Archivio di maggio 1988

43 – Maggio ‘88

domenica, 1 maggio 1988

L’Antico Falcone di via Trionfale 60 è un vecchio ristorante di quartiere che ha il pregio di disporre di un salone di rara bellezza, con antiche colonne di mattoni e una poderosa volta a botte in un vecchio palazzotto fatiscente sopravvissuto, chissà come, fino ad oggi. Noi ci capitiamo ogni tanto, attratti dalla suggestione di quei muri, malgrado un’accoglienza sempre distratta e un servizio molto lento. Fino a qualche tempo fa la cucina era sopportabile e talvolta addirittura appetitosa, pur rimanendo rustica e un po’ greve; ma negli ultimi tempi capitano anche cose inaudite. Per esempio noi ci siamo trovati l’altra sera proprio sull’orlo della disperazione. Dopo aver prenotato ed essere arrivati con un lieve ritardo abbiamo atteso una buona mezz’ora prima che il sor Gianni ci imponesse, per ingannare l’attesa, un antipasto di olive e arancini di riso col bianco della casa. Quando finalmente siamo riusciti ad avere quello che avevamo ordinato, scegliendo tra le poche cose rimaste nella lista, abbiamo trovato nei piatti minuscole porzioni che avevano l’aspetto degli avanzi di cucina, tanto e vero che al momento di ordinare le melanzane alla parmigiana ci è stato detto che, essendo espresse, avremmo dovuto aspettarle per venticinque minuti. Tutto questo tempo non le ha rese più appetibili: erano pesanti, unte e senza sapore. Per il resto si può solo dire che i primi fossero i rigatoni alla nasona, le penne all’arrabbiata, gli spaghetti al pomodoro e basilico o il minestrone freddo avevano più o meno lo stesso sapore dolciastro di pomodoro in scatola e la pasta ugualmente scotta; i secondi dal canto loro parevano tutti immersi nell’identica brodaglia di fagioli sfatti e insipidi, tra i quali a stento siamo riusciti a distinguere le cotiche dalle polpette e queste ultime dallo spezzatino. Per finire – oltre ai prefabbricati di repertorio: gelati, tartufi, etc. – si è fatta notare una sorta di crostata d’argilla. Dei vini non conta parlare e il conto basso non giustifica né il disservizio né la malagrazia di tutti, fatta eccezione per il patetico e quasi simpatico sor Giovanni, che tutto ha fatto perché ci scordassimo di quel che ci portava nei piatti.

«Focaccia e cozze, pizza o spaghetti, lire diecimila.» Così recita il manifestino sul muro esterno e sulle vetrine di un locale aperto dalle ore diciannove alle tre del mattino, in via del Teatro Pace, a un passo da piazza Navona: il Navona Notte. Non si tratta certo di un locale per buongustai e lo si capisce anche dall’affollamento dei brutti tavolini, in spazi che risultano angusti, malgrado siano stanzoni ampi e dagli alti soffitti e nonostante il tentativo ornamentale di un gigantesco acquario sulla parete di fondo della prima sala. Gli avventori sono nottambuli di ogni specie: stranieri spaesati, appena traboccati dal traffico di piazza Navona, e habitués della fauna di Parione, con voglia di mangiar qualcosa e non molti soldi in tasca. I camerieri sono decisi come affettuosi caporali: con un sorriso e disinvolta gentilezza sbrigano le ordinazioni sollecitando gli esitanti, anche perché il repertorio non è troppo vasto! Noi eravamo pronti a tutto: forse per questo la focaccia un po’ cruda, ma non sgra-devole, e la gigantesca quantità di cozze, senza molto sapore eppure mangiabili, la pizza margherita leggermente secca, il piatto di salumi e formaggi, non certo di prima qualità, ci hanno quasi divertito come, le tovagliette di carta pretenziose. Quello che ci ha deciso a parlare di questo locale è stato però il sugo delle penne all’arrabbiata, inaspettatamente ottimo, come in genere a Roma oggi non si fa più: ben tirato, coi pomodori gustosi, davvero piccante e profumatissimo di prezzemolo; se la pasta non fosse stata leggermente scotta, sarebbe stato un piatto ineccepibile. Il vino in bottiglia che abbiamo bevuto era dei Castelli Romani, di Verginelli, discreto nella sua tipicità un po’ rustica. Sulla soglia costituisce un potente richiamo il prezzo basso, ma questa volta non c’è inganno e i patti sono rispettati.

