Archivio di novembre 1988

47 – Novembre ‘88

martedì, 1 novembre 1988

Messico e nuvole, in via dei Magazzini generali, e un luogo stravagante: su di una terrazza svettano alcune palme di plastica, sullo sfondo di un portale barocco messicano di cartone. Nella veranda un bancone da bar, alcune sedie e tavolini da terrazza al mare, molto fumo, clienti che sembrano usciti dal-la notte dei tempi in cui furono sepolte le ultime contestazioni, fatte a suon di spinelli e assoluta astinenza da ogni pratica igienica.
In tale cornice, con bella temerarietà un gruppo di ex-giovani propone piatti di cucina messicana.
Sono soprattutto tortillas, variamente condite, ma tutte ugualmente immangiabili: troppo fredde o troppo calde, troppo piccanti o troppo acquose.
Il riso bollito che accompagna molti piatti non è quasi commestibile: troppo odore di curry, assolutamente fuori luogo; cattivi vini italiani e pessimi cocktail: si sbaglia anche a fare il margarita. E’ imbarazzante persino la gentilezza colpevole di chi serve ai tavoli ed è ben consapevole di non aver nessun diritto di somministrare tante assurde dimostrazioni di incompetenza eno-gastronomica in un luogo così desolante. Non ci siamo arrabbiati, ma non abbiamo però avuto la forza di divertirci: forse è ingiusto pagare per tutto questo, ma comunque abbiamo pagato pochissimo.

Il ristorante cinese La taverna di bambù è, a nostro avviso, in questo momento il miglior ristorante cinese di Roma, tra quelli da noi conosciuti. In questo localino di via Santa Dorotea, in Trastevere a un passo da Ponte Sisto, la cucina è tradizionale ed ottima; però si possono trovare anche alcuni piatti non proprio consueti come le prelibatissime fettuccine con salsa mista di carne di pollo e pesce o le mazzancolle con salsa. Tutto il repertorio è eseguito con grande accuratezza: le buone pizzette con cipollina sono croccanti, gli involtini primavera sono fritti al punto giusto, la zuppa di pinne di pescecane non è viscida come troppo spesso avviene ed è saporitissima, il manzo croccante è un capolavoro di fragranza e il maiale con germogli di soia ha una gamma di sapori quanto mai ricca e gradevole. Tutti gli altri classici della cucina cinese in Europa sono presenti in lista ma se quanto abbiamo detto finora già giustificherebbe in parte il nostro entusiasmo c’e un elemento in più che ha decisamente fatto pendere la bilancia in favore di questo astuto ristoratore, sposato a una gentile signora cinese e padre di una bambina che la settimana scorsa era raffreddata: l’abbinamento tra i vini e le pietanze è non solo possibile, ma addirittura indovinatissimo, grazie alla varietà della cantina e ai suoi buoni consigli. Veramente esterrefatti, siamo riusciti a bere, per fare un esempio: un gradevolissimo Lagrein rosato, servito alla giusta temperatura, benissimo associato con le mazzancolle in salsa cinese, o ancora un eccellente un Pinot nero con il maiale ai germogli di soia. Il prezzo ci è parso di sufficiente equità, considerata appunto la carta dei vini.

