Archivio di luglio 1988

45 – Luglio ‘88

venerdì, 1 luglio 1988

Ad alcuni ristoratori non è piaciuto il modo in cui i Farfalloni hanno parlato dei loro ristoranti. Noi sappiamo di essere stati molto duri, talvolta; ma questo ci pare giusto: la cucina è una forma d’arte e di cultura come le altre, sulla quale si deve avere il diritto di critica. Inoltre chi viene a Spoleto è spesso un consumatore disorientato al quale è giusto offrire qualche criterio di giudizio. Se il dovere di cronaca ci impone di dire il male che incontriamo, ugualmente ci impone di dire anche il bene. Un giudizio è sempre parziale e soggettivo e quindi contestabile; quello che noi invece non consideriamo contestabile è il rispetto per la professionalità di ciascuno, accompagnato dal rispetto per la dignità del cliente, nella diversità, anche clamorosa, delle opinioni.

Sciattinau
La scritta Sciattinau sta scomparendo dal muro dell’edificio di via Martiri della Resistenza 51, insieme con una tradizione. Negli anni passati siamo stati più volte in questo locale e ne abbiamo anche detto bene; tornandoci quest’anno, abbiamo visto che è cambiata la gestione di quello che ora è un anonimo Ristorante-Pizzeria. Sia la cucina, sia il tono dell’accoglienza sono crollati miseramente: cibi scialbi, piatti raffazzonati, nessuna allegria. Gli antipasti di bruschette erano insapori; gli strangozzi alla spoletina sono giunti scotti e con un disarmonico sugo stranamente allo scorzone; quelli all’aglio, olio e peperoncino risultavano incredibilmente scialbi; gli spaghetti al tartufo, ugualmente scotti, non miglioravano certo la situazione. Dopo una frittata al tartufo quasi passabile, i secondi di carne facevano pietà: un misto alla griglia, accartocciato e povero; un agnello tartufato stopposo e salatissimo, coperto dalla medesima pappetta di scorzone. Per contorno le solite patate surgelate e gelidi fagiolini bolliti. Pochi i vini a disposizione tra cui un orrendo bianco della casa, un metallico Rosato d’Assisi e un giusto Rubesco. Il conto, tutto sommato, risultava, in rapporto alla qualità e ai prezzi correnti, persino abbastanza elevato.

Taverna dei Duchi
Siamo molto lieti di poter parlare bene di un locale che, solo da tre mesi, è in mano a una nuova gestione, il quale, per la sua ubicazione in un trecentesco palazzo di via Saffi, a un passo dal Duomo, potrebbe, come molti fanno, fregarsene assolutamente dei clienti e offrire i soliti intrugli ad alto prezzo a turisti italiani e stranieri, un po’ inebetiti dal clima festivaliero. Invece così non è: ragazzi gentili e un gestore attento sono in grado di prepararvi un pranzo gradevole, anche consigliando con sapienza i vini. Ci ha fatto veramente piacere sentirci sconsigliare un vino che avevamo scelto, perché considerato troppo vecchio e a rischio, per le condizioni in cui la precedente gestione lo aveva tenuto. Anche le lievi critiche che muoveremo sono solo un incitamento a meglio fare, poiché pensiamo che ci siano ottime possibilità. Abbiamo gustato antipasti davvero appetitosi: crostini misti, tra cui uno, che ci è parso originale, al carciofo; diversi affettati, presentati come antipasto della casa, il migliore dei quali era un delizioso prosciutto crudo. Il risotto ai funghi porcini, leggermente scotto, aveva un ottimo sugo, ricco di funghi, forse eccessivamente salato. Col sale qualcuno della cucina deve avere qualche problema, perché gli ottimi strangozzi alle melanzane, perfettamente cotti, dal buon sugo vivace e profumato, erano totalmente senza sale; per fortuna gli strangozzi alla spoletina erano quasi perfetti, con il semplice e raffinatissimo sugo tirato a dovere; il minestrone di verdura aveva l’ottimo sapore di un piatto fatto in casa. Fino a questo punto, abbiamo accompagnato la cena con il bianco della casa, saporito e salmastro; la prima bottiglia, servita non sufficientemente fredda, ce lo aveva fatto giudicare disarmonico, ma con la giusta temperatura di servizio della seconda bottiglia, si è come ricompattato. La buona carne del filetto ai porcini era valorizzata da una salsa senza panna, non troppo dissimile da certe preparazioni della campagna francese; eccezionale il filetto ai tartufi con il prezioso tubero generosamente elargito e una salsa dalla forte personalità (quasi una périgourdine). Anche l’abbacchio scottadito era morbidissimo e non unto; l’originale preparazione dell’arista aveva un buon intingolo al finocchio selvatico, ma una carne un po’ asciutta. Ci hanno consigliato, ed abbiamo apprezzato su tali piatti, un Sagrantino di Arquata, armonico e ben costruito. Purtroppo manca nel ristorante una vera scelta di dessert; noi abbiamo assaggiato l’unico disponibile tra i pochi «della casa», ma ci siamo imbattuti nella ennesima versione della zuppa inglese, di ingenuità disarmante. Ci è stato offerto il tradizionale Sagrantino passito e ci è stato presentato un conto più che corretto.

