Archivio di dicembre 1993

Psicoanalisi contro n. 3 – IL GIUDIZIO UNIVERSALE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Il concetto di sublimazione è un concetto soltanto apparentemente semplice. All’interno del pensiero freudiano ha una
collocazione precisa ed è organico e coerente con quel sistema teorico nel suo complesso: la pulsione sessuale non si dirigerebbe sempre e direttamente verso la propria soddisfazione, ma si trasformerebbe, spesso, fornendo cosi l’energia sufficiente alla realizzazione delle attività più importanti per la società civile: l’arte e la scienza. L’energia sessuale, incanalata in queste attività, sarebbe soprattutto quella perversa, cioé quella che più massicciamente viene repressa, o meglio, rimossa tramite l’educazione. I desideri perversi non sono anomalie di una personalità malata, ma sono presenti in tutti fm dai primi istanti di vita, dice S. Freud. Due tendenze, una interna all’individuo e l’altra esterna, contribuiscono, durante l’infanzia e la prima adolescenza, a costruire l’essere umano psichicamente sano; la pulsione sessuale, dall’interno, nella sua ricerca di soddisfazione, lentamente, supera ostacoli, trova modi e oggetti per sfogarsi secondo natura; l’educazione e i precetti sociali, dall’esterno, contribuiscono a far sì che tutto questo avvenga e non è dato di sapere quale tra le istanze sia la più importante. Il concetto di sublimazione descriverebbe ed espliciterebbe l’uso che l’evoluzione naturale
e i condizionamenti sociali fanno del di più di energia sessuale che rimane inespressa. Che in tutte le attività umane e quindi anche nella produzione artistica e scientifica sia palesemente presente il desiderio sessuale sembra così evidente da non richiedere nessuna dimostrazione. Il concetto di sublimazione sembrerebbe perciò quanto mai ovvio e consequenziale alla teoria freudiana; in realtà, così come lo ha enunciato S. Freud e collocato nel suo pur geniale pensiero, è un concetto o inutile, pleonastico, o addirittura antieconomico; è inutile in quanto non spiega nulla, antieconomico perché pone una serie di problemi irresolvibili che si affollano, rendendo eccessivamente complicato ed oscuro il concetto stesso di sessualità. Questo è il destino di ogni sistematizzazione teorica, che quanto più coerente, tanto più vede affollarsi attorno le contraddizioni e scagliarlesisi contro una varietà di concetti oscuri. Da quando esistono scienza e filosofia, nessuno è ancora riuscito a produrre una teoria organica e coerente non solo nei confronti del mondo esterno, ma neppure nel proprio interno. Allora i casi sono due: o si smette di elaborare teorie oppure si accetta questo dato di
fatto L’esaltazione della contraddizione come elemento vivificatore è giusta e mortifera allo stesso tempo. Giusta in quanto esprime l’accettazione della vita, cosi com’è, nonostante tutto; mortifera perché contraddice questa stessa accettazione, disorientando l’essere umano che, nel suo vivere, nonostante tutto, vuole capire ed avere punti di riferimento.

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Il concetto di sublimazione è però più pericoloso e contraddittorio di altri, anche all’interno del pensiero freudiano; perché impoverisce, rendendola praticamente incomprensibile, la pulsione sessuale e ancor più impoverisce queste due attività umane già sufficientemente ambigue che sono l’arte e la scienza. Freud ha sempre contrapposto alla pulsione sessuale un altro tipo di pulsione: in una prima teorizzazione vi ha contrapposto la pulsione dell’Io e di autoconservazione, in una seconda teorizzazione vi ha contrapposto la pulsione di morte che opponendosi alla pulsione di vita si contrappone anche alla sessualità che di quest’ultima fa parte. La pulsione è energia dice Freud e questa energia dalla natura e dall’educazione deve essere in qualche modo, incanalata, guidata e manipolata. Non soltanto i desideri sessuali vengono in parte rimossi e deviati: anche altre energie pulsionali non sessuali non sempre trovano il loro soddisfacimento immediato, ad esempio, un desiderio di cibo prolungatamente frustrato o una pulsione aggressiva inibita come trasformano la loro carica energetica? Di ciò non si parla. Se l’arte e la scienza si caricassero anche di questa energia diverrebbero una specie di polveriera pericolosamente instabile, ma nonostante tutto non si capisce perché sia proprio il desiderio sessuale stesso a defluire nell’arte e nella scienza. Dietro a tutto, inoltre, viene dato per scontato ciò che scontato non è, cioé che l’arte e la filosofia siano le due attività superiori del vivere civile, quasi fossero le uniche. Ma allora la sessualità che cosa è? La terza tra le attività superiori dell’essere umano? Oppure non è altro che una penosa necessità? Anche sul genio del grande viennese pesano millenni di repressione sessuale.
Senza dubbio pesano, come pesano su di me ehe scrivo e su voi che leggete. Queste contraddizioni però sono eccessive, sia perché antieconomiche e sia perché esprimono una profonda e spaurita difesa nei confronti della sessualità. La psicoanalisi e non soltanto quella freudiana, in genere, ha avuto sempre due spauracchi: la biochimica, la farmacologia, la psicofarmacologia, da un lato e l’arte dall’altro. Il primo fa paura perché umilia il desiderio di onnipotenza della psicoanalisi insinuando che la psiche potrebbe essere controllata anche da elementi chimici che talvolta sortiscono effetti più rapidi e immediati della parola illuminante dello psicoanalista. Perciò la psicoanalisi ha scelto di negare questo tipo di intervento; non ha scelto di contestarne la validità che pur sarebbe segno di un atteggiamento vitale nei confronti del problema ma di negarne l’esistenza. La psicoanalisi lascia che gli interventi farmacologici siano gestiti dagli psichiatri, visti o come alchimisti o come pazzi irresponsabili.
Il secondo spauracchio è l’arte che disorienta del tutto per un motivo molto semplice: è troppo simile alla psicoanalisi. E allora se l’arte è così simile alla psicoanalisi, la psicoanalisi può non essere una scienza e si troverebbe a braccetto con l’impalpabile assurdità della poesia e della musica, della pittura ed del teatro; e gli psicoanalisti sarebbero troppo simili a quegli stravaganti esseri chiamati artisti; grandi magari, ma tutti leggermente squilibrati. Lo psicoanalista deve capire l’artista, mentre l’artista non ha bisogno di capire, ma deve accettare di farsi capire. Come sono stupidi gli scienziati. Quando vogliono essere scienziati!

