Archivio di dicembre 1988

48 – Dicembre ‘88

giovedì, 1 dicembre 1988

Poco lontano dalla zona dei teatri, in Via dell’Archetto, c’è un posto di quelli che sembrano messi lì proprio per lo spuntino a tarda notte, dopo lo spettacolo. Il ristorante-pizzeria L’Archetto è tenuto da persone giovani, allegre e simpatiche e infatti in loro compagnia si sta benissimo fin che si scambiano quattro chiacchere, ma quando arrivano le prime portate incominciano i guai. La lista conta un grandissimo numero di piatti di pasta e di pizze dai nomi davvero fantasiosi che vanno da Attilio Regolo ai corsari, con grande inserimento di panna anche abbinata alle olive o alla vodka. Ma la pasta è sempre poco appetibile, sia essa condita da acquose verdure e insipidi gamberetti o dall’uovo crudo di una inaccettabile carbonara oppure da poche vongole sperdute tra troppi gusci; forse accettabile è solo il sugo ai funghi aglio e pepe degli spaghetti alla corsara. Tra i secondi ricordiamo malvolentieri un orrendo Carpaccio, tagliato male, con una carne insapore; un filetto al pepe verde navigante nella panna di cui era mangiabile solo il pepe; invece non siamo stati in grado, oltre alla panna, di riconoscere gli altri ingredienti di un piatto di impossibili scaloppine al Calvados; persino la comunissima lombata era stata maltrattata da un cuoco improvvisato. Anche la lista dei vini è scoraggiante. Il tutto si conclude con dolci industriali, ma almeno quelli mangiabili, e super-alcolici di ordinaria amministrazione. Il prezzo non sarebbe da considerare elevato, ma ciò non toglie che quello sia un posto in cui non torneremo facilmente. E ci dispiace per quei simpatici giovanotti!

Proprio al numero uno di Via del Portico d’Ottavia, nel cuore dell’antico ghetto, si affaccia L’Uno, un simpatico ristorante kosher che l’estate allestisce i suoi tavoli anche all’aperto, così che ci si sente completamente immersi nell’atmosfera di quello che per noi è tra i più bei quartieri di Roma. Una volta tanto, possiamo parlare positivamente di un ristorante, senza alcuna riserva e, a dispetto della nostra proverbiale perfidia, siamo di ciò molto contenti, anche perché nonostante il nostro perseverare peregrinando eroicamente per tutti i luoghi di ristoro romani, lo abbiamo scelto come punto di riferimento abituale (anche perché è a due passi dalla sede di Psicoanalisi Contro). Il servizio è molto simpatico e quasi affettuoso; i prezzi non sono bassissimi, però le porzioni sono abbondanti, i piatti preparati con ottime materie prime e l’arredamento e l’apparecchiatura sono più che dignitosi ed accoglienti. Descriviamo la nostra ultima cenetta dell’altra sera, quando, un po’ stanchi, siamo approdati al confortevole sito. Subito ci siamo rallegrati per gli ottimi carciofi alla giudia, croccanti e non unti, dissetandoci con il discreto bianco di Pitigliano, vinificato secondo le regole dell’ortodossia in cantina. Ha aumentato la nostra soddisfazione la pasta e ceci, profumata di rosmarino e dal brodo piccantino e ben legato; la consistenza della pasta era eccezionale anche nelle fettuccine ai carciofi, dove l’interdizione abituale del latte dimostrava in modo lampante come si possa fare benissimo a meno della panna in un sugo di morbida e semplice raffinatezza. Gli straccetti al rosmarino erano ineccepibili, con la carne che si scioglieva in bocca, ancora ricca di tutto il suo sapore; anche il baccalà in guazzetto risultava morbido e giustamente dolce; delicatissimo inoltre abbiamo trovato un assaggio di pollo ripieno con i pistacchi.
Piccoli gioielli i contorni: cicoria con bottarga, pinoli e uva passa, cipolle e melanzane fritte con una pastella giustamente leggera. Anche il tipo rosso dello stesso vino kosher ci è parso accettabile, sebbene quello della cantina resti un problema, non sappiamo quanto risolvibile all’interno dell’osservanza stretta di cui il locale fa giustamente un punto di rigore. Tra i dessert noi abbiamo, come sempre, prediletto il cremolato di frutta, questa volta di pere, giusto coronamento di un pranzetto ineccepibile. Un discorso a parte ci sarebbe ancora da fare su certi dolcetti ebraici che, ogni tanto, amiamo assaggiare. Tutti conoscono la pasticceria del Portico che sta proprio alla porta accanto a quella del ristorante, dove si fanno dolcetti della tradizione ebraica che sarebbero, in linea di principio, abbastanza buoni, ma che, non siamo mai riusciti a capire per quale misteriosa ragione, un pasticcere bizzarro tiene nel forno tanto più a lungo del necessario che risultano immancabilmente un po’ bruciati, quando addirittura non sono semicarbonizzati. Il gestore dell’Uno riesce talvolta, a prezzo di chissà quali sforzi, a sottrarne qualcuno al rogo. Ma non sempre.

