Psicoanalisi contro n. 28 – Eros, gelosia e cura

aprile , 1998

1. Abbiamo parlato dell’invidia e dell’avarizia di terapeuta, paziente e super-visore. Il super-visore nella terapia non è solamente utile, ma ne è la sostanza fondante. Si può dire che egli, in quanto portatore dell’istanza meta-psicologica, è il garante dell’onestà e della correttezza deontologica del terapeuta e della terapia. Il paziente non è tenuto a seguire nessun precetto metapsicologico o tecnico, ma può liberamente esprimersi, proponendo i suoi problemi, presentando la propria situazione esistenziale e il quadro dei sintomi senza dover obbedire a schemi. Poi affronterà nel corso dell’analisi i punti cruciali della sua vita passata e presente e si confronterà coi suoi fantasmi e i suoi desideri, le sue fantasie e le sue frustrazioni. Sarà opportuno che il paziente non percepisca mai il trattamento terapeutico come un’operazione che
tenda ad ingabbiarlo in situazioni rigidamente strutturate. Porsi l’obiettivo di far rilassare il paziente non significa invitarlo ad una improbabile spontaneità, né esortarlo esplicitamente a mettere da parte le sue inibilioni o le paure; espliciti inviti possono riuscire controproducenti in molti casi, mentre il rilassamento avviene più facilmente quando il terapeuta crea le situazioni più favorevoli, senza esplicitarle. «Sii te stesso!» È questa la frase più ridicola che un analista possa rivolgere al suo paziente: proprio quella persona, inibita e contratta, che cerca di rappresentare un’immagine di sé, certo non autentica, è comunque se stessa in quel momento di difficoltà e dunque è meglio aiutarla nel condurre nel migliore dei modi la sua rappresentazione. Del resto è più utile capire quello che egli pensa di essere.

2. La forma di terapia che qui è presa in esame coinvolge tre attori: paziente, terapeuta e supervisore, ma è solo una fra le tante possibili; infatti ci sono pressoché infinite varianti di questo modello: la terapia di gruppo o quella famigliare, per dire le due forme più ovvie di coinvolgimento di più di tre persone in un atto terapeutico. Tra i tre, il paziente è il più “innocente”, in quanto, avendo optato per quella forma di cura, ammette con se stesso e con gli altri di avere problemi, di essere “ammalato”.
Terapeuta e super-visore hanno più doveri e meno giustificazioni se cadono in preda a comportamenti coloriti di invidia o di avarizia, anche se è impossibile pensare che riescano sempre ad evitarli. Nella terapia ad impostazione psicodinamica, che riattualizza esperienze e vissuti interiori, anche dolorosi e destrutturanti, il paziente si trova spesso a dover mettere in discussione il significato di tutta un’esistenza. Talvolta suscitano
ammirazione e disagio allo stesso tempo persone che si rivolgono al terapeuta confessandogli la loro paura per il mondo, la loro totale assenza di coraggio nell’affrontare cose, persone e difficoltà della vita, con la consapevolezza di essere vigliacchi. Una sofferenza che chiede aiuto al terapeuta e che è già in sé un atto di coraggio, per quanto non sempre consapevole; un gesto che forse esaurisce l’estrema riserva di energia vitale nel riconoscimento della propria vigliaccheria. Superficialità e ingenuità accompagnano però spesso l’atto di coraggio di chi chiede aiuto allo psicoterapeuta.
Quale deve essere allora il senso in cui si deve muovere una terapia capace di dare coraggio a chi pure dimostra di averne già un po’? Si tratta forse di capire quale forma di coraggio – che non coincide con quello di cui si dimostra, almeno apparentemente, capace – un tale paziente vada cercando.

