono mescolati e creano disorientamento, perché non si è più capaci di ritrovare l’antico e primario «piacere da contatto» che ricerca il corpo dell’altro senza violenza, né espropriazione; più indispensabile all’uomo dello stesso cibo che lo tiene in vita e della stessa sessualità che ne perpetua la specie.