Vecchio Forno
Il ristorante-pizzeria Vecchio Forno ha una sola caratteristica positiva: il prezzo veramente molto basso. A dispetto del nome, è situato in un edificio ancora in costruzione, in un luogo non proprio ameno, nella frazione di Cortaccione, tra la vecchia e la nuova Flaminia. I gestori hanno arredato alcuni ampi saloni con un cattivo gusto molto provinciale e, sui tavoli, fogli di carta bianca sono stesi a riparare le tovaglie. Le disavventure gastronomiche in cui siamo incappati sono state tali e tante da trasformare la serata in un capolavoro d’umorismo di cui, tutto sommato, siamo grati ai cucinieri. Dopo esserci rinfrancati col solito, fresco e bevibile, Trebbiano Spoletino dell’Umbria, abbiamo affrontato gli antipasti davvero desolanti: dal prosciutto e melone acerbo a triangolini di pan cassetta spruzzati con qualcosa che poteva essere patè di fegatini o giardiniera. Respinta, per nostra viltà, l’offerta delle penne alla panna, abbiamo scelto gli unici tre primi piatti garantiti con pasta fatta in casa e, di fronte ad un cumulo aggrovigliato di pasta senza nerbo, abbiamo avuto l’ennesima conferma che non basta far le cose in casa per farle bene; per di più il sugo degli strangozzi agli asparagi era di una impressionante acidità, gli strangozzi al pomodoro lo erano quasi altrettanto e le tagliatelle al ragù seguivano da vicino: l’acido, insomma, era l’unico sapore delle tre portate. Trionfalmente, ci è stato portato il vassoio delle carni: un pollo arrosto accartocciato, rinsecchito e «sgonfiato», bistecche di castrato così dure da farci pensare che provenissero da uno dei cammelli dei «tre re magi», scaloppine alla pizzaiola, ricavate da un pessimo taglio di carne dura, bagnata da un sughetto slavato.
Inutilmente abbiamo provato altri due vini: un pinot grigio «ruländer» e un rosso sfuso; sono risultati uno dopo l’altro ugualmente imbevibili.
Recuperando tutto il nostro senso del dovere e decisi a un gesto di eroismo, abbiamo, a questo punto, voluto assaggiare anche qualche preparazione di pizzeria, sperando che lì stesse, magari, il punto di forza della casa. Abbiamo allora ordinato pizza al rosmarino e, seppur con raccapriccio, la pizza duchessa, che sulla lista veniva garantita con panna. Arrivò prima in tavola una quantità gigantesca di quella al rosmarino: dopo quattro bocconi di quell’impasto poco cotto, dalla consistenza di un feltro umido e unto, vergognosamente, abbiamo arrotolato la pasta nei tovaglioli di carta, quatti quatti, andando ad occultarla nel cestino della carta straccia. Per fortuna qualcuno ebbe la buona idea di chiederci se volevamo ancora la pizza alla panna, grati rispondemmo di no, con un brivido, perché forse avremmo dovuto anche domandarci: «Dove buttiamo la duchessa?»