48 – Dicembre ‘88

giovedì, 1 dicembre 1988

Il vero problema

Come era facilmente prevedibile, è puntualmente successo che la sindrome di immunodeficienza acquisita diventasse il genere di consumo che «tira» di più.
È giusto che intorno ad un male che sembra insidiare una fetta così grande di umanità, si faccia il possibile per destare l’attenzione e per predisporre terreni fertili alle campagne di prevenzione.
Ma hanno davvero questo obiettivo le grandi inchieste sui rotocalchi, i prodotti dell’industria cinematografica e televisiva, gli spettacolari show musicali? Indagare sulle ragioni che muovono tutto questo gran macchinario vorrebbe dire fare un processo alle intenzioni e la cosa, si sa, non sempre è legittima. Ci si può però domandare se così agitando il problema si ottenga veramente ciò che si dice di voler ottenere: una conoscenza della reale situazione di rischio collettivo e una adeguata prevenzione.
Si ha infatti l’impressione che la spettacolarità dell’evento tragico sia diventata il fattore predominante: come è già successo per altre sindromi incombenti sul pianeta o già patite dagli esseri umani, il gusto di trasformarsi in spettatori di sofferenze rappresentate ha avuto il sopravvento, motivando i professionisti a «mettere in scena» situazioni sempre più drammatiche, non importa quanto costruite su ipotesi più verosimili che vere. Proprio sulle ipotesi di quanto «verosimilmente» potrebbe accadere si radicano nell’inconscio sociale di una umanità spettatrice i pregiudizi ed il razzismo che spingono ad emarginare e a condannare per salvarsi, e questo è il risvolto disgustoso: sia che spinga le madri ad isolare un piccolo «appestato» per l’amore dei propri figli, temporaneamente parcheggiati presso lo stesso asilo, sia che induca all’eroismo vittimistico che moltiplica il sentimento stupidamente autodistruttivo di chi si compiace di manifestare solidarietà con gesti che hanno risonanze equivalenti al biblico «bacio del lebbroso», magari come disperata reazione ad un egoismo che per difendere dal pericolo non esita neppure davanti all’omicidio profilattico.
Così, ancora una volta, il problema di cui si parla è il «falso problema», mentre del vero problema: il male, la sua prevenzione e la sua cura nessuno sa davvero qualcosa.