47 – Novembre ‘88

martedì, 1 novembre 1988

Proibizionismo

Con un rigurgito di reaganismo della peggior specie, politici e legislatori stanno decidendo che in questo modo non si può più andare avanti e che il problema della droga va affrontato con decisione: ragion per cui si è pensato di fare qualche bel passo indietro e ritornare a quello che senza paura di esagerare si può definire «proibizionismo»! Non c’è bisogno di essere specialisti criminologi per sapere che proibizionismo e gangsterismo vanno di pari passo e non è neppure necessario avere visto più di qualche telefilm per sapere che la punizione del tossicodipendente è alla base di gran parte del disastro esistenziale e sociale suo e dell’ambiente in cui si trova a vivere. Questo evidentemente non basta né al politico, né al legislatore che sono invece sintonizzati su di un altro canale: quello della lotta agli spacciatori! La realtà non è però così semplice, come la vorrebbe la coppia presidenziale appena smessa e come credono che sia i loro tardi epigoni italioti. Nel nostro per tanti versi disgraziato paese quello delle droghe è diventato un problema sempre più scottante, anche per merito di un’insensata campagna che per anni ha bombardato i ragazzini delle borgate e delle cinture industriali delle grandi città con servizi e spot che fingendo di voler dissuadere, persuadono: immagini patinate e servizi «scottanti» hanno finito per creare intorno alla droga un clima «eroico» di maledizione e disperazione. L’operazione complessiva, che se non è voluta direttamente dai grandi trafficanti può essere considerata un frutto tra i più stupefacenti dell’imbecillità umana, ha avuto grande successo anche perché si rivolgeva ad una delle generazioni tra le più sprovvedute che siano mai cresciute nel nostro paese e dintorni. A questa «gioventù», di primo, ma anche di secondo pelo, nessuno ha davvero voluto dare qualcosa, ma tutti hanno impartito paternali. Ragazzi e ragazze sono praticamente costretti a vivere in assenza del benché minimo stimolo culturale, senza neppure la possibilità di poter fare riferimento a una qualche cultura altra, come, fino al periodo tra le due guerre, poteva accadere ai loro nonni analfabeti. In compenso la mancanza di valori è stata sostituita dall’unico valore concreto: il denaro, che però è per troppo pochi o che viene mal usato da chi non sa di quanti beni possa divenire apportatore. Stupidità e pochi soldi, oppure troppi soldi e la stessa stupidità sono il problema della gran parte della gente oggi. «Gente» appunto e neppure più popolo o masse, gente che deve comunque consumare qualsiasi cosa: giornali e televisione, dischi e hamburger, eroina e coca-cola. Inoltre si sa che le cose che valgono di più costano di più e la «roba» costa sempre di più… e il denaro in tasca è sempre troppo poco. Gridare a questo punto che l’unica soluzione concreta ad un problema che è sanitario e sociale, politico e culturale sia la liberalizzazione di tutte le droghe sarebbe da parte nostra un peccato di imperdonabile leggerezza che ci farebbe mancare di rispetto a quelle forze attive che in questo momento seriamente e ponderatamente stanno dibattendo la questione della liberalizzazione sì o no; ciononostante l’esperienza di sempre ci insegna che a nessuno è mai piaciuto ciò che passa il convento anche se non costa, anzi, molto spesso proprio perché non costa abbastanza e questo discorso, se vale per tutti vale ancor di più per gli stupidi. Non siamo convinti che la droga passata dal servizio sanitario nazionale sia il metodo sicuro per eliminare tutte le situazioni di criminalità legata alla droga: gangsterismo di trafficanti e delinquenza di tossicodipendenti, ma abbiamo il sospetto che la situazione non peggiorerebbe di sicuro e molti ragazzini disposti a rompersi stupidamente il collo per raccogliere il frutto proibito non sarebbero più disposti a curvare la schiena per raccogliere lo stesso frutto caduto dal ramo. Sono paradossi, si capisce, ma non meno della reintroduzione del concetto di punibilità del tossicodipendente.