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Io sono uno psicoanalista e sono anche un artista; non sono però uno psicoanalista-artistao un artista-psicoanalista: sono scisso? No: sono una cosa e l’altra. Sono più artista o più psicoanalista? Questo proprio non mi interessa. Mi sono chiesto spesso se sono un bravo artista o un bravo psicoanalista. Queste sono domande che mi fanno paura. Credo, però, che un essere umano si debba sempre chiedere se fa bene quello che fa. Non voglio riportare qui il caso di una persona che fa analisi con me; voglio,un po’ esibizionisticamente parlare di me. Io mi ritengo un artista che sa fare il suo mestiere: lavoro con cura alle mie opere, una attenta cura artigianale. Io non so che cosa sia l’ispirazione, o forse non voglio saperlo. Io sono una persona entusiasta di tutto quello che fa e non solo quando fa l’artista. Certo, ci sono momenti in cui mi sembra che le cose mi riescano meglio; non so quando mi riescono meglio , se di giorno o di notte, se in città o in campagna, quando sono allegro o triste, sobrio o. ubriaco. So soltanto che quando sono profondamente innamorato e I amore riesce ad avvolgermi in un’intensa attività sessuale lavoro meglio come artista; capisco di più gli altri, me, il mondo, e queste mie produzioni strane, che sento mie ed estranee nello stesso tempo. Allora la sublimazione cosa è? So di aver lavorato bene anche nei momenti in cui la malinconia e la mancanza mi opprimevano, però, l’entusiasmo che tutta la mia persona prova quando un altro corpo si fonde con il mio, mi dà un’energia tale per cui ho l’impressione di lavorare meglio; sono consapevole che ciò non è del tutto vero, ma sono certo che non lavoro peggio. E allora che ne è della sublimazione?

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Perché io sono diventato anche un artista? Perché alcune persone dicono di essere artisti? Quando si decide di diventare artisti? Non lo si decide mai, perché artisti lo si è tutti e sempre. Ho detto una banalità, ma è una banalità teneramente vicina al vero: tutti gli esseri sono artisti, perché nessuno è mai se stesso. L’artista è il menzognero per eccellenza, purché sia menzognero per amore! E tutti viviamo anche un po’ per amore. Se conoscessimo soltanto l’odio, l’aggressività, la distruttività, l’egoismo, non saremmo esseri umani,saremmo qualcos’altro, forse il diavolo? Non saremmo esseri umani. Eros abita un po’ in ognuno di noi, da sempre, ed Eros ci insegna a recitare, cioé ad esprimerci, raccontando favole, con le mani, con i piedi, con il corpo, con i colori, con i suoni, con gli occhi, con i genitali. Io passo molto tempo tra gli ulivi, in una
casa nei dintorni di Roma: a pochi chilometri c’è un villaggio, antico borgo medioevale, dice un cartello dell’ente turismo.
In una stradina, poco dopo un arco, una stradina meravigliosa, che sa ancora di fumo di legna, una ragazzetta stava badando ad un bambino che teneva tra le braccia e gli raccontava una storia, in una mano aveva un bastoncino: il bastoncino roteava, quella ragazza era bella, coi capelli castani; quel bastoncino era il giudizio universale.
Ma se siamo artisti, chi è l’artista? Perché qualcuno si dice artista? Soltanto perché, per un gioco di mercanti, di sale di concerto, di editoria, quello che fanno viene prezzolato, proprio come il gioco assurdo delle collezioni di francobolli? Indubbiamente è anche così: un essere umano viene preso, quello che produce viene definito prodotto artistico, perché così viene etichettato e allora, può essere venduto come le arance, nelle buste di plastica, con su scritto: tarocchi. Ma non è soltanto così; tutti vorrebbero essere artisti e grandi artisti, solo alcuni però diventano artisti e ancor meno sono i grandi artisti. Sempre ritorna il prezzo, sempre ritornano i mercanti, le sale di concerto e gli editori. Ma non è tutto qui: per essere artisti, bisogna conoscere Eros, e questo è indispensabile. Per essere grandi artisti Eros deve entrare dentro di noi e farci vivere teneramente innamorati, sempre, perennemente innamorati; poi si sarà schivi come Beethoven, aggressivi come Caravaggio o direttamente incarneremo Eros come uno solo ha saputo fare, nella storia del mondo: W.A. Mozart. Senza l’amore non si può neppure cominciare: ma tutti ne hanno almeno un po’ e tutti possono cominciare; poi qualcuno si ferma, perché ha paura, perché deve fare altro, perché ha vergogna. Chi non ha paura, chi non vuole fare altro, chi non ha vergogna, che cosa deve fare? Deve imparare una tecnica. E’ un artista, con l’etichetta, soltanto colui che conosce una tecnica, imparata con cura assidua, con fatica, prima da un maestro e poi da sè,
sempre nel ricordo del maestro. L’artista è solo colui che possiede una tecnica, tutti gli altri sono esseri umani che giocano con un bastoncino.

Quando e come si diventa psicoanalisti? Quando si è imparata la tecnica. Le doti naturali sono qualcosa di così ambiguo e inessenziale che sono imposssibili a definirsi. Indubbiamente per essere psicoa nalisti come per essere artisti bisogna essere sani. Sani dove? Sani nella persona, sani perché non si
ha paura di Eros e si ha voglia di comunicare, e poi perché si è appresa una tecnica. Ma allora gli psicoanalisti e gli artisti sono la stessa cosa? No, non sono per nulla la stessa cosa; però entrambi debbono avere acquisito una tecnica e questa tecnica li definisce. Io sono uno psicoanalista e sono un artista. Non ho detto quale è la mia arte: vorrei dirlo, ma adesso non ho più spazio.