Ristorante Torricella
Incominciamo con un «duro» giudizio: questo ristorante, dalle caratteristiche ambientali, e persino architettoniche, più che gradevoli, situato nella pineta di Torricella, proprio sopra Spoleto, è stato il primo ad essere rivisitato quest’anno. Eravamo appena arrivati, un po’ euforici, insieme con tanti amici. Altri ne avevamo appena salutati con affetto, lieti di ritrovarli in città, e noi due eravamo con l’animo ben disposto e addirittura incline all’indulgenza. Nonostante la nostra buona intenzione, sono state però tali e tante le mazzate capitate sulle teste nostre e dei nostri sfortunati commensali che siamo usciti, nella notte illuminata dalle lucciole, indignati e addolorati allo stesso tempo. Lo «chef», bisogna dire, ci ha spiegato di essere «fuori forma» momentaneamente e ci ha fatto vedere la lista futura, pronta per la tipografia e destinata ad allietare gli avventori del periodo festivaliero. Non c’è però «fuori forma» che tenga e se proprio ci si vuol preparare alla grande stagione e solo ad essa, è meglio farlo nel quieto ritiro di un convento.
L’inizio non è stato proprio catastrofico: il Trebbiano Spoletino era fresco e profumato d’erbe e l’antipasto, pur nella sua assoluta ovvietà, presentava un assortimento di crostini, tartine, affettati, fichi e meloni, non certo esaltante, ma accettabile. Le cose sono precipitate con i primi: la mussakà all’aspetto e al palato pareva una parmigiana di melanzane, frullata e anche bruciacchiata. I tortellini al tartufo e panna avevano, sotto i denti, la consistenza del chewing gum, gli strangozzi agli asparagi di bosco, proposti come una prelibatezza, erano immersi in sugo così acquoso che gli asparagi, morti annegati, avevano perso ogni sapore. Sempre precipitando, sono poi arrivati i secondi: il filetto al pepe verde, dalla carne stranamente morbida, era troppo salato e in un mare di panna; il piccioncino ripieno ci è stato portato in tavola con molta reticenza, perché, ci veniva spiegato, non essendo una preparazione «espressa», era rinsecchito e non troppo buono; assaggiandolo noi non abbiamo potuto che concordare ma, gentilezza per gentilezza, perché è stato servito? Solo per punire due antipatici? I vini rossi sono stati un Rosso di Montefalco, rovinato, e un Sagrantino appena bevibile. Per dessert abbiamo avuto ovoline di gelato soltanto fredde, probabilmente alla crema, visto che erano bianche, e una zuppa inglese asciutta e sabbiosa, accompagnata da un Sagrantino passito, graziosamente offerto. Il dovere di cronaca ci impone di non tacere il fatto che ci è stato presentato un conto davvero basso: speriamo solo che l’imminente clima di alta stagione non faccia nuovamente mutar d’avviso!

