Psicanalisi contro n. 41 – L’occasione della bioetica

settembre , 1999

1. In tutte le culture e le società di ogni tempo e luogo, gli esseri umani hanno agito e riflettuto sulle loro azioni. Questo vale per gli uomini di cultura: filosofi, scienziati e artisti, ma anche per categorie di persone cui non si chiede specificamente di operare una riflessione critica sul mondo. Ciascuno riflette sulla propria vita, sul senso dei suoi gesti e di quelli degli altri. Non è facile capire quale sia davvero il significato del comportamento di un individuo o di un gruppo sociale: mentre alcune motivazioni appaiono evidenti altre sono invece nascoste e difficilmente possono essere portate alla luce della coscienza.

Il filosofo francese E. Boutroux, nel suo scritto su La contingenza delle leggi di natura, del 1874, diceva che le leggi che governano le cose sono tanto più comprensibili e necessitanti quanto più si osserva da lontano e meno quando l’osservazione si fa più ravvicinata. Nel tentativo di meglio spiegare la realtà dell’uomo, la cultura occidentale, per osservarla più da vicino, la ha spaccata in due, separando la psiche dal soma, o come si diceva un tempo, l’anima dal corpo, operando su questa base un’ulteriore scissione tra due sfere: quella razionale e quella emozionale. Si è poi passati a supporre che la ragione capisca le emozioni, che nel loro fluire impetuoso non hanno possibilità di riflessione ulteriore. È toccato agli artisti e all’opera d’arte evidenziare i limiti di questa divisione e dare alle emozioni un valore positivo e costruttivo nel processo di civiltà, rischiando peraltro di cadere nell’opposta esaltazione di una spontaneità tutta emotiva ed estranea ad ogni rapporto con la ragione; primo fra tutti Wilderlin che dice che l’uomo è un mendicante quando pensa, ma un Dio quando sogna!

Le due posizioni estreme sono ugualmente ridicole: la ragione non prescinde dall’emozione e allo stesso modo non vi sono idee chiare e distinte che non abbiano colorito emotivo. È questa una dicotomia pericolosa che ha impedito a lungo di capire aspetti complessi della natura umana. Separare razionalità da emotività è inoltre un errore scientifico e filosofico: “La capacità di ragionare si è sviluppata probabilmente nel corso dell’evoluzione della specie (e si attiva in un determinato individuo) sotto l’egida di quei meccanismi di regolazione biologica che si traducono in particolare con la capacità di sentire ed esprimere emozioni. Inoltre anche dopo che la facoltà razionale ha raggiunto lo stadio della maturità, all’uscita dagli anni dello sviluppo, la sua attivazione efficace dipende probabilmente, in larga misura, dalla capacità di reagire sul piano emozionale. Non si tratta di negare che le emozioni possano perturbare i processi razionali in certe circostanze. Da tempi immemorabili si sa bene che lo possono e recenti ricerche hanno dimostrato come le emozioni possano influenzare in modo disastroso il ragionamento stesso. È dunque tanto più sorprendente – e qui sta la scoperta – che l’incapacità di esprimere e provare emozioni sia suscettibile di conseguenze così gravi, tanto da poter costituire un handicap per la messa in opera di comportamenti in sintonia coi nostri progetti personali, le convenzioni sociali e i principi morali. Non si tratta neppure di dire che, quando le emozioni intervengono in modo positivo, esse decidano per noi; né di dire che noi non siamo esseri razionali” (t d a) ( A.R. Damasio, Descartes Error, Grosset, Putnam Books, N.Y, 1994. L’erreur de Descartes, Odile Jacob, Paris, 1995, pag. 9).
Forse si dovrebbe essere ancora più drastici affermando decisamente che a un’attenta osservazione neurologica e psicologica tutto appare soltanto emozione, in quanto la ragione sembra, allo stato attuale della conoscenza, piuttosto un’invenzione della neurologia e psicologia positiviste ormai superate. Che tutto sia emozione non significa che l’uomo sia preda dell’impulso e dell’inconsapevolezza, ma che senza l’emozione che lo colorisce non esiste possibilità di procedere nel ragionamento, di qualsiasi natura esso sia.