Psicoanalisi contro n. 48 – “Vorrei e non vorrei…”

giovedì, 1 dicembre 1988

Da tutti è risaputo come la psicoanalisi classica cercasse di inibire, in coloro che si sottoponevano ad un trattamento psicoterapeutico, letture di testi psicoanalitici ed anche la frequentazione di conferenze, dibattiti, simposi sulla materia. Lo scopo era quello di tenere il paziente in uno stato di ignoranza in modo che non potesse usare le conoscenze dei principi base della psicoanalisi per ostacolare l’intervento del terapeuta, nascondendosi ancor meglio, con la costruzione di sogni e sintomi, astutamente elaborati per aumentare le difese e le resistenze inevitabilmente connesse all’analisi. Oggi, queste proibizioni sono in gran parte decadute, anche per la diffusione, in alcuni ambienti addirittura capillare, dei principi e della cultura psicoanalitici. Ciononostante, alcuni terapeuti continuano ad essere diffidenti nei confronti di quei pazienti che divorano volumi di psicoanalisi e sono, assidui frequentatori di tutte le manifestazioni anche lontanamente ad essa connessi.
La mia personale esperienza di psicoanalista mi ha chiaramente dimostrato che i pazienti usano il loro bagaglio di cultura psicoanalitica prima di tutto per cercare di confondere il loro terapeuta e quindi resistere alla guarigione; per quanto ciò possa sembrare bizzarro al buon senso comune che si domanda come sia possibile che qualcuno che patisce un disagio non voglia peraltro che il terapeuta o la tecnica di cura cui si è affidato riescano nell’obiettivo di guarirlo (eppure questo volere e non volere una stessa cosa è caratteristico di tutti gli esseri umani; chi non ricorda l’arietta metastasiana di Enea in procinto di lasciare Cartagine e l’amata Didone che dice: «…non parto, non resto ma provo il martire che avrei nel partire, che avrei nel restar»?). Spesso, proprio nel profondo dell’inconscio la voglia di guarire non c’è. La persona si è assestata nell’equilibrio precario ma tranquillo di una sofferenza accettata, da cui ha imparato a trarre un utile che eufemisticamente è definito «vantaggio secondario», ma che nell’economia del momento esistenziale è diventato più che mai «primario», poiché permette una posizione di vantaggio sul mondo circostante, di controllo sulle relazioni con gli altri, di continua autogiustificazione.

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Una donna, in analisi con me da anni, continua ad assicurarmi della sua volontà di uscire dalla prigionia della malattia che, realmente, la opprime, ma che nello stesso tempo le serve come giustificazione totale per ogni suo comportamento scorretto verso le persone con cui vive, per ogni gesto villano o tirannico: «Nelle mie condizioni capirà! » Il senso implicito è che nelle sue condizioni quella persona ci sta benissimo; se guarisse sarebbe obbligata ad affrontare il mondo dalla cui dura realtà ha cercato di fuggire con la malattia. Un’altra ragione importante della resistenza alla cura è che le persone autoritarie o violente, come la paziente in questione, non tollerano che la guarigione possa loro venire da un altro; tutt’al più sopporterebbero di guarire da sé, poiché di fatto dicono di sapere benissimo ragioni e rimedi dei loro mali, tanto che le cose che vengono scoperte nell’analisi non sono che dolorose verità che non emergono però grazie al lavoro comune col terapeuta, ma dal prorompere irresistibile e quasi automatico dell’inconscio che si sono rassegnate a liberare per propria ineliminabile volontà. Con poca coerenza, però, non addossano a loro stessi, costoro, la colpa dell’insuccesso della cura, ma la rigettano interamente sul terapeuta, accusato di essere l’incapace che non ha capito, che non ha saputo agire con efficacia.
Con queste persone, il lavoro può proseguire solo con grande fatica, ma, pure, sorprendentemente, è ugualmente possibile, ed anche gli stratagemmi e le resistenze finiscono per essere usati dal buono psicoanalista come utili apporti al lavoro comune. Insomma, in ogni persona c’è una parte sana, che è possibile amare, con la quale si può stabilire un rapporto di lavoro proficuo. Io mi sono, col tempo, convinto che le mie teorie psicoanalitiche, le mie tecniche di cura, non sono che un elemento del complesso universo di fattori che entrano in gioco nell’analisi a favore o contro il processo terapeutico. Gli stessi trucchi usati una volta per ingannarmi mi servono, la volta successiva, per smascherare un sotterfugio o chiarire un punto oscuro. Perciò io non voglio trasmettere ai miei discepoli un insegnamento basato su teorie rigide o formule stereotipe, ma li invito a restare sempre disponibili agli insegnamenti che continuamente possono venire da ogni dove, e anche dai pazienti che bisogna saper sempre amare ed ascoltare. Quanto sia assoluto il diritto del paziente di essere accettato anche nella sua viltà e nel suo malanimo è difficile da stabilire. Se il terapeuta mostra di accettare, comprendere ed assecondare troppo la malattia, essa si insedierà sicura e trionfante, gestita dal paziente che ne sarà, però al tempo stesso la vittima.