Psicoanalisi contro n. 3 – CONTRAPPUNTO A TRE VOCI: MUSICA, ARTE E PSICOANALISI

mercoledì, 1 dicembre 1993

Si dice che l’arte viva nel regno dell’emotività. Da secoli si dice questo;
ma da sempre per me questa affermazione è incomprensibile. Io penso che non sia possibile nell’uomo isolare l’emotività dagli altri aspetti della persona. Per me l’arte è soprattutto bisogno di comunicare secondo determinate regole, chiamate regole dell’arte. L’arte è comunicazione per mezzo dell’arte.
Cioè è un gatto che si morde la coda. Poesia come fare qualcosa che sia arte. Questo fare mi sfugge e mi coinvolge, mi destruttura e mi stimola, in queste righe, come psicoanalista, voglio parlare dell’arte e in particolare delle due forme d’arte che mi sono vicine: il teatro e la musica. Costruirò un piccolo contrappunto a tre voci per dire qualcosa intorno ad un argomento che per me è di grande importanza.
La psicoanalisi è sempre stata affascinata dal teatro: i simboli del teatro, i suoi personaggi e soprattutto il suo realizzarsi all’interno di uno spazio immaginario e figurato lo rendono simile ai sogni, con tutta la carica di significati profondi ed oscuri da cui i sogni sorgono.
La terapia psicoanalitica stessa è molto vicina ad una rappresentazione teatrale. Per il paziente operare il transfert sull’analista non vuol dire altro che
recitare con lui la propria storia. il passato rivive tra le tranquille pareti di uno studio e il terapeuta, rintanato nella sua poltrona, veste, di volta in volta, i panni del padre, della madre, del fratello maggiore, della nonna ecc.
Per fortuna la psicoanalisi non è riducibile a questo scheletrico e riduttivo teatrino. Il teatro della psicoanalisi e ben più ricco e profondo. Non è il caso, però, di affrontare qui questo argomento.
La musica, invece, ha interessato stranamente molto meno gli psicoanalisti sia nella loro pratica sia nel momento dell’elabora zione teorica. Penso che il motivo principale di questo disinteresse sia dovuto ad un elemento fortuito e anche un po’ squallido: i grandi padri della psicoanalisi e della psicologia dinamica, Freud in testa, erano desolatamente ignoranti in campo musicale. In seguito, vi sono stati psicoanalisti che si sono sforzati di colmare questa lacuna; senza però riuscirvi.
La psicoanalisi si è sempre trovata più a suo agio quando ha avuto a che fare con le espressioni artistiche della letteratura e delle arti figurative che con il mondo dei suoni: i saggi di Freud e di Kris ne sono ladimostrazione.

Pare essere in contraddizione con queste constatazioni il fatto che la psicologia, addirittura prima della psicoanalisi, abbia usato la musica come mezzo terapeutico. Oggi il termine e la pratica della «musicoterapia» sono diventati di moda. In Italia però, sulla musicoterapia in particolare, o, più in generale, sulle relazioni tra psiche ed espressione musicale, ci sono studi molto scarni che si richiamano soprattutto ad esperienze geograficamente lontane, e che queste esperienze ripetono in modo rozzo e acritico.

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Io ho sentito, fm da subito, il fascino degli intrecci complessi relativi al rapporto con i problemi estetici ed artistici ed ho tentato di pormi con i miei strumenti psiconalitici anche di fronte all’espressione artistica. Le ragioni di questo interesse sono forse altrettanto fortuite e banali di quelle che stavano all’origine del disinteresse che la psicoanalisi mostrò per la musica: il fatto è che ho un passato e un presente di compositore musicale e di autore di teatro Una storia per altro molto tradizionale: preparazione «classica», studi di pianoforte, armonia, contrappunto, ecc.; poi la gavetta nei teatrini off: molto impegnati, allegri e anche un po’ angoscianti. Le prime musiche di scena dal rock all’imitazione del barocco; poi la voglia di fabbricare, oltre che le musiche, anche le situazioni, scrivere le parole, inventare i gesti: il teatro acquista un autore. Io sono stato affascinato, oltre che dal teatro per adulti anche da quello per bambini. Mi verrebbe voglia di dire che i bambini sono più… degli adulti per qualche aspetto; ma più che cosa? Forse è più saggio e meno scorretto dire che sono bambini e basta. Pian piano, intanto, gli studi di psicologia e di psicoanalisi in particolare, stavano acquistando importanza e significato la mia analisi personale e gli stanzoni di un’ospedale psichiatrico in cui vengo a trovarmi, prima come studente e poi come uno che cerca di fare qualcosa, mi stravolgono e mi destrutturano. Contemporaneamente, soprattutto la notte vivevo romanticamente la bohème della musica e del teatro

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La grande importanza psicologica del teatro non deriva soltanto dal fatto che le sue produzioni fantastiche permettono giochi mentali quali l’indentificazione o la proiezione con o sui personaggi; e neppure perché l’inconscio lo usa, spesso, per i suoi giochi simbolici. Sarebbe forse più corretto dire che il teatro non tanto è importante per la psiche, quanto coincide proprio con la psiche. La psicoanalisi classica ha unito e nello stesso tempo ha staccato dall’Io individuale una formazione psichica inconscia chiamata Super-Io.
Questa misteriosa unità non è soltanto la coscienza morale di ognuno di noi; è anche un occhio che osserva, cioè uno spettatore. Questa è una delle più geniali intuizioni di Freud: ognuno di noi è attore e spettatore di se stesso. Una psicoanalisi vecchia e tradizionalista vuole che questo spettatore sorga nell’individuo dopo alcuni anni di vita, ad un punto dello sviluppo del bambino, successivo a quello in cui si sarebbe formato l’Io. E questo Io, a sua volta, si formerebbe abbastanza tardi. Questo romanzetto mi sembra poco credibile. Sono convinto che ogni bambino ha, o meglio è fm da subito un Io.
Non abbiamo il diritto di negare all’essere umano appena nato sentimenti, emozioni, gusti e desideri e pensieri organizzati, soltanto perché sono espressi in modi differenti dai nostri e per noi, di conseguenza, difficilmente decifrabili. Oltre che essere convinto che il bambino è fin da subito un Io strutturato, sono anche convinto che egli nasca programmato per la «relazione» con l’altro. Non solo il neonato si offre, all’altro; ma si esibisce.
Il cucciolo dell’uomo non nasce autosufficiente, le mani dell’adulto lo accolgono, lo proteggono, e lo violentano. Non ha senso affermare che il bambino abbia un rapporto privilegiato con il seno materno.