43 – Maggio ‘88

domenica, 1 maggio 1988

Di qualità si muore

Uno degli aspetti paradossali della polemica recentemente riaperta sulla legge n. 194 del 1978, che garantisce la libertà di aborto è quello per cui ogni opposizione di principio all’aborto, coinciderebbe con l’imposizione alla donna di una maternità non voluta. Di fatto, ci sono modi molto meno costosi, individualmente e socialmente, per evitare il rischio di essere madri contro voglia (anche senza ricorrere allo spauracchio di una castità che costituirebbe un’insopportabile rinuncia all’amore e al piacere): si potrebbe insomma imparare che fare l’amore e concepire possono essere due atteggiamenti ben distinti, con modi e fini profondamente diversi. Come si è rapidamente costruita una letteratura scientifica e popolare in grado di insegnare a uomini e a donne, omosessuali ed eterosessuali, un codice di comportamento che preservi dall’AIDS senza negarsi il diritto di legittime pratiche amorose, così si sarebbe potuto fare, prima anche dell’approvazione della legge, per evitare i rischi di una maternità «non voluta» (ma da quando?). Nessuna donna deve accettare controvoglia di essere madre; nessun uomo può e deve costringervela e forse neanche Dio, checchè ne dicano i preti. La legge attualmente in vigore nel nostro paese e altre più o meno analoghe vigenti all’estero rapresentano in fondo un elemento irrilevante:
non cercano di risolvere il problema sociale e tanto meno il problema morale; sono tutt’al più palliativi «profilattici» di una situazione di incultura nei confronti di una realtà così complessa come il rapporto tra il corpo, la sessualità, la procreazione e l’ambiente. Presi tra gli opposti fuochi del Movimento Popolare e del partito radicale, che basano su identiche ignoranze il loro trascinante populismo, gli italiani fingono di credere che il dovere dello Stato sia di risolvere con la legge un problema di libertà e di responsabilità nei confronti della vita, senza rendersi conto che lo Stato ha già perso da tempo sia la battaglia per la libertà sia quella per la vita. Preti e vescovi, quando non siano iscritti a un partito, fanno il loro dovere, richiamando a una rassegnata ortodossia. Quale sia la voce della divinità non è dato saperlo; certo non è quella di chi piange sull’aborto e tace di fronte a mille altri delitti. Dal canto loro i difensori della non violenza e della libertà superano i conflitti negando a quelle vite di essere considerate alla pari con tutte le altre vite: un po’ meno vite, meno ancora persone, certamente non soggetti sociali, gli embrioni sembrano grumi di pura materia in cui un giorno qualcuno (aborto non prevenendo) insufflerà quello spirito che rende finalmente uomini e donne, cittadini ed elettori, filosofi e artisti. La qualità della vita è una battaglia che può essere legittimamente combattuta solo dopo che si è vinta, nelle coscienze e nella pratica, la battaglia per la vita. Nell’attesa ci sono le mille ineluttabili necessità di morte: in Palestina come in clinica ostetrica, in nome della legge e della libertà.