Psicoanalisi contro n. 47 – Malati per dispetto

martedì, 1 novembre 1988

Tutte le tecniche terapeutiche, dall’antichità ad oggi, si sono sempre dovute circondare di precetti e prescrizioni che solo in parte erano in relazione con la loro efficacia diretta, ma che nascondevano qualcos’altro. Dovevano cioè, per lo più, indurre la suggestione. Comunemente si crede che l’assunzione di una qualunque sostanza abbia sull’organismo un effetto immediato. Ogni medico, senza dover far ricorso a prontuari o statistiche, sa però per esperienza che cosa significhi l’effetto «placebo». La sua influenza personale, la sua capacità di proporre il farmaco nel modo più giusto, le fantasie, che il paziente stesso tesse intorno al possibile effetto della medicina che gli viene prescritta, ottengono, indipendentemente dalla reazione dell’organismo alla sostanza somministrata effetti più o meno positivi. Di questo effetto «placebo» si parla molto: il paziente, in linea generale, pare adeguarsi senza reale giustificazione, all’azione che si è convinto che il farmaco debba avere su di lui, tanto che talvolta migliora e persino guarisce in tempi che nessun farmaco potrebbe garantire. Quello che non è tuttavia stato studiato in modo sufficientemente approfondito è l’effetto di «contro-placebo», che non è meno importante. Moltissimi sono i pazienti infatti che si ostinano nello sforzo di neutralizzare od inibire gli effetti che su di loro dovrebbe avere la sostanza contenuta in un medicamento, per una serie di ragioni che possono essere le più svariate. Una delle motivazioni più diffuse di questo comportamento di opposizione alla medicina è la non volontà profonda di guarire; un’altra non meno importante ragione è poi il rifiuto di accettare l’effetto chimico-meccanico come inevitabile. Molti pazienti vogliono curarsi da sé, decidere i tempi della loro malattia, per cui si sforzano di bloccare, con un impegno costante e sottile, l’azione del farmaco somministrato. L’effetto di «contro-placebo» è piuttosto facile da provocare: il medico consiglia un medicamento, dice al paziente quale effetto dovrebbe avere, oppure lascia che il fogliettino d’istruzione allegato alla confezione del prodotto venga letto dal malato e nel giro di breve tempo se lo vedrà davanti, con aria di sfida, a sostenere con provocatoria convinzione l’inefficacia della cura prescrittagli, e i peggioramenti anzi che ha causato. Io rifiuto di servirmi degli esseri umani come cavie, però se per una ragione qualunque avviene che il paziente scelga contemporaneamente due diverse terapie, mi accade di osservarne delle belle. In tal caso la tecnica e il farmaco in sé non hanno più alcuna importanza, ma sarà determinante la scelta che il paziente vorrà fare: la cura e la medicina che egli vorrà far vincere e quella che vorrà sconfiggere, e quale terapeuta! Alcuni miei pazienti hanno giustamente un atteggiamento di grande esigenza nei confronti della mia tecnica psicoanalitica, ma può accadere che durante il periodo dell’analisi s’imbattano in qualche altro metodo di cura. Se, per esempio, scoprono l’omeopatia, si danno un gran da fare, per dimostrare a me o all’omeopata che la cura dell’uno è meno efficace di quella dell’altro, con un vorticoso avvicendarsi di sintomi che appaiono e scompaiono, secondo che predomini l’amore per uno di noi due. In ogni settore, è una continua gara per dimostrare ad uno specialista che il suo collega ottiene risultati che lui neanche si sogna. Il bello è che di sviluppi, positivi e negativi, spesso ce ne sono davvero, come se fosse proprio la volontà del paziente a condizionare i metodi di cura e i farmaci di qualunque tipo.
Talvolta la simpatica, tenera, sciocca e delirante perfidia dei pazienti provoca veri e propri disastri, scardinando qualunque precetto. Ogni essere umano vuole essere più forte della terapia e del terapeuta ai quali si affida, tanto da divenire addirittura stolto. Perché? Io non so dare una risposta che abbia un valore in generale, posso tutt’al più dare risposte di volta in volta, caso per caso, persona per persona.

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L’effetto «contro-placebo» è in grado di vanificare qualunque metodo terapeutico. Vi sono persone disposte persino a rischiare la vita – certo inconsapevolmente – pur di inibire l’effetto di un farmaco. Il terapeuta si sente, a questo punto, impotente.
Un medico, in analisi da qualche tempo proprio con me, fece questo sogno: una sua paziente gli si avvicinava irosa e lui cercava di infilarle in bocca un girasole; lei si contorceva, sputava e vomitava, ma il girasole pareva animato da una forza irresistibile e le si insinuava dentro, quando d’un tratto la donna, sorridente, si metteva a suonare il violino.
Non esitò a parlarmi dei suoi desideri sessuali verso la paziente, ad associare il fiore al pene, così il violino al corpo di lei, e l’archetto… Mi faceva quasi tenerezza, prigioniero di tante ingenuità psicoanalitiche: voleva dimostrarmi di saper riconoscere ovunque il simbolismo sessuale, di essere un buon paziente, lui che aveva così tanti pazienti indisciplinati! Gli domandai quali medicine avesse prescritto a quella donna e mi rispose citandomi il nome di un prodotto in cui era contenuta la parola «sol», sole. Risi: «lascia in pace il tuo pene e il corpo della tua paziente. Il tuo vero profondo desiderio, in questo momento, è che la medicina che le hai prescritto la guarisca e le permetta di riprender in pace il suo mestiere di violinista. Ovviamente tutti i desideri sessuali di cui hai voluto parlarmi ci sono, ma ora non ci interessano. Renditi conto che patisci i tormenti che ti sta infliggendo una paziente ribelle che si sta impegnando per bloccare gli effetti di tutto quello che tu le prescrivi. Probabilmente hai il problema di stabilire un diverso rapporto con lei». In effetti fu utile aver affrontato la questione e se nel giovane medico persistette forse il desiderio di certe pratiche di oralità sessuale da parte della sua paziente, ciò non di meno, egli riuscì però a chiarire aspetti complessi del loro rapporto terapeutico.