Ristorante del Mercato
Nella piazza del Mercato c’era una vecchia trattoria storica: la Ludovina, della quale ci era sempre mancato il coraggio di dir male. Quest’anno abbiamo notato grandi cambiamenti e presto ci siamo resi conto che era cambiata la gestione, così ci siamo precipitati a collaudare il Ristorante del Mercato condotto da una signora molto intraprendente e da simpatici giovanotti in gilet rosso. In cucina pare esserci il marito della citata signora, il quale ci sembra un cuoco valido e capace di preparazioni accurate, realizzate con l’uso di materie prime ottime: alcuni dei suoi piatti sono addirittura raffinati nella loro semplicità. Soltanto vorremo consigliargli due cose: la prima è che non ha assolutamente bisogno di usare la panna, neanche nel pur ottimo filetto al pepe verde. Tutti dovrebbero sapere che la panna – è inutile chiamarla crema di latte poiché questa non esiste quasi più – è l’espediente volgare dei pessimi cuochi che vogliono fingere pietanze raffinate impiastricciando di panna le salse che non hanno saputo legare. L’altro consiglio è di esercitarsi nella preparazione dei dolci, che sono la vera pecca della casa. Noi abbiamo gustato un antipasto trionfale e prelibato: una corretta versione di cocktail di gamberetti in salsa rosa (se pure qui un po’ fuori posto), lonza, prosciutto e fichi, profumate bruschette al pomodoro, al paté ed al tartufo e una eccezionale strapazzata al tartufo. Contrariamente a quel che di solito ci accade, abbiamo trovato anche ottimi strangozzi profumati di tartufo o di erbe di campagna, tutti cotti a puntino e senza ombra di panna; ugualmente fragranti anche le penne al profumo di bosco, ricche di funghi; solo il riso al radicchio, per altro ben fatto, era quasi completamente insipido. Non sono state da meno le carni: un’originale tartare giustamente aggressiva, i buoni filetti ricoperti di ottimo tartufo (di quelli al pepe abbiamo già detto); le scaloppe di vitello vere delizie della casa; perplessità abbiamo provato solo davanti alla scaloppa alla bolognese, asciutta ed interpretata un po’ liberamente e alle verdure che, senza dubbio per distrazione, avevano patito un’eccessiva gratinatura. Non ultimo pregio la carta dei vini che finalmente offriva una buona gamma di bianchi, rossi, rosati e spumanti (anche se indicati con una certa approssimazione). Abbiamo apprezzato un Martini Brut Montelera come aperitivo, un fresco e ben tenuto Grechetto dell’Umbria, giovane, vellutato, armonico, profumato di mandorla e con un leggero, gradevole punto amaro; infine ci ha piacevolmente allietato l’originalità di uno Schioppettino, dal bel color cerasuolo, vivace, morbido e profumato di fragola e ciliegia.
Il conto non è stato particolarmente basso, anche tenendo conto della ricchezza delle portate, però accettabile.

Psicoanalisi contro n. 45 – L’ingenua speranza

venerdì, 1 luglio 1988

La stupidità e la banalità dominano il mondo; non sarebbe possibile altrimenti. Io credo nella potenziale uguaglianza di tutti gli uomini, ma so che le condizioni sociali e ambientali, gli sfruttamenti millenari e soprattutto la non volontà e l’incapacità di insegnare di coloro che, nel lungo cammino della storia umana, hanno tenuto le redini del potere, li hanno resi disuguali. Questa incapacità è soprattutto evidente nella cosiddetta «famiglia»; non mi riferisco solo alla famiglia attuale, fondata sul rapporto di coppia tra due individui di sesso diverso, ma anche a quel tipo di famiglia che coincide con tutto il gruppo sociale, quando è unito da un vincolo di sangue. Gli adulti, maschi e femmine, non hanno mai saputo insegnare. Quando sia incominciato questo meccanismo perverso è impossibile dirlo. L’insegnamento ufficiale, che il gruppo affida, istituzionalmente, ad alcune persone, non è altro che il riverbero di questa incapacità di fondo. Non ho voluto dire incapacità costitutiva, perché allora dovrei dire che anche l’incapacità di imparare è costitutiva, nel qual caso banalità e stupidità sarebbero destinate a regnare sovrane, nei secoli dei secoli, senza che gli esseri umani abbiano speranza di riscatto. Di fatto, però, solo pochi individui, eccezionalmente dotati, riescono a riscattarsi. Indubbiamente, questa mia è una visione che può parere aristocratica, anche se ho usato il termine in quella che è un’accezione comune, ma etimologicamente scorretta. La specie umana non è guidata dai migliori, che sono una minoranza e di rado detengono il potere. Questo è ancora peggio che se non lo detenessero mai, perché permette agli ingenui come me di sperare in un mondo migliore, in cui si possa insegnare la giustizia attraverso la giustizia, la bellezza con la bellezza e l’amore con l’amore.