Psicoanalisi contro n. 43 – Il canto del cucù

domenica, 1 maggio 1988

Educare non è facile: filosofi, psicologi, pedagogisti, politici e legislatori hanno, da sempre, parlato dell’educazione e della «buona educazione»; hanno prescritto norme e imposto divieti.
In tutte le epoche storiche, i gruppi organizzati hanno basato i propri sistemi educativi su principi generali, che si sono strutturati in un inconscio sociale, costituendo un codice normativo, non esplicitato, ma saldamente radicato. Questa accettazione inconscia agisce nel determinare alcune regole di comportamento, che, così, vengono spesso codificate senza che nessuno pensi più di metterle in discussione. Proprio per questo succede però che un sistema educativo entri, a volte, in clamorose contraddizioni al proprio interno. Ad esempio, nell’antichità classica si dava per scontato che gli anziani fossero persone comunque da rispettare: in Roma, in particolar modo, i giovani ascoltavano con rispetto anche le sciocchezze che venivano dalla bocca dei più vecchi, come è documentato da una ricca aneddotica; questo indipendentemente da ogni giudizio critico e dall’altro imperativo morale, ugualmente presente, che imponeva a tutti la ricerca della verità e del bene, nella completa indipendenza ed autonomia di giudizio. Uno degli atteggiamenti che anche oggi gli educatori assumono è quello di chi vorrebbe, anzitutto, educare a saper distinguere il bene dal male, il vero dal falso, indipendentemente dalla maggiore o minore autorità di chi se ne fa portatore, giovane o vecchio che sia. Contemporaneamente, all’interno di questo stesso atteggiamento educativo, è presente, però, l’invito a privilegiare determinate fonti come più probabili portatrici di amore o di saggezza. Così, inconsapevolmente, si invita a dar credito alla più insincera dichiarazione d’amore materno, solo perché viene da un petto che ha allattato, oppure a fidarsi della più ipocrita manifestazione di virtù solo perché è esternata da chi esibisce una venerabile canizie.
È, insomma, uno dei più clamorosi segnali di contraddizione che ci accompagnano, l’invito a guardarsi continuamente da ogni plagio e, al tempo stesso l’esortazione a seguire l’insegnamento di chi è più vecchio. C’è, poi, in più, un persistente elemento che disturba questo processo già logicamente poco chiaro: il fatto che succede spesso che i giovani non ne siano per nulla convinti; anche se è vero che il loro contrapporsi, a volte addirittura antitetico, può essere nient’altro che un segno della sopravvivenza in loro degli antichi valori, a suo tempo assorbiti. In genere, infatti, il capovolgimento assoluto e totale dell’educazione ricevuta non è che un modo paradossale e ossessivo di rispettarla.
Ogni società quindi costituisce storicamente anche i propri principi pedagogici, alcuni dei quali sono ripetuti nel tempo, senza più essere messi in discussione; però, poi, ogni epoca ha un proprio inconscio sociale autocentrico, che si ispira sì al passato, ma anche modifica i valori, i simboli e le fantasie.