Questa è una proiezione delle madri, ben comprensibile; ma che ha, secondo me, un significato che riguarda soprattutto loro. Il bambino ricerca l’altro e gli si esibisce; gli altri lo toccano, e lo nutrono, lo riscaldano e lo spaventano: il Super-Io è, immediatamente li presente, giudice e spettatore. Io vado ancora più indietro: penso che il rapporto con l’altro sia cominciato anche prima, in quel ventre caldo, amico ed ostile allo stesso tempo.
Noi recitiamo sempre anche quando siamo soli: per spettatori del passato, del presente o del futuro. Non è soltanto l’allucinazione «schizoparanoide» che proietta all’esterno questo spettatore diventato persecutore. Ogni essere umano, bambino oppure adulto, non riuscirà mai a vivere soltanto; ciascuno reciterà sempre un poco. Poi, in un secondo momento, questo teatro diviene oggettivo, diviene «teatro secondo», cioè cultura; poi ancora diviene «teatro terzo», cioè il teatro vero e proprio.

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Il teatro, quindi, come ho detto, non solo ha un significato psichico essenziale; è la struttura stessa della psiche.
Una cosa che ritengo, oltre che ridicola, estremamente riduttiva è la favoletta medioevale e continuamente ripetuta che fissa la nascita dell’essere umano al momento in cui viene partorito. Ritengo anche scorretto scientificamente e politicamente, sostenere che la vita intrauterina sia soltanto felice, annegata in un inconsapevole caldo mare protettivo. Questa non è che una stupidissima e delittuosa invenzione borghese, utile a chi vuole continuare a sfruttare nella fabbriche
e nei campi il lavoro della donna incinta: «Tanto ci pensa la natura a proteggere quella vita dentro il corpo della donna». Le frustrazioni, gli stress, le angosce della madre,
e probabilmente anche le tensioni emozionali dell’ambiente, aggrediscono il feto che si sta preparando a venire al mondo. La vita intrauterina ha caratteristiche sue proprie: probabilmente le immagini visive, i colori e le espressioni verbali non fanno parte dell’esperienza immediata del feto. La sua esperienza consiste infatti in una situazione corporea basata essenzialmente sul ritmo di una pulsazione. Il ritmo scandisce la vita dell’embrione; un ritmo scandito non solo dalle pulsazioni, contrazioni dell’organismo embrionale in contrappunto con l’organismo materno; ma un ritmo in cui il bambino che sta per nascere sente e, forse, aspetta i movimenti, le andature, gli spostamenti anche spaziali della madre. Pulsazioni che forse sono anche suono interiore.
Che cosa è questo se non musica?

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Io non penso che la musica sia un fatto essenzialmente sonoro, anzi la musica ha scoperto il suono e se ne è appropriata. Ogni volta che si tenta di risalire alle origini di qualche cosa si fa della mitologia; questo vale anche per la vita intrauterina quale la ipotizzo io quando parlo del suo significato essenzialmente musicale. Io credo che anche operativamente la musica possa essere un mezzo terapeutico di cui si possono giovare tanto la gestante che l’embrione. Per questo sto mettendo a punto alcune tecniche di intervento che non è il caso qui di esplicitare, anche perché sono per il momento imprecise e nebulose; ma che si rifanno alla mia convinzione che la musica sia un fatto prima di tutto collegato al ritmo vitale e solo poi riportabile all’aspetto della sonorità. Il teatro e la musica hanno quindi un significato che non è soltanto estetico e possono perciò (a mio parere debbono) essere usati sia quando ci proponiamo di costruire una metapsicologia che quando pensiamo di intervenire in campo terapeutico. Questo è il mio tentativo.
Il teatro e la musica possono essere usati prevalentemente in due modi che sono legati tra di loro da fili sotterranei e tenaci, anche se appaiono molto diversi ad una prima osservazione.
Il primo modo è quello di far agire il teatro e la musica. Far agire il teatro significa stimolare le persone ad esprimersi attraverso tante situazioni teatrali che non sono poi altro che le situazioni che ognuno si trova a vivere, per lo più inconsciamente, in ogni istante.

Fare agire la musica vuole dire stimolare nelle persone le profonde capacità di emettere suoni, esprimersi in un ritmo e in una danza, fino ad appropriarsi di un linguaggio musicale ed essere in grado di cantare e suonare uno strumento, da soli o in rapporto con altri.
Il secondo modo è quello di far subire il teatro e la musica. Cioè: presentare allo spettatore, all’ascoltatore un prodotto teatrale o musicale già costruito.
Quando accenno alla diversità solo apparente di questi due modi di porsi nei confronti del teatro e della musica voglio intendere che non c’è più partecipazione, o più spontaneità, o più creatività in uno che nell’altro. Quando si agisce non si è mai completamente liberi e spontanei, perché si seguono sempre, con maggiore o minore consapevolezza, moduli preesistenti e in parte condizionanti, e siamo allo stesso tempo anche spettatori di noi stessi e di chi agisce con noi. Così come quando ci poniamo come spettatori non siamo mai completamente passivi, ma interpretiamo e contribuiamo a creare il senso di ciò che si-sta rappresentando davanti a noi. La partecipazione emotiva e la lettura interpretativa costruiscono anche la percezione di ciò che stiamo ascoltando od osservando.
L’utilità pedagogica e terapeutica del teatro e della musica, quando sono agiti, è abbastanza evidente; forse meno evidenti sono i pericoli, talvolta gravi, che possono nascondersi dietro questo agire.
Osserviamo prima gli aspetti positivi: attraverso la rappresentazione di personaggi diversi esibiti a noi stessi e ad altri, riusciamo talvolta a spezzare la barriera di atteggiamenti fisici e psichici stereotipi e irrigiditi; riusciamo a vivere con accettazione consapevole stati d’animo molto diversi tra di loro che normalmente rifiuteremmo; balzano evidenti desideri rimossi oppure agiti con cattiva coscienza.
Anche l’esporsi costituisce rappresentazione, anche il cercare nuove positure del corpo, ascoltare e percepire la nostra corporeità insieme con quella degli altri: diventa importante acquistare la capacità di toccare il nostro corpo e il corpo degli altri ed imparare a farci toccare. Gli adulti soprattutto hanno il corpo irrigidito da rituali che hanno finito per calar loro addosso imprigionandoli. Alcuni si ribellano a questi rituali assumendo atteggiamenti e positure fisiche anticonformistiche; spesso il rimedio finisce con l’essere peggiore del male: vediamo in questi casi corpi sgangherati e sudici, ipertesi in una provocazione ritualizzata quanto i riti a cui intende opporsi, talora anche peggio.
La riappropriazione del corpo deve avvenire attraverso il piacere dato e ricevuto nel tentativo di ascoltare e assecondare il ritmo e la musica interni. È necessario essere consapevoli che la «spontaneità» è impossibile: il nostro agire segue sempre dei moduli, l’importante è scegliere quei moduli che siano in accordo con il nostro bisogno di benessere e con le nostre reali possibilità di comunicare con gli altri.
La musica è anche, sempre, linguaggio: importante non è diventare capaci di emettere suoni scoordinati ed autistici; ma imparare ad assaporare il suono, costruendo con esso la possibilità di comunicazione. L’espressività a tutti i costi può costare il prezzo di una dissociazione psicotica in temperamenti predisposti alla disintegrazione psichica. Questo dovrebbe essere tenuto presente da molti animatori teatrali i quali senza nessuna preparazione psicologica e psicoanalitica fanno recitare, nella scuola, o altrove, i bambini, non essendo in grado, per lo più, di controllare le piccole esplosioni che possono causare nelle personalità in formazione le interpretazioni di certi moli o di certi personaggi.
Questi animatori spesso si compiacciono della bizzarria delle soluzioni e della partecipazione emozionale dei bambini che danzano e recitano, senza però rendersi conto che qualche volta favoriscono con gravi attacchi distruttivi la compattezza del sé; attacchi che spingono i malcapitati bambini sulla strada dell’angoscia e del disorientamento piuttosto che su quella auspicata della ricchezza emozionale e dell’appropriazione del piacere. È