3. La gelosia è un sentimento strettamente legato a quelli dell’invidia e dell’avarizia, oltre che a un’infinità di altri sentimenti anche contraddittori, come lo sono tra loro tutti i sentimenti. Emozioni, fantasie, desideri sfumano gli uni negli altri, ma ciascuno si distingue per qualche aspetto suo specifico. La gelosia si distingue dall’invidia, dall’avarizia e dagli altri sentimenti con cui pure è in rapporto, per la presenza dell’innamoramento che sempre la accompagna. Nella gelosia in fondo non è difficile vedere in opera un aspetto di quell’Eros che è il signore dei sentimenti sani degli dèi e degli uomini. Si può forse distinguere la gelosia sana da quella patologica, sebbene anche in quest’ultima sia ugualmente presente una traccia, per quanto debole, di quella salute segnata dalla presenza di Eros.
Come diceva Aristotele, amare vuol dire desiderare, ricercare la vicinanza dell’oggetto amato. Chi realmente ama non può non essere geloso, altrimenti non è innamorato oppure è in malafede e il suo non è amore, ma desiderio, passione, amicizia o qualunque altra cosa. Chi ama non riesce ad evitare di temere che l’oggetto amato gli venga sottratto e soffre se l’amato dimostra troppa attenzione per qualcosa o qualcun altro. Il sentimento del possesso reciproco segna ogni legame amoroso, sebbene ci sia chi lo neghi per ragioni morali o ideologiche. Questa negazione è filosoficamente rispettabile, ma rimane estranea al sentimento profondo dell’amore, al quale non appartiene. Chi ama pretende anche di suscitare la gelosia nell’amato, la mancanza della quale delude e rattrista. Pretendere qualcosa da qualcuno non esprime un atteggiamento democratico, eppure l’amore è il sentimento più democratico che gli uomini riescano a provare. La democrazia infatti si fonda sul rispetto delle minoranze e sui diritti della maggioranza, la quale ultima deve mettersi in
discussione ed essere disponibile a rivedere le proprie decisioni, se non si vuole rischiare l’oppressione dei molti sui pochi. La democrazia dei numeri è solo la “tirannide dei più”. L’amore non può essere tirannia. La gelosia, figlia di Eros, rappresenta una tra le istanze minori, ma ineludibili, dell’amore che pure deve democraticamente dominare nel cuore degli amanti, senza perdere la supremazia sugli altri sentimenti che lo accompagnano, se non vuol vedere venir meno la sua natura amorosa. La gelosia porta con sé corollari che debbono diventare consapevoli: l’amante geloso vuole tutto dall’essere amato, senza riserve. La fedeltà totale, deve essere accompagnata dalla volontà di non coartare però la libertà dell’altro di nutrire anche altri sentimenti e persino di essere sessualmente disponibile, pur mantenendo un comportamento di leale sincerità con la persona con cui persiste il rapporto d’amore. Questa è una contraddizione che l’amore autentico deve riuscire a rendere gestibile. La sincerità è il correttivo di quello che può apparire un tradimento e che viene così ricollocato in una dimensione sua propria, che non è quella del rapporto amoroso, ma che può rientrare in una dimensione di occasionalità, se addirittura non proprio nella più vieta categoria della cosiddetta “avventura”. Proprio la messa in comune dell’esperienza potrà costituire così la verifica della solidità del sentimento d’amore. Così che questi tre passaggi: la libertà, la sincerità e il confronto, diventano conferme interne al rapporto. Di queste, la sincerità è la conferma principale, poiché significa darsi interamente all’altro, fisicamente e spiritualmente, senza pudori o riserve, senza invidie nascoste o avarizie inespresse. Ci sono sentimenti che sono simili all’amore, ma l’amore deve avere almeno questi elementi minimi su cui basarsi.