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Un rischio che si può correre nel lavoro analitico è che lo psicoanalista decida di affrontare prematuramente un argomento scottante, che parli troppo presto. Questo momento «troppo» prematuro non è collocabile in un punto preciso dell’analisi, semplicemente significa che «l’impatto» è avvenuto prima che analista e paziente fossero ben preparati (lo stesso può accadere ad un insegnante di pianoforte che imponga troppo presto all’allievo di affrontare una difficoltà, o anche che tra due persone che si amano vengano troppo presto pronunciate parole definitive che compromettono un sentimento ancora troppo sottile). Gli esiti negativi nel rapporto terapeutico di tale precipitazione possono essere due: il primo è che non venga percepito il significato profondo della comunicazione, e che anziché colpire lasci il paziente indifferente o divertito. Non era ancora arrivato a quel punto del percorso, altri discorsi si aspettava che non erano ancora venuti che dovevano arrivare prima di questo, ora così inopportuno. Certo è un atteggiamento di difesa, ma che non si può abbattere senza rischi disastrosi. Il secondo pericolo di una comunicazione precipitosa di contenuti troppo pesanti è una destrutturazione eccessiva che rischia di essere distruttiva. Bisogna aver chiara la differenza tra destrutturazione e distruzione. Destrutturare vuol dire disorientare, lasciando però sempre la possibiltà di riorganizzarsi psichicamente anche in una situazione che permane di disagio: i punti di riferimento debbono poter essere ricostituiti. La distruzione comporta invece un danno irrimediabile: crollano il mondo interiore e quello esterno per la persona, che si sente perduta, con i suoi valori, i suoi desideri, i suoi sogni. Non varranno, allora, più a nulla le parole di un terapeuta che continuerà a parlare di coraggio, di vittoria e di salute, dopo aver però reso completamente arido il terreno su cui pretende di seminare ancora: come Attila è passato solo per distruggere. Quando, nel seguito dell’analisi, verrà il momento in cui sarebbe stato opportuno affrontare gli argomenti prematuramente bruciati, il paziente ne percepirà solo un fastidioso senso di ripetitività e talvolta si sarà profondamente intaccato il senso di fiducia indispensabile che deve legarlo al suo terapeuta.

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Quando l’analista dà troppo presto quella che si dice «interpretazione», distrugge una creatura, come distruggono le madri che non hanno il coraggio di amare. Amore vuole dire rispettare la persona che si ha di fronte, che è però altro da noi.
È molto importante che terapeuti e pazienti, nell’analisi, non si inseriscano in un meccanismo di distruzione, ma comprendano invece il significato fondamentale della destrutturazione, quella fase di necessario disorientamento, dopo il quale sarà possibile ritrovare un senso nuovo al proprio essere nel mondo. La distruzione è invece inerte esercizio di morte. Destrutturare è compito dell’analista, che deve stare molto attento a controllare il proprio sentimento di strapotenza nei confronti di tutto ciò che gli sembra fin troppo vero ed evidente. La verità è meravigliosa e divina, ma non può essere rovesciata sulle persone in un qualunque momento.
Riassumendo: vorrei dire che è negativo non dire al momento giusto quel che deve essere detto, come è negativo dire quel che dovrebbe essere detto in un momento in cui non può essere efficace, o in cui ha un esito distruttivo. La scelta del momento giusto compete al terapeuta, che deve saper sfuggire anche alle trappole che il paziente gli tende per ottenere anticipazioni o ritardare rivelazioni. Sbagliare è sempre possibile, chi decide di intervenire sa che rischia di incorrere in errori, del resto decidere di non intervenire è senz’altro l’errore più grave.