però altrettanto importante, dal punto di vista terapeutico e pedagogico (oltre che culturale, s’intende) imparare a fare lo spettatore: ad assistere e ad ascoltare, subire una rappresentazione o una musica agite da altri. Nella nostra società è assai difficile trovare persone capaci di ascoltare ed osservare gli altri. Quelli che io chiamo meccanismi narcisistici di chiusura sono continuamente presenti negli pseudo-rapporti che si costituiscono ogni giorno.
Uno spettacolo teatrale o un brano di musica sono strutture articolate e ricche di possibilità emozionali• imparare a leggere con attenzione e partecipazione, senza allontanarsi in fantasie autistiche, è un esercizio psichico fondamentale. L’incapacità di «stare attenti» (espressione, questa, cara alle maestre di vecchio stampo) è il primo impedimento all’arricchimento culturale e alla comunicazione.
Saper ascoltare, saper guardare, sono i modi migliori per spezzare la chiusura narcisistica.

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La psicoanalisi infantile usa da molto tempo l’osservazione del gioco come chiave di lettura dell’inconscio del bambino. Il bambino, giocando, rappresenta la sua storia, le sue pulsioni e i suoi conflitti. È indispensabile, quindi, come ho già detto, avere la preparazione e la capacità psichica di partecipare in qualche modo a queste rappresentazioni. Vorrei ora esporre alcune esperienze tratte dal mio lavoro degli anni scorsi. Un gruppo di bambini di ambo i sessi tra i sette e i nove anni, senza particolare problemi psicologici evidenti, inizia una esperienza di ricerca espressiva e sonora. Si inizia con un primo periodo di presa di contatto e di conoscenza, anche corporea, del gruppo nella sua totalità, compreso anche il terapeuta. Bambini e terapeuta indossano soltanto una calzamaglia Per qualche tempo si parla e si gioca senza alcuna direttiva, poi il terapeuta propone di allestire uno spettacolo teatrale. Non c’è alcun elemento scenico a disposizione, soltanto i corpi. I bambini non vogliono interpretare personaggi, ma propongono una situazione. Unico elemento esterno: due note che vengono fatte ascoltare da un registratore un do e il sol una quinta sopra, che riproducono un disegno ritmico molto dilatato. I bambini decidono di usare questo ritmo come commento di una storia più articolata. In seguito viene presentato uno strumento che emette le due note con ritmi che possono essere scelti e variati a piacere. A questo punto i bambini decidono di distribuirsi le parti. Usano il corpo del terapeuta e le due note come personaggi. Lentamente si fa sentire nei bambini l’esigenza di una musica più complessa. I personaggi della storia divengono via via sempre più precisi. I brani musicali, ovviamente in disco, vengono scelti con cura e discussi. A questo punto nel terapeuta sale l’ansia a causa dell’estrema disponibilità corporea dei bambini; cerca di razionalizzare; le chiacchierate si rivelano utili non solo al terapeuta. L’esperienza è articolata in una serie abbastanza numerosa di incontri. È parsa estremamente positiva dal punto di vista pedagogico e psichico molto limitata però da un elemento che si rivela determinante. I bambini e il terapeuta avrebbero cioè dovuto essere completamente nudi e il terapeuta avrebbe dovuto avere meno paura delle richieste erotiche dei bambini. A inibire il potenziale di questa esperienza sono state, è vero, anche le preoccupazioni per le conseguenze giudiziarie possibili; ma si è trattato soprattutto dell’impossibilità e dell’incapacità del terapeuta di gestire la situazione e la propria ansia. Se, con sprezzo delle leggi, il coinvolgimento fisico con i bambini si fosse realizzato, l’ansia del terapeuta si sarebbe però trasferita sui bambini stessi.
Le considerazioni psicologiche che si potrebbero trarre da questa esperienza, per quanto astratte, sono molte. Le principali sono:

1) i bambini hanno un profondo desiderio nei confronti degli adulti. La continua frustrazione di queste richieste ha indubbiamente un profondo significato nella nostra cultura;
2) una educazione al contatto epidermico dei corpi nella loro totalità riuscirebbe a sbloccare il rituale ossessivo della nostra cultura, irrigidito nella ipervalutazione del fallo e nella centralità sessuale degli organi genitali e del coito;
3) fondamentale è stato l’intervento della musica come fattore scatenante delle pulsioni libidiche.