4. La gelosia è il punto delicato del sentimento amoroso: poiché sempre tende ad essere prevaricatrice o patologica, intollerante verso la reciproca chiarezza da cui pure trae origine; ed è tanto più insidiosa quanto più maschera l’invidia inespressa o inconsapevole, verso il successo o la felicità dell’oggetto amato, fosse pure per paura di perderlo o di non sentirsi più al centro della sua attenzione. Ecco allora le torturanti indagini, le perquisizioni nascoste, gli interrogatori assillanti, le persecuzioni ostinate, l’imposizione
dell’isolamento in una amara vita a due, di una solitudine esasperata ed assoluta.
Sono queste le cartine di tornasole che permettono di vedere chiari i punti di viraggio tra l’amore e sentimenti che soltanto gli assomigliano. C’è chi per esempio smentisce l’autenticità del suo amore con l’ipocrisia che gli fa accettare la menzogna per non far soffrire l’amato. Questa è una posizione che ha il suo opposto nel sadismo che fa scambiare per esigenza di verità il desiderio di infliggere una sofferenza.
Se l’amore è troppo intriso delle pulsioni devianti di difesa che accompagnano la gelosia malata, allora è a sua volta un amore malato, o addirittura è un falso amore. In questo caso il rapporto è malato e la discesa agli inferi è spesso senza limiti: si può infatti arrivare al delirio paranoico, alla violenza, allo stupro psicologico. Oppure si afferma l’atteggiamento opposto, della depressione che è parodia della morte fisica ed affettiva. Se invece l’amore c’è e la malattia è un’intrusione, sarà il recupero graduale di ciascuno per opera dell’altro a renderlo evidente. Già Freud aveva sottolineato la
componente omosessuale della gelosia, poiché alla base vi sarebbe un sentimento di proiezione ed identificazione che rende intollerabile l’idea che il partner dell’altro sesso possegga ciò che è l’inconfessabile oggetto del proprio desiderio omosessuale rimosso. Andando oltre l’enunciazione freudiana, si può dire che invece, nel caso di gelosia all’interno di un rapporto omosessuale, il meccanismo scatenante sia l’invidia per le possibilità che il partner si concede di rapporti con corpi che sono oggetto del proprio stesso desiderio.