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Fu forse proprio per ovviare a questo effetto «contro-placebo» che la psicoanalisi antica diede una serie di prescrizioni molto rigide. Una di esse consisteva nella proibizione, per il paziente in analisi, di leggere o peggio studiare la psicoanalisi e scritti teorici ad essa troppo esplicitamente riferibili; ciò per poter essere puro, vergine, il più sprovveduto possibile di fronte alle «interpretazioni» dello psicoanalista. La conoscenza di concetti come: complesso di Edipo, transfert e contro-transfert, o della simbologia onirica, era considerata dai vecchi analisti un grave disturbo del lavoro perché avrebbe potuto dare ai pazienti gli strumenti per compiacere il terapeuta oppure per ostacolare il procedimento analitico. Giustamente si sentivano un poco ciarlatani; come sempre succede a chi pratica una scienza «nuova». Io credo che persino Galileo e Einstein si sentissero tali, tanto clamorosi erano i contrasti tra i fondamenti su cui si basavano i loro metodi scientifici e i principi delle scienze della loro epoca, che li guardava infatti come variopinti istrioni, ricchi soprattutto di fantasia. Così si sentono ai nostri giorni e così sono considerati fino al giorno prima del Nobel i vari Dulbecco, Rubbia, Levi Montalcini, Pfizerann (chi è? non lo so, certo uno che sta per fare una sensazionale scoperta scientifica, e che ora è lì che sogna, mentre si gratta la testa, chino sui calcoli).

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Come ho detto, quindi, tutti coloro che si cimentano con una nuova scienza hanno la consapevolezza di essere, oltre che apparire, almeno in parte, un po’ ciarlatani; ma sono queste persone che fanno avanzare il mondo e non certo i burocrati, che invece uccidono il progresso coi loro simposi di colletti bianchi, saturi di banalità scambiate tra «onorevoli colleghi». Per questa insicurezza quindi l’antica psicoanalisi si prodigava per proteggere dalle indiscrezioni i suoi «trucchi», soprattutto timorosa che perdessero di effetto su chi ad essa ricorreva per cercare la cura del proprio malessere. Un nevrotico che si affidava allora ad uno psicoanalista non faceva forse troppa fatica ad accettare tali precetti che gli imponevano un comportamento così poco normale: del resto, se tutti gli altri riuscivano – per esempio – a camminare tranquillamente per strada senza star male quando pestavano le strisce del marciapiede e solo lui si disperava, o, a differenza dei più, era terrorizzato all’idea di prendere un treno, o ancora aveva bisogno di alzarsi trenta volte dal letto per controllare di aver chiuso la porta di casa, allora era comprensibile che chi lo curava si sentisse in diritto di proibirgli di compiere gesti consentiti al resto del genere umano.