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L. era un ragazzetto di circa otto anni, diagnosticato psicotico grave con forti componenti autistiche ed esplosioni autodistruttive. Trascorreva i giorni in modo abbastanza tranquillo, un po’ assente, amava mettere in ordine gli oggetti dell’ambiente in cui si trovava e anche manipolarsi i genitali a lungo. Quando si dedicava a quest’ultima occupazione assumeva un’espressione seria e un po’ sofferente. Spesso, ma non sempre, dopo queste manipolazioni assumeva un atteggiamento prima ansioso e poi esaltato e tentava di difendersi, o comunque di procurarsi lesioni scaraventandosi, per esempio, contro gli spigoli delle pareti o dei mobili. Passata la crisi ritornava una relativa calma. Il terapeuta avvicinò per la prima volta L. durante una crisi abbastanza violenta. Aiutato da un’assistente, prese L. tra le braccia, stringendolo molto forte. L. si dibatté a lungo senza però gridare né piangere; poi si assopì, il terapeuta si sdraiò sul lettino tenendo L. su di lui. Durante gli altri incontri L. fece richiesta di sdraiarsi nuovamente sul corpo del terapeuta. Dopo qualche tempo il terapeuta incominciò un movimento ritmico del proprio corpo e a poco a poco i due corpi incominciarono quasi a danzare. Successivamente il terapeuta sempre stringendo il corpo di L. tra le braccia, si mise, durante gli incontri, a suonare, con una certa fatica, il pianoforte. Per tutto il periodo (otto mesi) per cui durarono gli incontri, non ci furono più atteggiamenti autolesionistici; ma non scomparvero gli altri atteggiamenti di assenza. Furono anche possibili alcuni dialoghi, dai quali emerse, con evidenza, che L. aggrediva il proprio corpo per appropriarsene e per ricercare un contatto con altri corpi. Forse per desiderio di imitare il terapeuta, ma, pensiamo non solo per questo, L. espresse più tardi il desiderio di iniziare lo studio del pianoforte.
M. era una donna di circa quaranta anni, ricoverata da dieci anni in ospedale psichiatrico, inizialmente in seguito ad un episodio schizofrenico di tipo persecutorio, era poi andata sempre più decadendo fisicamente e psichicamente, ancora in grado comunque di fare qualche lavoretto di pulizia; il linguaggio era poverissimo ed abbastanza disarticolato. Il terapeuta arrivando un giorno in reparto si sentì dire che M. era stata molto cattiva ed aggressiva con una suora. Il terapeuta entrò nella stanza in cui erano sistemati gli strumenti musicali e si mise all’organo, iniziando a suonare. M., avvicinatasi, disse di voler cantare. Usando un modulo musicale molto semplice dalla struttura estremamente arcaica, diffuso in tutta l’Italia centrale, M. cominciò a cantare a squarciagola, raccontando ed aggiungendo, sempre cantando, tutta una serie di osservazioni e di riflessioni sull’accaduto. Altre volte M., sempre usando lo stesso stereotipo melodico, volle cantare, a condizione però di essere accompagnata all’organo dal terapeuta, racconti relativi ad episodi della vita d’ospedale o avvenimenti della vita passata. Il linguaggio si rivelava sempre abbastanza ricco con punte espressivamente molto efficaci ed anche umoristiche. Una volta, avvicinandosi al terapeuta, indicando l’organo, M. disse: «Per favore, chiacchieriamo un poco».
La musica, il ritmo, il corpo, la rappresentazione, sono stati usati negli esempi sopra citati, utilizzando sempre parametri psicoanalitici e avendo sempre intenti di analisi. Il problema era di poter stabilire un minimo di comunicazione e rendere attuali i desideri.

L’importante è che ci rifiutiamo di usare in modo semplicemente comportamentistico qualunque tecnica noi intendiamo usare e quindi anche la musicoterapia od ogni altra terapia espressiva. La riappropriazione deve avere sempre come fine la consapevolezza. Lavorare per costruire solo automi obbedienti e magari anche felici non ci interessa. In Italia, ancora più che altrove, la musica e l’espressività sono usate essenzialmente per condizionare, per manipolare, le persone senza permettere loro di riappropriarsi, realmente, di nulla. Sono parecchi gli studi che sono stati fatti nel corso dei secoli per studiare l’influenza della musica sugli stati d’animo. Già Platone aveva sostenuto che esistono diversi tipi di musica che inducono nell’individuo emozioni diverse: musiche esaltanti e musiche snervanti. Molte persone, per lo più non musicisti, credono tuttora in questa ingenua stupidaggine. Sono state fatte addirittura ricerche per determinare quali siano i genere di musica o addirittura i compositori che inducono questa o quella emozione. Sono state messe a punto tabelle con le quali si tenta di dare al musicoterapeuta sprovveduto alcuni parametri di intervento, assolutamente ridicoli, in base ai quali, per esempio, il tal compositore romantico indurrebbe sentimenti di calma e quell’altro un po’ di depressione, e come e quando e quanto di tale musica va «somministrata». Quell’ouverture sarebbe esaltante e quel preludio rilassante e così via.
È vero, forse, che vi possono essere brani musicali che per alcuni aspetti esteriori possono essere definiti, grossolanamente, tristi o allegri, energici od estenuanti ecc. La credenza popolare ha addirittura inventato le ninne nanne per indurre il sonno nei bambini: la monotonia melodica e la pacata ritmicità di questi brani può effettivamente in molti casi, rilassare il bambino ed indurlo a dormire.
Le ninne nanne però hanno effetti diversissimi su ogni singolo bambino, la cosa che le accomuna è che costituiscono un tentativo per combattere la noia di chi culla il bambino e non sa come far passare il tempo. La ricerca delle musiche da usarsi in campo musicoterapeutico deve essere sempre estremamente mirata; il lavoro deve essere
fatto per ogni singola persona e, soprattutto, insieme con ogni singola persona. Un esempio che valga per
tutti: ad un soggetto ansioso e molto sensibile alla musica viene fatta ascoltare una ninna nanna che possiede, almeno apparentemente, tutte le caratteristiche di sviluppo melodico e ritmico in grado di indurre la calma e la distensione che da una ninna nanna ci si aspetta. Invece, quasi subito, la persona in questione non riesce a stare ferma, a controllarsi, si alza dal letto in preda ad un attacco di ansia molto forte che, lì per lì, pare inspiegabile al terapeuta. In seguito, dopo un lavoro di analisi si viene a scoprire che proprio quella era la canzoncina cantata al paziente dalla madre, nei primissimi anni di vita; poiché si era venuto in seguito a formare un grosso nucleo inconscio di conflittualità intorno al rapporto con la figura materna, il richiamo causato dalla ninna nanna era stato fortemente ansiogeno e quanto mai inatteso.