5. Accade molto spesso che un paziente o una paziente si innamorino del proprio o della propria psicoanalista: questo sentimento — ed è qui importante sottolinearlo — non coincide con il meccanismo del transfert, come vorrebbe far credere certa superficiale frenesia divulgativa, il quale consiste invece nel trasferimento di sentimenti negativi e/o positivi che si sono provati per altre persone sulla figura dell’analista, che può così rivestire il ruolo del padre o della madre, dell’amico o dell’amica, del fratello o del nonno. L’innamoramento – che pure ha un aspetto trasferenziale – trascende invece la pura e semplice ripetizione di antichi rapporti affettivi e va alla ricerca della persona reale dell’analista. Va anche sfatato il luogo comune, inventato dagli psicoterapeuti spaventati dai sentimenti dei pazienti che non sono capaci di gestire, che vuol far credere che si tratti sempre di un amore fittizio. Spesso, la gelosia è il sentimento che permette l’accesso all’analisi dell’amore che si vorrebbe invece negare.
Anna era una donna spaventata dal fatto di avere tradito il marito, che aveva fiducia in lei e non la tradiva; inoltre era anche spaventata di aver scoperto in sé, insieme con la mancanza di ogni sentimento di gelosia, il desiderio che il marito la tradisse, tanto che aveva finito col manifestare segni di turbamento psichico, non sentendosi, tra l’altro, capace di scegliere tra l’amante e il marito stesso. Durante il lavoro analitico, si scoprì anche innamorata dell’analista del quale fu però immediatamente e parossisticamente gelosa. Frustrazione, ansia e persino piccoli deliri di persecuzione la tormentavano nei riguardi di tutte le persone che circondavano o venivano in contatto casuale col suo terapeuta. Col passare del tempo, il delirio si concentrò sui pazienti: non tollerava che altre persone entrassero o uscissero dallo studio, prima e dopo la sua seduta. Affermava di sentire odori sgradevoli nella stanza e sul divanetto della terapia; si ridusse a passare in piedi il tempo dell’analisi, lanciando sguardi di repulsione sull’orribile mobile, ovvero il divano. Successivamente prese a perseguitare l’analista telefonicamente, ora tacendo ora parlando dissennatamente con parole d’amore o di odio, finché, a un certo punto, parve placarsi, smorzandosi in toni ironici. Il cambiamento coincise con la fase del lavoro analitico in cui, insieme con l’analista, era riuscita ad elaborare, uno dopo l’altro, i suoi sentimenti amorosi del passato, ad analizzarne le dinamiche, specialmente quelle della gelosia. Iniziò allora la fase dei regali: piccoli doni teneri e spiritosi che portava insieme con l’elaborazione fruttuosa dei sentimenti della propria gelosia. Poco a poco, fu in grado di affrontare i propri sentimenti in un contesto di vita sufficientemente “normale”.
Sebastiano era un uomo trentottenne, aitante, disinvolto e sportivo, nel tratto e nell’abbigliamento, un po’ troppo curato, solito nascondere lo sguardo dietro occhialoni scuri, che servivano a celare forse la sua visibile determinazione di “arrivare”. Si era rivolto all’analista per una sindrome che si era manifestata dapprima con una crisi di panico scoppiata mentre era bloccato in auto nel traffico cittadino: sudorazione, tachicardia, angoscia, terrore dell’infarto. Al pronto soccorso cui si era rivolto d’urgenza lo avevano momentaneamente rilassato. Le crisi però si erano ripresentate in tempi brevissimi e, dopo che il medico curante aveva invano tentato di contenerle con qualche benzodiazepina, si era deciso a consultare uno “strizzacervelli”. Le crisi di panico, al volante, specialmente negli ingorghi o nei tunnel, continuavano a tormentarlo, soffriva di claustrofobia e ben presto fu chiaro quanto avesse paura della morte: faceva fantasie in cui si vedeva prigioniero in una bara, sepolto. Col tempo, vennero alla luce elementi che riportavano a problemi di una certa gravità incontrati nel corso della vita gestazionale, il lavoro sui quali permise di eliminare molti sintomi legati alla claustrofobia; ma il paziente ora si preoccupava poiché, a suo dire, avrebbe voluto interrompere il rapporto analitico, ma non ci riusciva: la sola idea infatti gli creava affannosi stati d’ansia. Un giorno raccontò un sogno che era fin troppo chiaramente un sogno di innamortamento per l’ analista, il quale si guardò dall’interpretarglielo perché era troppo presto, come gli confermò anche il super-visore. Un’altra volta, entrò nella stanza sconvolto e benché fosse imbarazzato, raccontò, con la schiettezza che Io distingueva, questo sogno: “Mi trovavo a letto, completamente nudo, accanto a lei che mi abbracciava e baciava, procurandomi una grandissima gioia. Io ricambiavo le sue carezze e i baci, per niente turbato di stare con un uomo, finché, ad un certo punto mi sono ritrovato nudo, nel mio letto, ma in piazza San Pietro, gremita di folla. Ero fuggito per nascondermi nel colonnato, tentando di coprirmi con le mani”. L’analista, memore delle linee concordate in supervisione, si limitò a parlare degli impulsi esibizionisti. A quel punto, Sebastiano “saltò” alcuni appuntamenti e quando ritornò, seduto di fronte all’analista, coraggiosamente, gli dichiarò di essersi innamorato di lui e soggiunse: “E adesso che facciamo?” L’analista non si turbò, né si meravigliò troppo, rendendosi conto che era a sua volta un po’ innamorato del paziente. Seguì il consiglio del super-visore e continuò a tacere, senza tentare di approfittare di un amore che era sincero e schietto, se pure affondava le sue radici in sentimenti lontani. Sebastiano, dopo il primo turbamento, era passato ad un periodo di esaltazione maniacale: pensava al suo analista, sognava di fare l’amore con lui, voleva dirlo al mondo intero, si sentiva felice e terrorizzato allo stesso tempo. Gli dispiaceva solo che l’analista parlasse così poco di questo amore, che sembrasse voler piuttosto passare ad altri argomenti, che fosse così evasivo, se pure non negasse esplicitamente alcunché. Un giorno Sebastiano, esasperato, lo accusò di vigliaccheria. La seduta successiva, su consiglio del super-visore, l’analista disse enigmaticamente a Sebastiano: “Io sto aspettando”. Dopo qualche tempo di tentennamenti, in cui l’analisi sembrava dirigersi altrove, arrivò il momento in cui Sebastiano disse all’analista: “Io odio sua moglie, i suoi figli, odio tutti i suoi pazienti; ho persino fantasticato di pagarle tutte le ore che ha a loro disposizione per toglierli tutti di torno. Non avrei mai pensato di patire tanta gelosia per un maschio”. L’analisi attraversò un periodo difficile: si trattava di far superare al paziente l’angoscia davanti a una pulsione omosessuale così violenta. Fu proprio però il discorso della gelosia che diede all’analista il bandolo utile a dipanare la matassa aggrovigliata dei sentimenti di Sebastiano, il quale, dapprima riconoscendola in sé come espressione di amore, era poi riuscito anche a riconoscere la ragion d’essere della vera natura delle sue pulsioni.