2.
Io ho un estremo rispetto per quel tipo di atteggiamento che la nostra cultura chiama «scienza». Questo termine, così ambiguo in passato, oggi sta a definire qualcosa di sufficientemente preciso, anche se per nulla coerente. La scienza è utile, importante ed indispensabile. Sono utili persino gli esperimenti, le quantizzazioni, le discussioni teoriche che si pongono il problema di quale debba essere il modello cui la ricerca deve attenersi. Ogni ricercatore deve prendere, come proprio, un modello unico – ad esempio quello della ricerca fisica -? Oppure la polidirezionalità ontologica, spezzando i rapporti spazio temporali, deve strutturare tanti tipi di ricerca, i quali tendano ad un’armonia, ma pure accettino in sé la contraddittorietà? Mai come oggi il dibattito intorno alla scienza è stato fecondo ed interessante: proprio per questo io mi sento spesso in dovere di prender per il naso gli scienziati: perché non hanno ancora accettato – o almeno solo pochissimi tra loro lo hanno fatto – di essere marionette nelle mani del destino. Il mondo va e viene. Sul prato verde di maggio, stamattina, c’erano tante margherite bianche e gialle, mi sono accoccolato in terra, ho sentito attraverso il tessuto dei pantaloni l’erba ancora umida. Il cucù cantava una terza minore discendente: la – fa diesis. Lo conosco quel cucù: talvolta fa anche la terza maggiore fa diesis – re. Messiaen, nel suo lavoro sul canto degli uccelli, ha dovuto trasportare sulla scala temperata quei suoni, che sono frequenze non riconducibili alle note che i nostri orecchi riconoscono e che i nostri strumenti musicali sono capaci di produrre. Invece, per il canto di quel cucù, ciò non è necessario: forse è nato ai tempi di Bach, o poco prima. È questo la natura: la – fa diesis – re, un bel re maggiore? L’altro giorno, però, ha fatto anche un salto di quarta ascendente: la – la – re.
«Ma come ti permetti – mi veniva di dirgli -; chi t’ha insegnato ad essere sempre accordato col clavicembalo di Bach?» Perché così vuole la natura? È vero quelle che dicevano i teorici del Settecento, che la natura conosce quelle note? Gli uccelli esotici ascoltati da Messiaen sarebbero allora contro natura? E le margherite bianche e gialle, la rugiada che mi sale lungo le cosce, cosa sanno di tutto questo? Cosa ne sa la scienza? Tutto e niente. Ma questa è una frase imbecille, in realtà gli scienziati cercano di saperne un po’.

3.

L’Ottocento vede l’affermarsi della scienza pedagogica: maestri in redingote marrone e maestrine dalla penna rossa, Pestalozzi ed Agazzi, con la spocchiosa Montessori; la psicologia sperimentale e poi Piaget, geniale e delirante allo stesso tempo, inventore di bambini mai esistiti; le tecniche del comportamentismo: si studiano i topini e si educano i bambini (mi sono accorto di aver fatto una rima ma la voglio lasciare).
Tutti questi discorsi pedagogici hanno avuto la presunzione di essere, di volta in volta decisivi: da Rousseau a Neil e avanti. In realtà se oggi due giovani, un lui e una lei, decidessero, per una volta tanto, di non essere omicidi e di lasciar fluire e seguire con amore e rispetto la vita che è germogliata nel ventre di lei, e volessero, per meglio svolgere le loro future funzioni, leggere tutti i trattati di pedagogia, da quella scientifico-sperimentale a quella rozzamente tecnicistica di Comenio e indietro Platone, rimarrebbero assolutamente disorientati. Se poi ascoltassero anche me, rimarrebbero ancor più confusi: «Ma che dice quello?»

4.

Eppure tutti credono di saper educare. C’è qualcuno che crede anche di dover risolvere il problema della scelta del metodo educativo con una stupenda frase, forse l’unica giusta, che però può divenire una bestemmia, se è messa malamente in pratica: «Io voglio educare soltanto con il mio amore; mi lascerò guidare solo da questo principio.» Questo, invero, dovrebbe essere il fondamento di ogni educazione; ma quanto odio, quanta distruttività e invidia io ho visto in genitori che hanno pronunciato quella frase! Ciò non toglie che questo rimanga il fondamento: l’educazione deve fondarsi sull’amore, forse anzi deve essere soltanto amore. L’amore è però continuamente contraddetto, fugge dalle città e dalle campagne, si nasconde nell’ombra, si annida negli specchi. L’amore è onnipotente e fragilissimo, ma in suo nome quante distruzioni, quante guerre, quanti omicidi; gesti cattivi compiuti da padri e da madri sui bambini. Quanti genitori vengono a lamentarsi di aver solo amato e coccolato i figli e poi raccontano episodi che rivelano tutta l’invidia, la rabbia e la disperazione causate da quei figli, rivelatisi esseri umani autonomi e non fantasie; capaci di ribellarsi, a torto e a ragione. Dove è finito l’amore? Si è nascosto dietro uno specchio.