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Io credo che ogni persona abbia introiettato alcuni moduli musicali che sono divenuti suoi tipici. Moduli ritmici, elementari, intervalli e così via. Questi moduli musicali hanno iniziato a formarsi nell’inconscio individuale, probabilmente, fin dalle prime esperienze dei ritmi interni del ventre materno. Queste prime introiezioni hanno determinato i primi elementari meccanismi di selezione sonora che, a loro volta, introiettati, sono venuti a formare la preistoria dei gusti musicali dell’individuo. Ovviamente poi, la storia personale ha lentamente modificato ed arricchito i moduli musicali interni, giungendo talvolta persino ad inibire la capacità di cogliere il linguaggio della musica.
Ogni persona possiede però, questi moduli ritmo-melodici propri; ed è possibile determinarli con una tecnica abbastanza semplice. Riproposti all’ascolto della stessa persona questi moduli riveleranno la capacità di produrre risonanze psichiche stupefacenti. Su questi moduli, inoltre, è possibile con﷓
durre un’indagine strettamente psicoanalitica oppure, anche, lavorare per costruire più o meno complicate composizioni musicali.

A questo punto si aprirebbe il discorso relativo all’educazione musicale: è estremamente complesso. Per il momento, voglio solo dire che ogni persona dovrebbe essere in grado di compone musica come è in grado di comporre frasi con il linguaggio verbale. Il semi-analfabetismo musicale che ci affligge è molto diffuso persino tra coloro che sono in grado di strimpellare uno strumento. Tutti i bambini sono compositori potenziali e partendo dai loro moduli musicali personali è possibile metterli in grado di comporre con estrema facilità. Essere in grado di diventare Beethoven o Strawinsky è poi un altro discorso, come altro è parlare e altro essere Shakespeare.
La musica è un linguaggio che tutti posseggono, ma che in moltissimi è stato distrutto o troppo rimosso. Come abbiamo detto, il bisogno di teatralità è ineliminabile perché è il modo stesso di muoversi della psiche. L’essere umano recita sempre: È però estremamente grave aver operato nella nostra cultura la castrazione dell’aspetto musicale. Il lavoro sul teatro, sull’espressività e sulla musica è appena iniziato.

Psicoanalisi contro n. 3 – PREGHIERA AD ORFEO (1982)

mercoledì, 1 dicembre 1993

NONOSTANTE LE PAROLE
Che cosa vuol dire un brano di musica? Ogni gesto umano tende a dire qualche cosa, quindi, anche il gesto: musica. Ma è possibile capire che cosa voglia dire? Se vuol dire: «dice». L’oscurità si annida nella breve espressione «che cosa». Mi sento un po’ ridicolo perché parlo di musica con le parole. D’altra parte, se ne parlo, debbo usare parole e non suoni. Voglio parlare della musica e sento le parole inadeguate, o meglio: esterne. Eppure anche quando sento la musica, mi si affondano alla mente parole che parlano di quella musica. Schopenhauer affermava che contemplando l’opera d’arte, l’arte musicale in particolare, la volontà di vivere sospendeva per un istante la sua tirannide dolorosa. Può darsi che, ascoltando un quartetto di Mozart, io sospenda la mia volontà di vivere, ma non riesco a sospendere le parole.
Eravamo in do maggiore, il secondo violino discende: re, do, si, la, sol, fa… un mi bemolle: ecco la improvvisa ombra del do minore. Due parole mi si presentano: «minore» e, anche, «bello». Sono due parole estranee a quella piccola collana di note, ben lo so. Però la mia mente le ha pensate insieme con quelle note. Mi
sono anche venute in mente delle immagini? Quella piccola scaletta discendente mi ha fatto forse pensare ad una collana? Forse so anche a quale collana. Tutto questo però l’ho pensato dopo. Adesso che parlo e scrivo di musica, mi risuona nella mente la breve scaletta del secondo violino; me la sono anche riguardata sulla partitura che adesso è lì, spalancata sul leggio del pianoforte: il secondo violino e gli altri tre strumenti, silenziosi per qualche misura, e poi, in accordo, hanno ribadito che quel mi bemolle voleva dire, armonicamente, do minore. Mi ritornano alla mente due espressioni: «do minore» e «bello».

IL TEATRO DELLA MUSICA
Mi si ripresenta la domanda: «Che cosa vuol dire la musica?» C’è chi, per spiegarlo, fa ricorso alle immagini e vede in un allegro una radiosa mattina di sole, con scampanio e
contadini che ballano; nell’andante, un bosco ombroso e un po’ malinconico; e cosi via. Fantasie ingenue, direi anche un po’ sciocche. Qualcuno mi potrebbe obiettare che molti compositori hanno tentato di realizzare questo accoppiamento: le Stagioni di Vivaldi, la Sesta di Beethoven, la Moldava di Smetana.

Qualcuno più erudito potrebbe chiedermi che significato ha l’uso del canto degli uccelli fatto da Messiaen.
Io so che la musica è altrove, non si trova certo nelle goffe imitazioni, di un rumore della natura. Ho detto che l’arte è sempre anche un’imitazione, perché è sempre teatro. Io credo che la musica sia teatro. E’ il racconto dell’avventura dei suoni? Anche; ma non soltanto. Io credo che voglia dire qualcosa, ma mi chiedo, di nuovo: «che cosa?»

I FINALI ROSSINIANI
Ogni composizione musicale riceve, da parte del compositore, una particolare attenzione nel momento finale. E difficilissimo, anche oggi, trovare brani di musica che terminino in sordina, con tempi dilatati e molli. Il finale è quasi sempre dinamico e iperteso, drammatico o allegro che sia. Questo perché la musica vive essenzialmente come spettacolo. Il compositore lo sa, perciò tenta di creare una situazione emotiva tale da favorire l’applauso dello spettatore. Esistono opere d’arte che non siano teatro o spettacolo? Non lo credo. Anche un romanzo o una scultura «rappresentano», sempre, qualche cosa. Sono, più o meno, distesi nel tempo; ma il loro modo di essere è, sempre, un racconto.