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Ho finora preso in considerazione soltanto la terapia basata sulla parola. Io, come molti sapranno, penso che la parola non sia che un mezzo fra i tanti, indubbiamente efficace, ma non il solo, né l’assolutamente migliore. Ci possono esser molti tipi di messaggio utili a fare chiarezza. Tutto può tornare terapeuticamente vantaggioso: un gesto, uno sguardo, lo spostamento di una seduta, un’uscita col paziente al bar per un caffè. Solo gli analisti vili o troppo poco esperti temono di incontrare i loro pazienti fuori dello studio e preferiscono rannicchiarsi contro i muri che affrontare un incontro fortuito. I vili non dovrebbero intraprendere la professione psicoanalitica. Il paziente non deve essere troppo temuto, la psicoanalisi deve insegnare che vivere può essere bello e piacevole, che i corpi non debbono fare paura, che è possibile amare ed essere amati.

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Per tornare alla «terapia della parola», voglio ora soffermarmi su un altro punto rischioso del lavoro psicoanalitico. Pur avendone più volte accennato, ho l’impressione di non aver mai sottolineato con sufficiente chiarezza ciò che accade quando, talvolta all’improvviso, scaturiscono dalla bocca del paziente fiumi di parole, che esprimono fantasie, pensieri, sogni, ricordi, in un ininterrotto prorompere dell’inconscio, come un fiume che ha rotto gli argini. Poiché l’inconscio non è mai racchiuso all’interno dei confini di una sola persona, possono sorgere, da vicino o da lontano, i fantasmi. Sono stimoli provenienti da mondi che si insinuano inavvertitamente nei contenuti della vita attuale. In questi casi è il paziente che sta parlando fuori tempo.