5.
Né gli scienziati dell’educazione, né gli uomini comuni hanno, oggi più di ieri, le idee chiare sulla pedagogia. Alcuni sostengono che soltanto il premio e la gratificazione sono utili e motivano la persona ad accettare gli insegnamenti impartiti. Altri ritengono più importanti la punizione e la frustrazione. C’è chi poi teorizza il giusto equilibrio tra premio e punizione.
Qualcuno parla invece dell’importanza della libertà e dice di rifiutare il condizionamento di qualunque tipo. Questi ultimi sono i più idioti, ma quel che è peggio, sono anche i più pericolosi, perché in realtà educano le creature loro affidate alla violenza e alla sopraffazione. Ogni bambino infatti percepisce quella libertà come disinteresse (e non è detto che non sia così). Si tratta in effetti di un disinteresse affettivo, talvolta accompagnato da masochismo. Questi educatori ottengono solo il risultato di bambini maleducati e urlanti, tristi e dispettosi, disperati e irrimediabilmente soli.
Alcuni anni or sono, seguivo un bambino autistico, terribile nel suo corpo di gufo: irsuto nei capelli, con orecchie cascanti, sempre rosse, biascicava parole incomprensibili, totalmente chiuso in sé. Ogni tanto, ostinatamente, prendeva una forbice, un chiodo o un altro oggetto appuntito e lo premeva con studiata determinazione sulle proprie carni, conficcandovelo; poi gettava lo strumento di tortura e iniziava una specie di danza che a me ricordava quella che si dice sia la danza delle api o di altri insetti: «un gufo che imita le api», pensavo. Con lui erano inutili percosse o gesti d’amore: non poteva percepire più nulla. I genitori erano dotti e acculturati, lui psichiatra e lei psicologa – questa delle loro professioni non è una mia invenzione buttata lì per far colpo, ma poiché non posso provarlo, chi non mi crede legga ciò come una favola paradigmatica -. Fin dal concepimento avevano entrambi scelto per quel figlio la più assoluta libertà, dicendosi che avrebbero cercato soltanto di impedirgli ogni gesto che potesse fargli male. Quel gufo-ape, ovviamente, scelse di volere farsi male, un male che ormai forse non percepiva neppure più o che forse in lui si trasformava in una esaltante sensazione di esistere. La violenza che quel povero disgraziato rivolgeva su di sé, insieme col suo rifiuto del mondo, altri bambini la esprimono nella gratuita aggressione di chi cerca, senza riuscirci, di distruggere un’autorità che, per non aver voluto esistere, è esistita anche troppo.
Chi rifiuta di assumere il peso della propria autorità sfugge ad un dovere. I genitori hanno comunque un’autorità e quando se ne esimono propongono solo una forma di autorità vigliacca.
Anche in molte strutture sociali del nostro tempo si avverte il danno provocato da autorità troppo latitanti, per cui le leggi agiscono a casaccio o non agiscono del tutto; leggi che sono diventate ingiuste perché sono messe a disposizione di chiunque abbia la forza di condizionarne l’applicazione o la non applicazione. Le antiche «dodici tavole» rappresentarono per Roma la legge che ha il coraggio di manifestarsi e anche di esporsi; ma furono anche l’inizio della legge che resta lettera morta perché sempre elusa. Guai quindi a chi non risponde al gesto violento di un bambino o ad un suo bacio. Ogni gesto prende un significato anche per la risposta che riceve e non bisogna mai evitare di rispondere.