OLTRE I DODICI SUONI
La musica ha varcato la soglia del Novecento con un’identità precisa e un linguaggio ancora intatto. La melodia infinita di Wagner e le ricerche sonore di Webern e Schtinberg non avevano ancora messo in crisi questa identità: dodici suoni, accordati prendendo come punto di riferimento le quattrocentoquaranta vibrazioni al secondo del la stabilito nella Convenzione di Vienna. L’esempio di Rossini, che aveva fatto battere gli archetti dei violini sul leggio era stato soltanto un gesto scanzonato ed ironico.
In seguito, la musica si è tesa a spezzare l’involucro dei dodici suoni; la crisi della sua identità è iniziata allora. La musica ha cercato la concretezza dei rumori e la ricchezza del suono infinito; ma non è diventata, per questo, più comprensibile
Potrei dire, allora, che la musica è caratterizzata dall’architettura di elementi acustici; dicendo ciò vado, però, contro le mie stesse convinzioni. È molto tempo ormai che io vado dicendo, e l’ho scritto più volte, che la musica è, prima di tutto, un «fatto» tattile. La musica sorge dal pulsare del mio corpo e della mia libido; ha la sua orgine nelle mie pulsioni interne che tendono ad estrinsecarsi, ad esprimersi, a mostrarsi. Io ritengo, infatti, che l’elemento sonoro sia per la musica una acquisizione successiva. Ma, allora, se la musica non è neppure un’architettura di elementi acustici, che cosa è? Come si può cercare un significato di una cosa che, forse, non esiste?

PRIMA DELLA MUSICA
Una persona o una cosa trovano la loro identità attraverso l’identificazione. L’essere umano prende dall’altro le prime caratteristiche che lo faranno essere individuo: distinto ed unito allo stesso tempo. Le cose divengono tali non per una loro intrinseca forza gestaltizzante, ma perché sono simili ad altre cose e da queste cose ha inizio la loro identità. È impossibile determinare la prima identificazione: è prima della persona; è prima della cosa; è prima del soggetto e dell’oggetto.
L’indentificazione è anche riconoscimento. Il riconoscimento è, anche, dare un nome; ma il nome non è parola; è, soprattutto, corpo. De Saussure dice che il significante è il suono convenzionale che sta per l’oggetto; ma non esistono suoni convenzionali. Né le leggi sociali sono patti frutto di una convenzione, né le leggi linguistiche. Il termine «convenzione» è il termine più bugiardo della nostra lingua, o, meglio, è il termine in cui si può annidare il maggior numero di bugie.

È musica ciò che viene riconosciuto come musica, ciò cui viene dato il nome di musica; ma il nome e il riconoscimento sono ciò che si vuole sia musica; e ciò che si vuole sia musica è qualcosa che non è musica, perché è prima della musica. La musica non è un linguaggio originario per il semplice fatto che non esistono linguaggi originari; essa è però il più antico di tutti.
Riconosco che in quest’ultima affermazione c’è la presunzione e il dogmatismo di un musicista.
La musica è, quindi, un semplice gesto fatto di elementi acustici, ma non soltanto; prima vi è qualcos’altro, difficile da riconoscere come musica.

STRUTTURA, GESTO E STORIA
La musica è anche storia della musica. La musica non è un linguaggio universale; ogni cultura ha la sua musica e le sue musiche. La critica letteraria, applicando le teorie strutturaliste ai prodotti della letteratura, ha creduto di fare cosa molto nuova In realtà, da sempre, l’analisi di un testo musicale si è fatta, anche e forse soprattutto, mediante l’analisi dei suoi elementi strutturali. Il che non toglie che siano stati usati anche molti altri parametri. Ad esempio, i teorici medioevali analizzavano testi musicali anche con strumenti di tipo ossessivo-metafisico: il famoso diabulus in musica, il «tritono», era allontanato dagli schemi compositivi, per ragioni esterne allo stretto discorso musicale. Non si può tacere, peraltro, che si tratta, anche, di un intervallo difficile da intonare per la voce umana. Un brano musicale può essere osservato da almeno tre punti fondamentali: 1) l’analisi strutturale, con la quale si analizzano, scomponendoli, gli elementi melodici, ritmici ed armonici, nella ricomposizione dei quali si opera il tentativo di comprendere l’architettura nel suo significato complessivo; 2) l’analisi emotiva, che consiste nel cercare il significato dei gesti sonori che il compositore vuole compiere nel tentativo di coinvolgere gli ascoltatori comunicando loro il suo stato d’animo e/o tentando di far sorgere in essi stati d’animo particolari; 3) l’analisi storica, che consiste nella lettura del brano musicale come espressione di un momento particolare della storia della musica, o in relazione alla storia della cultura più generalmente intesa.

L’IMPOSSIBILITÀ DELLA NEGAZIONE
Certo, la musica non si esprime attraverso concetti; le parole riescono ad imprigionarla in definizioni oltremodo imprecise. Si può definire un brano musicale allegro, malinconico o tragico; ma le sfumature sono infinite, sfuggono al limite imposto dalla parola. Come può, per esempio, la musica esprimere il «no»? Con il silenzio? Con pause cariche di sospensione? Non riesco a crederlo. La musica è come il sogno, non può esprimere la negazione, e come i sogni e come l’inconscio non conosce morte. Conosce il malinconico trionfalismo delle marce funebri, fatte dai vivi per altri vivi, per commuoversi meglio. La musica riesce a rappresentare solamente il sì e la vita. Questo è l’unico significato certo della musica; ma ho il sospetto che questo sia il significato di ogni gesto e non del gesto musicale in particolare. Quale espressione dell’arte e dell’attività creativa-umana può realizzare, realmente, la morte? I nostri gesti, fin che siamo, saranno gesti di vita e di vivi. La musica, perciò, non ha nessun altro significato che quello che decidiamo di attribuire ad ogni brano singolo.

PREGHIERA AD ORFEO
Orfeo è il salvatore. La musica è la sua parola che salva.
Io, spesso, trovo la mia salvezza nella musica; perché nella musica mi sono perso e mi sono ritrovato.
L’eternità della musica vive nella dimensione temporale di ogni brano. Forse il significato della musica sta in tutto ciò che non è musica.