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I maligni dicevano allora – e dicono ancora – che queste proibizioni della vecchia psicoanalisi miravano a plagiare i pazienti. Io che non sono maligno, che sono anzi un ingenuo, dico: si faceva così perché le interpretazioni calate dall’alto potessero avere più efficacia e non tradissero la loro origine dalle solite quattro formulette sempre uguali. In effetti, chi proprio non ha idea di cosa possa essere il mondo dell’inconscio, può restare ammirato davanti a chi gli parli di dinamiche edipiche, omosessualità, sado-masochismo e via seguitando e rimanere toccato dal fatto di ritrovare dentro di sé la forza di quelle pulsioni, quei giochi e quei conflitti Sono concetti che oggi invece si trovano in tutti i manuali e che fanno poco effetto a chi vi ha avuto troppo facile accesso. In quel tempo, per fortuna, non c’erano case editrici così astute, capaci di mettere in vendita a dispense tutto il sapere, psicoanalitico e non, per pochi soldi la settimana. Il paziente della psicoanalisi agli albori, che si fosse adeguato alle proibizioni del terapeuta era quindi completamente in dominio del suo analista, il quale applicando pochi concetti, semplici ma efficaci, agiva più facilmente su chi non aveva troppe opportunità di contrastare il suo lavoro. Che fosse o non fosse lecito comportarsi così coi pazienti è un problema che non voglio affrontare qui; certo è solo che oggi ciò non è più possibile.
Oggi nelle scuole di ogni ordine e grado – e persino nelle medie inferiori e in quarta e quinta elementare per merito di insegnanti all’avanguardia – si sente parlare di Sigmund Freud, del complesso di Edipo e di quello di castrazione, senza che nessuno, eccetto forse qualche vecchio insegnante di religione, pensi di scandalizzarsi. I ragazzini preferiscono sentir parlare di Freud che di Dante o Cavour, del teorema di Pitagora o della perifrastica: gli studenti sono sempre affascinati dal professore che parla loro di psicologia, anche se in genere è uno stupido orecchiante che dice un cumulo di banalità. I ragazzi in realtà cercano inoltre per quanto possono di persuadere tali insegnanti a parlare di argomenti come affettività, relazioni interpersonali, dinamiche psichiche soprattutto per tirare in lungo ed evitare un’interrogazione o un compito in classe e sogghignano quando il bidello suona la campana (sembra incredibile, ma ci sono ancora le campanelle in tantissime scuole). A casa ci pensa poi la televisione a far parlare gli psicologi e psicoanalisti in mille occasioni; e le rubrichette dei rotocalchi e i test da spiaggia completano la «cultura dell’inconscio», per cui, ad ogni evento in qualche modo tragico, le folle attente penderanno dalla bocca dello psicoanalista di turno, il quale fornirà la sua «interpretazione», sempre desolatamente ovvia, sempre uguale alle mille altre già date in occasione di eventi diversissimi tra loro. Nessuno in realtà ne sa oggi molto più di quanto se ne sapesse ieri, ma tutti possono fingere di sapere, e la psicoanalisi è diventata così pane quotidiano.

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Gli antichi ciarlatani di allora non sono oggi più in grado però di ingannare nessuno, i loro vecchi trucchi sono stati scoperti e ‘divulgati’ e poco serve che qualcuno ancora diffidi i pazienti in analisi a leggere troppo intorno alla materia della cura, si rischia piuttosto di eccitare il paziente a fare il contrario, poiché troppo difficile gli sarebbe girare con le orecchie tappate e gli occhi chiusi. Né si tratterebbe solo di sfuggire all’allegria divulgativa: le università rigurgitano di stimoli psicoanalitici, dalla letteratura, al diritto, alla filosofia, alla matematica (so di un corso sulla psicoanalisi del numero): non ci si dovrebbe più laureare perché ci si sta sottoponendo ad un trattamento psicoanalitico? Forse oggi bisognerebbe capovolgere l’antico precetto freudiano: non è vero che ci vuole una cultura universitaria per poter profittare della terapia psicoanalitica, al contrario, bisogna essere molto lontani, oggi, da ogni forma di cultura, per non correre il rischio che qualcuno, magari per spiegare una poesia di Pascoli abbia fatto ricorso a un concetto psicoanalitico. L’analfabeta assoluto sarebbe il paziente ideale per quegli antichi luminari della psicoanalisi.

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Un altro precetto, ancora vigente, della psicoanalisi impone che il terapeuta non conosca il proprio paziente e non sappia di lui che ciò che viene alla luce durante le ore di seduta e viceversa: i due debbono restare assolutamente estranei; non solo, ma anche i pazienti di uno stesso analista debbono restare estranei gli uni agli altri. Un analista non può prendere in cura due fratelli, due coniugi o un gruppo di conoscenti. Guai se i pazienti si scambiano opinioni o gesti d’amicizia: è solo consentito che il paziente delle quattro fantastichi su quello delle tre e su quello delle cinque, che ha occasione di incontrare, di sfuggita, sul pianerottolo, immaginando chissà quali intrighi sessuali o famigliari. Su queste fantasie poi all’analista non par vero di «interpretare». Io dichiaro senza pudore e senza timore di essere considerato troppo ardito, che ormai tutta questa precettistica è divenuta ciarpame che è ora di buttare. La psicoanalisi è vita, che non può essere castrata, costretta in formulette. La psicoanalisi deve vincere perché nel mondo, gli sguardi, le parole, la voglia di essere uniti debbono avere il sopravvento sulle diffidenze conformistiche del passato. Invito esplicitamente i pazienti a ribellarsi a queste pseudo-regole, a sottrarsi a rituali che sono contro natura e contro buon senso. Mentre è assolutamente naturale provare il desiderio di accarezzare e baciare una persona del proprio sesso è invece contro natura fingere di non conoscere o non voler conoscere la persona che da due anni incontriamo in anticamera o davanti alla porta dello studio, mentre esce od entra dalla sua seduta con il nostro stesso psicoanalista.