6.
Vi sono taluni che parlano della punizione come unico mezzo per educare. Conosco persone terribili che, quando un bambino è soddisfatto di un risultato ottenuto, lo guardano con sussiego e alterigia, dicendogli: «Non essere orgoglioso; hai solo fatto il tuo dovere.» E si limitano a punire quando il dovere non viene compiuto. I frutti di una tale educazione possono essere i più diversi e non si può prevedere un esito piuttosto che un altro. Certo è che neppure questa educazione contribuisce a portare sulla via della salute.
Vorrei qui aprire una piccola parentesi: io dichiaro esplicitamente che le intenzioni pedagogiche e le scelte, anche quando sono applicate con rigore, non solo non producono sempre i risultati desiderati, ma anche la patologia che si potrebbe supporre implicita non è detto che venga ad instaurarsi veramente. L’essere umano e la vita sono talmente ricchi e imprevedibili che nessun educatore riuscirà comunque ad ottenere quello che vuole dal proprio educato.
E vero che vi sono comportamenti che predispongono alla patologia e comportamenti che sono ingiusti eppure non hanno necessariamente un esito patologico per l’individuo; è anche vero però che i comportamenti sbagliati risultano tutti patologici per la società, che viene da essi inquinata e pervertita.
Il bambino che è sempre punito o che ritiene che l’educazione coincida con la punizione, tenderà ad essere insicuro, depresso, bugiardo e molto aggredibile dalle malattie organiche. Odierà, giustamente, il dovere e io gli posso soltanto augurare di essere al più presto capace di andare da sé alla ricerca di una propria idea di giustizia.

7.

Vi sono poi coloro che privilegiano il premio: «Sei stato buono, ecco a te. Hai fatto il tuo dovere, ecco ancora!» Doni, regali, premi. Questi educatori tendono a considerare i loro educati come persone eccezionali, ad esaltarne virtù ed abilità. In questi casi il possibile esito patologico ha sfumature ambigue: si formano esseri petulanti, vigliacchi ed egoisti; i quali però, se riescono ad innamorarsi di qualcun altro che non sia il loro diretto educatore, possono usare ciò che viene loro elargito: premi, complimenti e gratificazioni, per convincersi di essere individui eccezionali; tanto convinti da fare qualcosa per diventarlo davvero.
Bisognerebbe forse domandarsi quale sia un individuo eccezionale; io non lo so con certezza, però so che lo può diventare chi non ha paura di esserlo, chi voglia di lottare da solo e con gli altri, per arricchirsi e arricchire; chi rispetta la sacralitàdella vita e non tollera di essere espropriato; ma soprattutto chi, dopo tante gratificazioni, avrà un giorno un giorno il coraggio di scegliersi un maestro capace anche di punirlo e dal quale potrà accettare anche la frustrazione.

8.

Il mio discorso sembra molto ingenuo, poiché dico che bisogna trovare il giusto equilibrio tra frustrazione e gratificazione, tra premi e punizioni. Questa volta non sono bizzarro, o forse mi permetto la bizzarria di non esserlo.
Prima di tutto, secondo me, bisogna insegnare che cosa è bene e cosa è male, cosa fa soffrire e cosa procura piacere. Si tratta dunque semplicemente di mettere insieme, da una parte bene e piacere, e, dall’altra, male e sofferenza? Senza dubbio. Quali sono i rischi possibili? Gli stessi di ogni altro atteggiamento pedagogico. Ogni scelta è un rischio, ma bisogna saper dire un no che sia un no e un sì che sia un sì. Bisogna punire e premiare, applicare quel meccanismo che è eterno come il mondo, ma che viene quasi sempre snaturato. La punizione non deve essere una sopraffazione ed il premio non è l’acquisto di una complicità. Questo è un atteggiamento difficile per chi educa e per chi viene educato, poiché coinvolge la vita, le speranze e i sogni di entrambi.

9.

L’educazione perfetta è quella che insegna la gratitudine al discepolo come al maestro. Il bambino come l’adulto deve imparare ad essere grato per ciò che riceve ed a soffrire quando non riceve ciò che gli spetta; deve anche saper lottare per ottenerlo. L’educatore deve essere grato perché una giovane vita vuole stargli vicino per capire, gli offre quello che ha e che egli deve essere in grado di contraccambiare con un semplice, tenero e innamorato: «Grazie».