2. Ciascun individuo ed ogni gruppo sociale sono strutturati anche dall’inconscio. La distinzione che la psicoanalisi freudiana ha operato soltanto tra coscienza ed inconscio, sia nella prima sia nella seconda topica, è però anche troppo meccanicistica: ” La coscienza è irraggiungibile molto più dell’inconscio, eppure la psicoanalisi continua a basarsi sulla presa di coscienza. Certo che a questo punto mi trovo di fronte ad un’aporia: se l’inconscio è più raggiungibile della coscienza, questa diventa, allo stesso tempo, più e meno raggiungibile di quello. La questione è che la psicoanalisi sta usando la ricerca della consapevolezza non come metodo, ma come medicina (…) L’errore di partenza della psicoanalisi è stato quello di credere che la verità sia raggiungibile. Ha creduto di sapere cosa è bene e cosa è male, cosa è salute e cosa è malattia. In fondo ha ripetuto il gesto empio di Adamo ed Eva, che hanno voluto conoscere i frutti dell’albero del bene e del male. Da Freud in poi, gli psicoanalisti sono stati colpevoli di empietà ed oggi la psicoanalisi paga lo scotto di risultare ridicola, con la rigidezza dei suoi schemi metapsicologici, filosofici e nosografici, con la sua concezione di inconscio che si esprimerebbe come una forma di cattiva coscienza (Gindro, L’oro della psicoanalisi, Alfredo Guida, Napoli, 1993, pp. 71-72).

È importante che l’uomo ricerchi la consapevolezza ed anche l’ autoconsapevolezza. Bisogna cercare di scoprire le motivazioni che stanno dietro ai comportamenti individuali e collettivi, anche sapendo che non si potrà venire a capo di tutte: ” Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi …” (Eraclito, fr. 45, Diels) L’inconscio individuale e sociale può essere in parte analizzato, ma resterà in parte ancora maggiore, oltre, nel mistero che costituisce l’uomo stesso.

3. Già S. Freud nel Disagio della civiltà aveva sostenuto che : “L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che possiamo scoprire in noi stessi e giustamente supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri rapporti col prossimo e obbliga la civiltà a un grande dispendio di energia. Per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è continuamente minacciata di distruzione”. (Freud, 1929, Opere, vol.10, Boringhieri, p 600).
È lecito oggi anche contestare la fondatezza delle teorie filosofiche e scientifiche che prendono dall’etologia e dalle sue considerazioni sul comportamento di alcune specie animali lo spunto per sostenere che anche per l’essere umano la spinta all’azione stia principalmente nell’aggressività e nell’istinto di distruzione dell’altro.

Più recentemente il sociobiologo E. O. Wilson è giunto ad affermare che: “ciò che è un bene per l’individuo può essere distruttivo per la famiglia; che ciò che preserva la famiglia può danneggiare sia l’individuo sia la tribù a cui la sua famiglia appartiene; e così via, risalendo le permutazioni dei livelli di organizzazione” (Sociobiologia, 1972, Zanichelli, 1979, p. 4).
L’osservazione più empirica ed anche quella sperimentale fa piuttosto pensare che la molla che muove tutti gli esseri viventi – e tra di essi l’uomo – sia il principio del piacere. Come già faceva notare la psicoanalisi freudiana, il sadismo ed il masochismo, ovvero il piacere provato nel far soffrire l’altro o nel ricevere sofferenza dall’altro sono una forma di perversione di questa pulsione originaria. Il piacere si fonda nel sentimento di amore per sé e per l’altro. Questo punto di inizio che potrebbe sembrare metafisico ha invece una sua valenza scientifica e logica. Parlare di un principio, quale che esso sia, può sembrare rischioso oppure inutile; ma è necessario avere un punto di partenza da cui avviare un movimento che abbia un verso ed una direzione.

