Psicoanalisi contro n. 36 – Il delirio silente e il consenso informato: le antinomie della bioetica

febbraio , 1999

1.

«Ogni società per assicurare la propria sopravvivenza, ha bisogno di fabbricare i suoi capri espiatori. Il Medio Evo aveva le sue streghe e i suoi eretici, noi abbiamo i nostri malati mentali. Inoltre la società deve mettere in opera l’apparato, la struttura che le permetteranno di scovare i suoi capri espiatori e di comminare loro la sorte che li aspetta. Il Medio Evo aveva l’Inquisizione, noi abbiamo la psichiatria istituzionale. Inoltre bisogna giustificare una tale iniziativa! Allora si inventano miti: il mito della stregoneria, il mito della malattia mentale»

(Th. Szaz, 1960, Civil liberties and the tnentaly ill, in Cleveland Marshall Law Rev. Vol. 9 p. 399, t.d.a.).

Che il potere, sempre ed ovunque, abbia cercato di costruire categorie di colpevoli per rafforzare la propria solidità è assolutamente vero. Da questa constatazione irrefutabile, una spirale perversa e superficiale ha indotto filosofi e scienziati, e gli psichiatri in particolare – a partire dagli anni sessanta di questo secolo – a considerare la follia alla stregua di un mito. In questo atteggiamento non si nasconde solo il pericolo dell’ingenuità, ma anche e soprattutto il rischio della disonestà politica e dell’errore scientifico. Una tale idea costituisce infatti un insulto derisorio rivolto a chi soffre di questo male e che si vede così relegato al livello di mero, irreale, fantasma del potere. Non si accetterebbe lo stesso atteggiamento nei confronti di altri malati; benché già si sia tentato in passato e tuttora si tenti di farlo con categorie particolari, come i lebbrosi, considerati un tempo come colpevoli ed oggi con i malati di AIDS: tuttavia neppure in questi casi si è arrivati a dire che la lebbra e l’AIDS siano miti inventati dal potere! Purtroppo la malattia mentale è una triste realtà che procura enormi sofferenze. Senza dubbio va denunciato l’uso che la società ne fa e l’atteggiamento che assume nei suoi confronti, ma non si può davvero negarne la presenza quotidiana tra noi e che va ben al di là del pretesto su cui appiccicare etichette di comodo, che sarebbero create dagli psichiatri soltanto al fine di poter proseguire le loro pratiche e di esercitare sui malati di mente il controllo più totale (Th. Szaz, 1957, A contribution to the psychology of Schizofrenia, in A.M.A. Arch. Neurol. & Psychiat. Vol.77).

2. Proprio perché la malattia mentale non è un mito, ma una realtà che riguarda l’essere umano – il quale è sostanzialmente uno, pur nella diversità delle situazioni e dei modi in cui si esprime – ci si viene a trovare di fronte ad un paradosso quando si vuole applicare a tutti i costi all’individuo particolare princìpi che sembrano validi quando si considera l’uomo in generale. Nella fattispecie si tratta del principio del consenso informato che la bioetica vorrebbe universalmente valido.

La bioetica, come ogni espressione dell’impegno per la salvaguardia dei diritti umani, ha il dovere di combattere perché l’uomo non diventi preda dell’altro uomo quando è indebolito dalla malattia, che, in tutte le sue forme, rappresenta una perversione organica e psichica, essendo pur tuttavia intrinseca alla stessa natura dell’uomo. Cosa che vale a maggior ragione per la malattia mentale.
Dal XIX secolo in poi si è cercato di classificare i sintomi della malattia mentale per categorie e di definire sindromi specifiche, ciascuna riconducibile ad origini causali proprie, senza però riuscirci veramente. Gli ultimi risultati di questi sforzi sono stati il DSM III e IV, che in realtà non sono quasi altro che una lista di sintomi più simile alla espressione di un delirio ossessivo che ad una produzione scientifica. La filosofia, la scienza e la psichiatria dei nostri giorni hanno perso il senso del ridicolo come dimostra, per fare un esempio, il fatto che in una pubblicazione con pretese di serietà si possa leggere che: «le idee mistiche sono più frequenti nei cristiani; mentre gli indù sono soprattutto soggetti a manifestazioni psicomotorie (catatonia); le allucinazioni visive sono particolarmente gravi nei messicani; il suicidio è una complicazione riscontrata molto spesso tra gli schizofrenici giapponesi, etc.» (J. Postel, Dictionnaire de psychiatrie et de psycopatologie clinique, Larousse Bordas, Paris, 1998, t.d.a.). È vero che la follia ha relazioni precise con le culture dei popoli e che i giapponesi conoscono meno inibizioni morali e culturali nei riguardi del suicidio, ma ciò implica tutt’al più un aumento in Giappone della frequenza di un tale gesto, il che non dà alcun diritto di trarre conclusioni nosografiche tanto grossolane!

In caso ne si accettasse la logica, si dovrebbe dedurne che un italiano suicida abbia caratteristiche psichiche giapponesi. In conclusione: prendere in considerazione i fattori culturali per meglio comprendere l’eziologia di un delirio è ben diverso dal ridurre tutto alla questione sociale.