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Orchestrare i propri pensieri, ordinare i ricordi è difficile come coordinare il lavoro degli strumenti dell’orchestra per prepararli all’esecuzione di una sinfonia: tutto deve essere ben amalgamato, i tempi debbono essere per tutti precisi, nessuno strumento deve entrare in anticipo o in ritardo, se no non è possibile il discorso musicale. Imparare a gestire e a controllare fantasie e ricordi non significa, come credono troppi artistucoli d’accatto, rattrappire la pienezza dell’ispirazione poetica (per cui la psicoanalisi viene vista come castratrice dell’arte); ma, al contrario, solo il controllo e la piena capacità di gestione delle tecniche come dell’ispirazione consentono la produzione artistica che comunica e viene recepita. Tornando all’analisi: cosa deve fare l’analista di fronte al paziente troppo e intempestivamente loquace? Le sue verità sono abbaglianti, i suoi ricordi impressionanti, distruttivi, entusiasmanti, sempre pregnanti. Quando l’inconscio si inserisce così prepotentemente nella vita cosciente, travolgendo le difese prima così accuratamente disposte dal paziente stesso, è inutile vedere tanta sovrapproduzione di materiale analitico come un’ulteriore difesa, dirsi che troppo o niente hanno lo stesso significato. Non è vero: dire tutto non è come tacere tutto, persino nelle allucinazioni traspare il bagliore di una verità per troppo tempo compressa, i sentimenti diventano nitidi nella loro aggressiva irruenza. L’analista deve essere il buon direttore d’orchestra che mette ordine in quella ricchezza di materiale sonoro ed emotivo; senza inibire, né bloccare, se non si vuole correre il rischio di ridurre il paziente al silenzio completo, oppure di forzarlo a ribellarsi e ad aumentare il furore parossistico di parole sempre meno facilmente controllabili, sempre un po’ più vicine al delirio. Il materiale onirico è il più facile da riordinare: è sua prerogativa accettata una leggera caratteristica di bizzarria, che può facilmente essere ricondotta a quieti e tranquilli messaggi rassicuranti (mai falsi: io sostengo che l’analista non deve mai mentire, tutt’al più può limitarsi a non dire tutta o a non dire ancora la verità, se la cosa può andare a vantaggio dell’equilibrio psichico di chi si è affidato alle sue cure). L’analista esperto può facilmente manipolare i sogni di cui conosce bene il meccanismo: sa come sono costruiti, come è possibile smembrarli, come possono essere compresi ed anche resi innocui. Più difficile è affrontare parole che vengono dette direttamente, con riferimento al loro preciso significato, non mediate dalla fantasiosità onirica. Certo, ogni frase, ogni gesto, ogni espressione può richiamarsi a qualcos’altro. Nessuno dice soltanto quello che è, tutti alludiamo sempre anche ad altro. È impossibile pronunciare la più semplice delle frasi, senza che traspaia un’allusione ad argomenti diversi, a situazioni apparentemente molto lontane. Qui si vede l’abilità di chi deve essere capace di prendersi cura, con affetto, senza violenza e senza vuoti trionfalismi. L’analista deve essere in grado di richiamare la persona ad una precisa realtà, proprio come chi desti qualcuno da un incubo. Con la stessa cautela con cui è bene risvegliare colui che, addormentato al nostro fianco, stia dando segno di soffrire per una opprimente scena notturna da cui non riesca da solo ad uscire. La voce sommessa, qualche carezza leggera devono aiutare un risveglio dolce al mondo amico che lo circonda. Il brusco richiamo del terapeuta non servirebbe ad interrompere il delirio di parole, proprio come un brusco risveglio rischia di non svegliare davvero. Ci si può domandare quale sia la realtà che deve essere considerata legittima, se non siano anche forme di realtà il delirio e l’incubo. Infatti questo è il momento di scegliere quella realtà che può essere più amica al paziente, meno fantastica, ma anche meno contraddittoria, in cui siano messi a disposizione gli strumenti più utili a proseguire il cammino verso la guarigione e allontanati invece gli elementi che al momento non possono ancora servire a raggiungere quell’obiettivo.