Il piacere-amore è la molla della vita. Si tratta però di una pulsione e un sentimento che vengono immediatamente contraddetti e frustrati. Non si può però confondere la violenza che è la reazione a questa frustrazione con la pulsione fondamentale della vita dell’uomo. Il bisogno di sopraffazione è certamente presente negli esseri viventi – nei vegetali e negli animali – ed a maggior ragione nell’uomo; ma esso è proprio il contrario della vita, ne è il principio opposto. Il contrario della vita non è infatti la morte, ma è l’odio. Il sadomasochismo è proprio l’espressione della vendetta che nasce da esso, espressione della prima difesa, alla quale poi seguiranno le altre, a cominciare dal narcisismo.

La pulsione che spinge alla vita i due gameti nel ventre materno esprime la ricerca di amore e di piacere eppure non c’è traccia, né ontogenetica né filogenetica, della mitica età dell’oro in cui l’uomo sarebbe stato felice e in pace con gli altri; la violenza e la malattia accompagnano da sempre la sua vita. In questa fine di millennio ancora la violenza sembra esplosiva più che mai: guerre, genocidi, distruzioni affliggono un mondo che ha la presunzione di credersi avanzato e civile. Lo stesso uomo che ha acquisito per suoi meriti scientifici una padronanza eccezionale di controllo della conoscenza e della realtà, che vince molti mali e sofferenze, non riesce a lottare contro la propria capacità di distruzione e di odio. La società umana ancora non accetta il principio della tolleranza: un rispetto delle diversità – etniche o di qualunque altro tipo – che non va confuso con un vile qualunquismo relativistico, ma che deve essere di lotta comune per la costruzione. Il solo modo di arrivare a questa accettazione è l’impegno verso la conoscenza di se stessi.

4. Il marxismo e il positivismo che pure hanno dato molto al procedere della civiltà erano purtroppo carichi di illusioni. Il primo per la convinzione di aver afferrato con il materialismo storico la chiave universale di interpretazione del divenire del mondo; il secondo con la sua assoluta fiducia nell’inevitabilità positiva del progresso. Entrambe le scuole filosofiche non hanno saputo tenere conto dell’importanza del ruolo che l’inconscio individuale e sociale gioca nel destino del mondo degli uomini. La scoperta dell’inconscio è però un’impresa senza fine e le origini prime del comportamento umano restano oscure come le fonti del Nilo.

È estremamente importante che scienza e filosofia si rendano conto dell’estrema precarietà dei sistemi di conoscenza umana e che si eviti la presunzione del sapere; ma è anche utile che le conoscenze acquisite, nella loro fragilità, siano passate al vaglio di un’analisi che le trascenda e che metta in guardia contro i rischi che potrebbero comportare per l’umanità. Questo è oggi il compito della bioetica.
La scienza in passato è stata più inibita e castrata che non stimolata: forze politiche e religiose, conformismi e pregiudizi hanno spesso tentato di paralizzare quegli scienziati che sembravano troppo arditi per l’audacia dei loro esperimenti o per la pericolosità delle loro idee. Nonostante tutto la scienza non si è fermata e neppure la riflessione sul suo operato. Oggi la bioetica dovrebbe offrire agli uomini l’occasione di prendere coscienza dei significati ampi e profondi che possono assumere i loro gesti, del potere che il progresso scientifico mette loro in mano: si tratta di far acquisire alle singole categorie professionali quella stessa consapevolezza verso la quale lo psicoanalista guida il suo paziente. Si tratta di isolare questo “sapere di sapere” fino a rendersi conto dei pericoli che il sapere stesso comporta; di costruire ed indicare quella che deve essere la confluenza di forze alla quale affidare il compito di controllare e dominare il potere che deriva all’uomo dalla scienza.
Per meglio assolvere questo compito di tutelare tutti gli aspetti della dignità dell’uomo, è importante che la composizione di qualsiasi entità bioetica sia multidisciplinare.