3. Una posizione diffusa è quella che sostiene la multifattorialità della cause della malattia mentale e della schizofrenia in particolare: cioè le persone più deboli possono arrendersi davanti a fattori che possono essere biologici, psichici e psicosociali ad un tempo.
Dal fatto però che i deliri e le allucinazioni si presentano ugualmente sia nelle schizofrenie e nelle bouffées deliranti, sia negli stati paranoidi e nelle depressioni gravi, può sorgere forte il dubbio che ogni distinzione eziologica tra le differenti sindromi sia ingiustificata e scorretta. Tale dubbio è ancora più rafforzato dalla constatazione che persino gli psicofarmaci più sofisticati dell’ultima generazione, che hanno la presunzione di influenzare aree molto precise all’interno del sistema cerebrale, in realtà si rivelano molto imprecisi e hanno effetti alquanto indeterminabili in modo sistematico. Mentre si deve riconoscere un certo grado di efficacia degli interventi psicofarmacologici quando sono accompagnati e integrati da una psicoterapia, paradossalmente non si riesce peraltro ad avere punti di riferimento precisi per quanto riguarda l’eziologia della malattia mentale: la si voglia ricercare nelle cellule nervose, nel tessuto familiare e sociale oppure nell’esperienza individuale o collettiva.
Che posto ha il delirio — che la nostra cultura identifica con la follia stessa — in un tale contesto? La mia convinzione è che il delirio rappresenti l’ultima difesa dell’individuo contro la forma più grave di malattia mentale: cioè la depressione. La quale, quando raggiunge la catatonia, è l’estrema parodia della morte stessa. O che invece può tradursi in un vero e proprio suicidio messo in atto al termine di un ineluttabile processo di discesa agli inferi.

4. Per quel che riguarda il consenso informato, che è un fondamento della bioetica classica, ci sono da fare riserve che sono allo stesso tempo d’ordine generale e specifiche.
In generale, bisogna dire anzi tutto che il principio stesso del consenso del malato nella pratica terapeutica entra troppo spesso in contraddizione con l’altro principio della bioetica: ovvero quello della beneficialità. Dire a un malato grave tutta la verità sulla sua situazione clinica, a volte senza speranza, ottiene il risultato negativo di abbassare i suoi livelli di difesa psichici ed organici, diminuendo le sue capacità di lotta e di resistenza alla malattia.
Più specificamente, quando ci si trova di fronte ad un soggetto delirante, si viene a determinare una situazione affatto particolare: come si può domandare a qualcuno che ha perso il contatto con la realtà di dare il proprio consenso informato, ovvero di comprendere le ragioni del trattamento a cui lo si sottopone, o anche di rendersi conto dei rischi che la cura comporta? Al di là della difficoltà di dargli una informazione adeguata, si capisce bene come un tentativo in questo senso non riuscirebbe che ad aumentare il suo disorientamento. In tal caso la domanda di consenso informato si tradurrebbe in confusione ed oscurità.
Tuttavia, se si riflette con attenzione, ecco che quello che sembrerebbe essere valido solo nel caso particolare del soggetto delirante si rivela invece la situazione che caratterizza ogni persona malata, considerata in un momento significativo della malattia e della terapia.

Quello che qui voglio introdurre nella mia nosografia è il concetto di «delirio silente», che colpisce ciascuno di noi nelle situazioni che hanno uno speciale significato emotivo. Non voglio soltanto dire semplicisticamente che tutti diventiamo folli in certi momenti della nostra vita — il che sarebbe una banalizzazione — ma proprio intendo affermare che ognuno di noi diventa clinicamente folle, con tutta la sintomatologia diagnostica di una vera «bouffée delirante», in occasione di un intervento medico — e specialmente chirurgico — per minimo che esso sia: basti citare per tutte la più semplice delle trapanazioni dentarie. L’osservazione ravvicinata permette infatti di notare come, nei giorni che precedono immediatamente un consulto medico, l’individuo entra in un vero e proprio stato di delirio: presenta alterazioni percettive che sono a volte vere e proprie allucinazioni uditive, olfattive e tattili. Come potrebbe un individuo in tali condizioni dare su semplice domanda un consenso veramente informato e consapevole sulle decisioni da prendere?

È al limite dell’assurdo che i bioeticisti insistano su un obiettivo che ha così poche possibilità di essere raggiunto.
Un consenso ottenuto in simili condizioni potrebbe essere ingannevole ed addirittura nocivo. In entrambi i casi è evidente che ne risulterebbe una contraddizione col principio fondante stesso della bioetica.
La soluzione, a mio parere, non può essere che quella di una adeguata informazione sanitaria generalizzata che permetta a tutti di conoscere il rapporto rischi-benefici delle terapie.
Se oggi una tale ipotesi sembra irrealistica, è realistico invece che la bioetica alle soglie del terzo millennio si assuma il compito di renderla concreta, ampliando il suo campo d’intervento e rendendolo più incisivo, uscendo dai piccoli circoli dogmatici in cui è rinchiusa, e dove a furia di filosofeggiare ha perso il senso del ridicolo.
Il dovere della bioetica non è di enunciare verità, ma è invece quello di mettersi al servizio degli uomini liberandoli dalla paura e dallo
sfruttamento, con i mezzi di una educazione permanente distribuita secondo i principi di una universale equità.