La gelosia non può esserci senza che vi sia innamoramento. Poco si parla nella letteratura psicoanalitica dell’innamoramento del terapeuta per il proprio paziente, come se lo si ritenesse un sentimento sconveniente, che toglierebbe quella lucidità da cui questi dovrebbe essere sempre caratterizzato, al fine di essere davvero padrone della situazione, in ogni momento. Nell’esperienza di supervisione accade spesso che il supervisore si accorga di quanto un terapeuta si possa innamorare, senza rendersene conto, del paziente. Il fatto non deve preoccupare, purché sia tenuto sotto controllo e la prima condizione perché questo sia possibile è che il sentimento venga ammesso da chi lo prova, superando innanzi tutto la gelosia. Innamorarsi della persona che si ha in cura può addirittura giovare al lavoro comune; anzi: senza un po’ di reciproco innamoramento la cura non può funzionare nel modo migliore; Eros resta infatti il fondamento di ogni sana relazione anche terapeutica. Si è purtroppo accreditata l’immagine della scienza fredda e asettica e dello scienziato come uomo privo di sentimenti, ma non è vero. Lo scienziato si esprime al meglio se ama l’oggetto di cui si occupa e la scienza è un campo ricco di possibilità emotive. Il medico deve amare le persone che cura, oltre che amare l’umanità rappresentata in loro. Quello che può invece nuocere all’innamoramento del terapeuta è la gelosia malata, paranoide, che lo spinge alla negazione o ad attivare chiusure difensive narcisistiche o sadomasochistiche; nel qual caso è meglio interrompere l’analisi, magari senza interrompere la relazione amorosa. L’analista non può però permettersi di perdere se stesso in questo innamoramento, come invece è consentito al paziente.

Tempo fa, arrivò da me un terapeuta completamente distrutto: aveva ceduto al sentimento d’amore per una sua paziente, perdendo il controllo prima sull’analisi, poi sul rapporto amoroso ed infine su di sé. Dopo una serie di manovre apparentemente innocue: serate a teatro o al concerto, prima con altre persone e poi da soli, si era trovato in casa di lei per una cena a due, alla fine della quale avevano realizzato quel desiderio così prepotente in entrambi. La cosa quella sera funzionò; in seguito, però, poco a poco, la donna incominciò a manifestare una serie di sintomi deliranti ed infine espresse per l’analista violenti sentimenti di odio, che egli non riuscì a controllare, ma che lo destrutturarono profondamente, soprattutto dopo un episodio di aggressione fisica che dovette subire esterrefatto. La procedura fu poi tipica: telefonate di insulti, appostamenti e pedinamenti, tentativi di danneggiarne l’immagine professionale e privata che finirono col prostrarlo. Ci volle un lungo lavoro per ridargli la fiducia in se stesso sufficiente a fargli riprendere il proprio ruolo terapeutico, ma rimasero i segni di una ferita incancellabile.

Meno frequente e forse meno rischioso è l’innamoramento del supervisore per il terapeuta in supervisione: se la preparazione è stata condotta con onestà e serietà i due sono quasi sempre in grado di riconoscere la presenza del sentimento e di valutare la parte che può giocare nella relazione professionale, senza permettere che sconfini in gesti non controllati e capaci di danneggiare se stessi e il comune lavoro; soprattutto è importante, caso mai, che sappiano gestire le dinamiche della gelosia che l’amore porta con sé.
Una variante che può perturbare invece il lavoro di supervisione è piuttosto l’eventuale innamoramento del supervisore per il paziente in analisi: in questo caso infatti la gelosia può far precipitare la situazione, facendo perdere al supervisore il controllo della complicata dinamica a tre che si scatena.
Una gelosia patologica metterebbe infatti il supervisore in grado di nuocere agli altri due componenti della triade terapeutica, proprio per lo squilibrio di poteri che la caratterizza. Il potere del supervisore può sopraffare chi in qualche misura è nelle sue mani.
Lo stesso potere può invece essere più utilmente messo in gioco nell’analisi quando il terapeuta e ancor più il paziente riescono a percepire una controllata partecipazione affettiva del supervisore alle proprie vicende e una simpatia per la propria persona.
Inoltre il sentimento amoroso così gestito funziona come stimolo per il supervisore medesimo che concederà allora la sua massima capacità di attenzione.