5. Nessuna scoperta scientifica e l’acquisizione di nessuna tecnologia possono arrogarsi il diritto di intervenire a scapito della dignità ed integrità dell’essere umano. Tra i primi interrogativi che a questo punto si pongono, il primo verte sulla natura di questa dignità umana. La quale non è certo quello che la presunzione individuale o il pregiudizio sociale stabiliscono, ma si esprime appieno come “dignità della vita umana”, sempre e prima di ogni altra considerazione. La stessa parola vita, che indica un concetto solo apparentemente semplice, viene usata da sofisti in mala fede per acrobazie semantiche e concettuali, nel tentativo di negare, di volta in volta, ad uno o ad un altro degli esseri umani la pienezza dei propri diritti, primo fra tutti quello di essere considerato appunto “essere umano”. Gli uomini sono prigionieri delle tautologie e delle contraddizioni, le quali caratterizzano anche il pensiero filosofico e scientifico.

La dignità della vita umana deve essere sempre salvaguardata e difesa anche contro la pigrizia mentale di chi vorrebbe rinunciarvi per la difficoltà di definirne il concetto. Tentare di fare chiarezza significa accettare la lotta, con i corollari che questa rischia di portare sempre con sé: violenza e sopraffazione. Chi ha il coraggio di impegnarsi come bioeticista non deve temere di sporcarsi le mani, ma allo stesso tempo deve impegnarsi a tenere il più pulite possibile non solo le proprie. Un rischio che il bioeticista corre è quello di soccombere al fascino di costruzioni mentali bizzarre e complesse, ma in ultima analisi aride per le loro velleità universalizzanti. Il tentativo di essere onnicomprensivi, di chiudere in una sentenza tutti i significati possibili, scade nel compiacimento per ciò che risulta costruito fine a se stesso, senza neppure la volontà di compromettersi prendendo una precisa posizione. Ogni affermazione anche di natura etica e morale nasconde motivazioni inconsce. L’elencazione stessa del manuale DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Desorders ) dell’associazione degli psichiatri americani – per fare un esempio -, i cui parametri vorrebbero essere di sostegno alla diagnosi, mentre rappresenta indubbiamente uno sforzo di fornire un utile strumento di appoggio che costituisca un’alternativa ai vaghi intuizionismi soggettivi degli psichiatri, tuttavia, non esprime, come vorrebbe, la posizione di un’entità scientifica neutrale: è evidente infatti che il pragmatismo di Peirce informa l’impostazione generale della prima enunciazione, che nel succedersi delle diverse edizioni si è andata modificando, sempre in relazione a concetti filosofici mutuati dal contesto sociale in cui venivano enunciati.
Il bioeticista neutrale non esiste: ciascuno ha alle spalle la propria storia, la cultura, le proprie convinzioni, fantasie e desideri inconsci. La vecchia distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, spogliata della sua obsoleta valenza politica, conserva efficacia metodologica: gli slanci del pensiero hanno le radici in strutture che li sorreggono.
Anche la bioetica deve trovare il proprio cammino nel continuo reciproco scambio tra strutture e sovrastrutture.

6. Ogni principio bioetico deve affondare le sue radici in una pratica concreta per cui esso possa diventare paradigma, ma non astrazione. La bioetica deve indicare in campi specifici come operare e intervenire secondo alcuni principi piuttosto che altri; evitando però anche le suggestioni che potrebbero trasformare il bioeticista in un manipolatore di coscienze, magari distogliendolo dall’imperativo universale del rispetto dell’uomo e – a maggior ragione – del malato.

Il consenso informato e documentato è stato per anni un problema centrale: oggi, l’illusione che l’accettazione di questo principio significhi essersi davvero liberati dal paternalismo prepotente della vecchia medicina – sempre sicura di agire bene in scienza e coscienza – appare già un’illusione. Il consenso informato può ridursi infatti ad una acritica e passiva accettazione, espressa attraverso la firma di un documento precedentemente redatto, da parte di un soggetto non in grado di giudicare davvero i termini della questione che gli si sottopone; e questo soltanto ai fini di una protezione giuridica del medico contro i rischi penali ed economici che l’eventuale impugnazione giudiziaria contro gli esiti dell’intervento o della cura potrebbe comportare per lui.