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Questa situazione perversa è talmente incancrenita e allo stesso tempo bizzarra che talvolta i migliori riescono ad affermarsi, imponendo all’ammirazione universale il giusto, il bello e l’amore. Ecco perché Fidia, Raffaello, Dante, Shakespeare e Bach sono diventati emblemi della bellezza e grandezza umana. Certo, basta entrare nella Cappella Sistina, e vedere le orde di barbari inebetiti che girano gli occhi e torcono il collo per guardare, e soprattutto ascoltare i loro commenti, per comprendere che quasi tutti coloro che si trovano lì, sono spinti dal loro dovere di turisti, e in realtà non capiscono nulla di quello che vedono, nulla di quelle meravigliose immagini, narranti storie che vanno oltre il tempo. Quasi nessuno di essi nella vita persegue la giustizia, la bellezza o l’amore. Eppure l’ammirazione di simili persone per quelle opere che sfolgorano di una grandezza quasi misteriosa non è stata solo imposta. Io, forse, mi illudo, ma credo che ogni essere umano, sia pur inconsciamente, percepisca qualcosa. Io non considero l’inconscio solo come la sentina di tutte le pulsioni perverse e rifiutate, ma lo vedo anche come il luogo in cui si annida la speranza. Nell’inconscio si sono nascosti la giustizia, la bellezza e l’amore. Tutti gli uomini hanno provato, almeno una volta nella loro vita, la nostalgia. Sto parlando della nostalgia senza oggetto, che prende, all’improvviso, creando una situazione di struggimento profondo, in cui si vorrebbero dire e pensare cose di cui non si è invece capaci. Qui si nasconde la dignità dell’uomo, nel rimpianto per il paradiso perduto o per l’età dell’oro.

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Anche la psicologia ha bisogno di essere stupida ed in mano agli stupidi. Non sto parlando soltanto dei giochetti televisivi o dei test dei rotocalchi, che servono a far passare il tempo, nella tremenda ed esasperante situazione di una spiaggia sudicia ed affollata, di fronte ad un mare avvelenato. Parlo anche di libri che vanno per la maggiore, di dotte chiacchierate di psicologi alla moda. Si riversano sul pubblico cumuli di ovvietà. Il giornalista domanda: «Professore, cosa prova il prigioniero in balia dei suoi rapitori?» E quello risponde: «Alcuni provano intensa paura e si abbattono, altri tentano di reagire con un meccanismo contro-fobico». Se lo psicologo è uno psicoanalista, troppo spesso, risponderà più o meno così: «Indubbiamente, alcuni sentiranno il carceriere come il padre e gli si sottometteranno, altri lo percepiranno come figura materna e cercheranno di blandirlo». Non voglio affermare che tutti gli psicologi e psicoanalisti siano capaci di dire soltanto sciocchezze, ma certo che le banalità che la scienza psicologica riesca a diffondere per il mondo sono paurose. Eppure, sin dal suo primo sorgere, di quante profonde ed acute intuizioni è stata capace la psicoanalisi e quante ancora continua ad averne oggi! Negando totalmente l’insegnamento psicoanalitico, si afferma di voler lottare per raggiungere cose concrete (anche se non si sa bene cosa e con quali strumenti) piuttosto che cercare di capire. Così le rivoluzioni producono soltanto cambiamenti superficiali e la revisione dei libri di testo; mentre l’uomo e la donna rimangono gli stessi: ottusi e tirannici nella loro incapacità di insegnare e nella loro pervicace volontà di ascoltare soltanto ciò che non mette a disagio.