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Se ci sono terapeuti che si spaventano all’idea di questa ribellione, che si scandalizzano, ebbene saranno problemi loro: tornino in analisi e si facciano curare a loro volta da chi queste paure le ha vinte. I pazienti dell’analisi debbono proclamare apertamente il desiderio di una vita piena, e hanno il diritto di pretendere che i loro terapeuti affrontino in quella stessa pienezza i problemi che nascono dall’inconscio e per i quali si è fatto ricorso alla cura, senza imporre stolide ed inutili limitazioni esistenziali. Pare che io dica tutto questo per il gusto di fare letteratura; molti potranno pensare che io vaneggi, soprattutto pochi crederanno che ci siano davvero terapeuti così rigidi e idioti. Purtroppo ce ne sono ancora tanti invece. Io sono attaccato e considerato frivolo da moltissimi di questi «colleghi», proprio perché non pongo alcuna limitazione di principio alla vita dei miei pazienti e alla mia: ho amici tra di loro, molti si conoscono ed hanno legami di vario tipo. Io voglio che il mio intervento psicoanalitico sia radicato il più possibile in un’esistenza fatta di quelli che sono gli accadimenti di tutti i giorni, con tutti i possibili intrecci e le confusioni che però sono anche indice di ricchezza esistenziale. Io permetto a chi fa analisi con me di studiare psicoanalisi, di leggere quello che scrivo, di ascoltarmi quando parlo in pubblico.
La cura deve avere un suo metodo e una tecnica, che però non possono essere confusi con questi piccoli e meschini giochi del mistero.

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Allora – mi si domanderà – in che cosa consiste il setting? Quali sono le regole che davvero bisogna rispettare?
A costoro rispondo che le regole rituali da rispettare sono solamente due: la prima è che il rapporto analitico, la cosiddetta «seduta», deve avvenire in una situazione di sufficiente tranquillità. Se arrivano rumori dalla strada, se passa qualcuno in corridoio, se nella stanza accanto si esprimono opinioni in modo un po’ troppo vivace, non importa, purché paziente ed analista riescano serenamente a parlare tra loro, dei loro problemi. La seconda regola è il rispetto assoluto dell’uno per l’altro. L’analista non può e non deve imporre nulla al suo paziente, il quale deve a sua volta non imporgli alcunché. In analisi dovrebbe valere il principio che nulla è proibito e che nulla è obbligatorio. Ci sono persone che nel corso del lavoro analitico con analisti formatisi con me invitano il terapeuta a cena, vorrebbero toccarlo, cercano di fare all’amore con lui, pronti a rinfacciargli di venire meno agli insegnamenti del «Maestro Sandro Gindro», se osano rifiutare. Dal momento che lui dice che nulla è proibito perché un tale rifiuto? Dimenticando così che proprio queste pretese tradiscono quella mancanza di rispetto per la persona che invece è requisito indispensabile dell’analisi, per Sandro Gindro.

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Ciò che il terapeuta deve avere sempre ben presente sono le teorie sulla base delle quali egli ha scelto di operare. Egli deve conoscere a fondo le tecniche che gli sono state insegnate e saperle applicare, anche modificandole per adattarle alla situazione specifica. Un giorno, fuori c’era il sole, nel cielo troppo bello di Roma, risuonavano i rintocchi di alcune campane; nella strada due automobilisti si insultavano: squilli di clacson, parole volgari. Una voce disse: «sono malati» l’altra voce replicò: «certo, molto». Una voce era quella dell’analista, l’altra quella del paziente.