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Finora ho sempre parlato di un rapporto terapeutico tra due soli interlocutori; ma, quando il terapeuta si trova di fronte ad un gruppo di più persone, come deve comportarsi? Se uno dei membri di quella piccola società che si è venuta costruendo per una ragione terapeutica e che si articola in una vita di gruppo con scadenze abituali, in cui si è anche costituita una dinamica emozionale fatta di sentimenti positivi e negativi, amori e rivalità, gelosie ed egoismi, come deve comportarsi il terapeuta? Non può in questo caso comportarsi come se stesse occupandosi di una sola persona. L’errore più grave che fanno coloro i quali hanno in cura gruppi di persone è quello di considerare troppo spesso il gruppo come se fosse un organismo unitario con dinamiche monoliticamente compatte. È vero che un gruppo è una struttura ben precisa, che esprime quindi quello che può essere considerato l’inconscio sociale di una se pur piccola società; è però anche formato di «singoli» che rappresentano mondi diversi, riuniti in una specifica situazione, tutti però in un preciso momento del loro cammino esistenziale, cosa di cui si deve tenere conto. Spesso i pazienti tentano di trasformare quella che dovrebbe essere una «terapia di gruppo» in una «terapia in gruppo». Tentano cioè quasi sempre di espropriare gli altri del diritto all’interessamento del terapeuta, sforzandosi di instituire con lui un dialogo solo bilaterale; segni di questa volontà possono essere l’eccessiva loquacità invadente o anche l’assoluto silenzio. Sotto sotto, questi pazienti hanno scelto la terapia di gruppo perché meno costosa, ma hanno l’intima convinzione di essere capaci di riuscire ad ottenere solo per sé l’interesse del terapeuta, alle spalle degli altri compagni, accettati a malincuore, come comparse. Anche in assenza di esasperati atteggiamenti individualistici, l’analista deve considerare il fatto che ha di fronte persone con caratteristiche proprie, inserite però in una costellazione ampia quanto è ampio il gruppo, che deve diventare una unità composta di forze diverse e sentimenti interagenti. Prima di parlare e di muoversi dovrà tenere conto sia delle situazioni individuali sia di quella globale. Compito dell’analista sarà quindi di far sì che il gruppo si costruisca un proprio inconscio sociale, di cui dovrà capire le dinamiche e i contenuti. Sono quindi necessari tre livelli di osservazione: della situazione psichica di ciascun componente del gruppo, dell’inconscio sociale del gruppo e infine dell’inconscio sociale della società più vasta di cui il gruppo fa parte. Solo in seguito si potrà intervenire con la parola, i gesti e tutti gli strumenti e comportamenti necessari. Potranno verificarsi anche in questo caso le situazioni cui ho accennato a proposito delle analisi individuali: anticipazioni o ritardi nel dare interpretazioni, esplosioni incontrollate di qualcuno o di tutto il gruppo e toccherà all’abilità del terapeuta non perdere il controllo. Spesso la situazione si presenta così ingarbugliata da non potersi districare senza sforzi immani; ma poi a ben guardare si capisce che non è mai così complessa da non potercela fare: se sono ben presenti all’analista le mie raccomandazioni, se non si perde la capacità di esaminare le difficoltà con pacata tranquillità, senza permettere esplosioni inconsapevoli troppo clamorose dell’inconscio sociale del gruppo, se si saprà impedire ai singoli di sottrarre agli altri il diritto al terapeuta, se si saprà dare il dovuto peso alle proprie parole rivolte a tutti e a ciascuno, ogni cosa procederà per il meglio.
In questo periodo di scatenato individualismo, succeduto come giusta reazione ad un periodo di stupido fanatismo collettivistico, le cosiddette terapie di gruppo sono passate di moda. Ora ciascuno vuole, per sé solo, un terapeuta da amare e da odiare, sul quale rovesciare fantasie e desideri, buoni e meno buoni; non tanto terapeuta quanto oggetto d’amore esclusivo da rapire e portare in qualche luogo remoto in una romantica fuga. Capisco bene che sia più faticoso parlare, in presenza di terzi, di problemi che ci riguardano così da vicino, quando si sta male psichicamente; però il disinteresse svalutante che circonda la terapia di gruppo, se pur mi ha fatto piacere perché mi aveva annoiato e irritato sentir ripetere ai colloqui preliminari alla formazione dei gruppi le solite stereotipe frasi riferite ad un bisogno di socialità fasullo e insincero, più che altro mosso da intenti volti a sminuire l’importanza della figura del terapeuta, mi ha però fatto profondamente dispiacere perché ha rivelato un pauroso disinteresse di tutti verso tutti, ormai tristemente evidente nella spudoratezza di chi si sente nuovamente «alla moda».
Ho sempre messo in guardia anche nei tempi del delirante spirito comunitario i miei pazienti: avvisandoli che il gruppo ha una sua durata e una sua funzione, che richiede un impegno serio, una affidabilità e un credito reciproci tra gli elementi che si impegnano a lavorare insieme, proprio perché la defezione di uno compromette il lavoro di molti; mi sono sentito rispondere con alterigia risentita che il senso di responsabilità politica era più che saldo, proprio da parte di gente che, dopo poco tempo, senza ragione, frivolmente ed irresponsabilmente abbandonava un lavoro intrapreso con gli altri.

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Uno psicoanalista che parli abitualmente a un vasto numero di persone, come accade anche a me, oppure scriva senza sapere neppure con precisione chi leggerà le sue parole, come si deve comportare? Sulle sue parole si proietta l’aura un po’ sacrale del terapeuta, con quel potere che ad essa è connesso, cui, inconsciamente o no, si attribuiscono facoltà un po’ misteriose.
So che le parole che dico procurano sempre un qualche effetto, magari di reazione eccessiva, di rifiuto: quali saranno allora gli accorgimenti da prendere? Ne parleremo in seguito…