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Gli artisti scelgono questa o quella forma d’arte, oppure oscillano tra opposte tentazioni, spinti dal bisogno di guadagnare e dal desiderio di sentirsi privilegiati, perché accreditati, senza fatica, come depositari di valori che nessuno può permettersi di verificare davvero; oltre che per il piacere di esibirsi. Per esporsi rischiando di persona ci vuole un grande coraggio: la ricerca di autentici valori è faticosa. Il coraggio e la forza non si trovano dietro l’angolo, ma possono solo essere il frutto di insegnamenti preziosi e prolungati. Chi può dare, però, un simile tipo di insegnamento, se così pochi accettano l’onere di essere maestri d’arte come di vita? Perché si dovrebbe avere l’umiltà di ascoltare quei pochi che si sobbarcano il compito di parlare, dal momento che ascoltare davvero mette a nudo le proprie debolezze, destruttura la costruzione di piccole ovvietà su cui abbiamo accettato di fondare la nostra vita? D’altronde se nessuno ha il coraggio di ascoltare, non ha senso che qualcuno accetti di parlare. L’artista e l’uomo debbono sforzarsi di riappropriarsi del loro coraggio e smascherare e denunciare l’espropriazione e gli espropriatori.
Per questa speranza io vivo, uomo, scienziato e artista, alla ricerca della giustizia, della bellezza e dell’amore.

45 – Luglio ‘88

venerdì, 1 luglio 1988

Grazie al cielo!

«Molti nemici, molto onore» è l’orgogliosa e velleitaria affermazione con cui l’Italietta fascista cercò di dare un senso al proprio isolamento politico, economico e culturale dal resto del mondo civile, ma che non bastò a preservarla dal disastro. Non è quindi con soddisfazione che i Farfalloni, dopo cinque anni di costante presenza a Spoleto e al Festival dei Due Mondi, giungono a constatare di essersi fatti più nemici di quanti se ne augurassero; e decisamente troppi a fronte dei pochi, per quanto cari e sicuri, amici su cui possono dire di contare. Nonostante il suono bellicoso della testata: PSICOANALISI CONTRO, non siamo giunti fin qui, cinque anni fa, con l’intenzione di fare il facile gioco della contestazione a tutti i costi, ma abbiamo voluto sforzarci di proporre un modo un po’ inusuale di leggere una realtà complessa come quella del Festival e del territorio in cui si svolge; una lettura che non fosse meramente promozionale o superficialmente mondana. Volevamo e vogliamo tuttora renderci conto, dall’interno, dei contenuti artistici e sociali di una manifestazione quasi unica al mondo e che è divenuta un modello cui si guarda da ogni parte con ammirazione ed invidia. La singolarità del nostro approccio è anche costituita dalla funzione di «volàno» che ci siamo proposti di esercitare tra chi il Festival lo fa, chi ne fruisce e il territorio che ad entrambe le categorie offre ospitalità. Con grande determinazione, abbiamo però rifiutato di uniformare il nostro intervento a qualunque tipo di «convenzionalità», non solo mondana ma neppure culturale o politica. Con tali premesse, non speravamo, ovviamente, di divenire «popolari», ci ha però stupito una certa rigidità delle strutture e delle persone, troppo preoccupate di «arroccarsi» in gruppi chiusi omogenei, anche quando un atteggiamento di apertura sarebbe nel reciproco interesse. Si accusa, spesso a sproposito, di narcisismo il mondo dell’arte, ma noi sappiamo che non c’è arte senza scambio con l’altro; purtroppo, accade talora che la comunicazione artistica debba prescidere dalle persone degli artisti, oppure che cada nel vuoto di fruitori vanesi; ma ciò può nuocere solo a quelle persone e non all’arte: grazie al cielo! Noi abbiamo pochi amici e questo ci fa molto onore, poiché sono gli amici dell’arte e della cultura, e i nemici dell’adulazione sciocca e servile.