Psicoanalisi contro n. 27 – L’analisi di Arpagone

febbraio , 1998

Abbiamo parlato fin qui dell’invidia all’interno del rapporto psicoterapeutico: quella del paziente per l’analista, di questi per il suo paziente e per il supervisore ed infine dell’invidia del supervisore per gli altri due attori della triade. L’invidia — come abbiamo visto — è un sentimento profondo, destrutturante e distruttivo, che difficilmente si ammette di provare e che volentieri si riconosce negli altri, soprattutto quando se ne è l’oggetto. Essere invidiati gratifica e rende più prezioso ciò che si ha, tanto che spesso desideriamo illuderci che qualcuno ci invidi. È questa anche una forma di difesa dall’insicurezza; sembra infatti che l’invidia altrui sia una conferma oggettiva del valore nostro e di ciò che possediamo. Allo stesso tempo, però, percepire l’invidia degli altri crea una condizione di ansia ed esalta i sensi di colpa, facendo che non ci si senta degni di ciò che si è avuto; ben lo sapevano gli antichi che temevano che la loro felicità suscitasse “l’invidia degli dei” e di conseguenza la punizione. Questi timori inducono la falsa modestia della cattiva coscienza di chi spera così di esorcizzare il pericolo di vedersi tolto ciò che pensa di possedere indegnamente. Sia i sentimenti di esaltazione, sia quelli angosciosi destati dall’invidia, possono essere psichicamente molto disturbanti, quando la loro intensità diventa eccessiva.
L’invidia richiama con sé, per un verso, l’ avarizia e per l’altro la gelosia, che però restano sostanzialmente da essa ben distinte.

L’avarizia si esprime col timore di perdere ciò che si ha ed è collegata all’avidità, la quale consiste nell’impressione di non avere mai abbastanza. Sia gli individui, sia i gruppi, che nella loro storia hanno avuto un’esperienza di espropriazione ne restano talmente segnati che il timore di dover perdere ancora una volta, inibisce in loro totalmente la capacità di dare. L’avarizia spesso è accompagnata dal bisogno di accumulare, ma più spesso ancora si traduce in determinazione a non consumare alcunché di quello che si ha, sia danaro o beni materiali, siano gli affetti. Nell’insieme, l’avarizia si traduce in una confusione di idee sul comportamento da tenere che arriva anche a determinare situazioni paradossali, umoristiche o tragiche, in cui l’avaro, per propria colpa, perde più di quanto abbia cercato di trattenere per sé. La psicoanalisi vede nell’avarizia anche il segnale di un inconsapevole desiderio di subire atti di espropriazione, come accade per esempio quando il timore è così esibito da provocare proprio il gesto che si dice di temere di più.
L’avaro, qualche volta, maschera la sua avarizia da sentimento di giustizia: è giusto che tutti paghino la loro parte; è giusto che si possa godere il frutto del proprio lavoro; non è giusto che si tragga vantaggio dal benessere altrui; non è giusto avere più di quanto si è dato; etc. Quello che potrebbe sembrare un sano bisogno di giustizia viene così a coprire una rapacità aggressiva ed egoista: ma la giustizia è figlia di Eros, mentre l’avarizia è figlia di Thanatos. La giustizia si fonda sul principio di armonia, sul corretto rapporto tra dare e avere. La bilancia in perfetto equilibrio che la simboleggia rischia però di essere presa dagli animi gretti come incoraggiamento alla stupidità: invece è talvolta giusto che il piatto pesi decisamente da una parte, quando la supposta sperequazione, premia, per esempio, chi ha meritato molto di più. La giustizia deve esprimere una scelta esplicita e rischiare di essere messa in discussione, mentre l’avaro rifiuta di compromettersi e non vorrebbe rischiare mai. L’avaro ha persino paura di ricevere dagli altri, per non sentirsi in dovere di dare a sua volta. L’avaro si comporta spesso con l’avidità ingorda del bulimico, insaziabile nel bisogno di ingoiare cibo ed emozioni; o qualche volta assume l’atteggiamento di totale astinenza dell’anoressia mentale non solo verso il cibo, ma verso ogni forma di assenso per i sentimenti degli altri. Un altro aspetto può essere quello della diffidenza, che diventa sospetto ossessivo verso ogni intenzione dell’altro; oppure l’avarizia di chi teme ad ogni istante di essere derubato, può anche volgersi in cleptomania, bisogno compulsivo di prendere tutto ciò che è a portata di mano. L’avaro è anche vile, perché non vuole scoprirsi e scoprire i suoi eventuali contrasti.

L’avarizia è caratterizzata quasi sempre da rituali ossessivi che stravolgono la percezione del reale e nascondono l’aggressività in sequele di gesti coatti, solo apparentemente privi di significato. Fisiologicamente poi l’avaro risulta affetto da stipsi ostinata, come se veramente temesse e non volesse ad ogni costo perdere una cosa, quale che sia, che gli appartiene.
In politica oggi si è cucita l’immagine dell’avaro addosso al personaggio di Saddam Hussein: disegnandone una figura di avaro-stitico, che si rifiuta persino di cedere quelle sostanze tossiche che stanno avvelenando la vita a lui ed al suo Paese.
I terapeuta avaro fatica molto a dare le cosiddette “interpretazioni”, ovvero teme di scoprirsi dicendo quello che pensa. Vi sono due tipi di psicoterapeuti silenziosi: uno è quello dell’imbecille che, poiché non sa cosa dire, allora preferisce darsi l’atteggiamento di colui che tace, sperando di essere così percepito come uno che ha molte cose da dire, ma che ha deciso, per ragioni superiori, di tacere; il secondo tipo di terapeuta che tace è quello dell’avaro, che teme, parlando, di far progredire troppo velocemente il discorso analitico.
L’avarizia disturba molto il rapporto psicoterapeutico, dal momento che l’avaro fantastica un mondo in cui sia lecito prendere
senza dare e nel quale non è ammessa la generosità. Lo psicoterapeuta che non abbia in sé anche la possibilità di godere nel dare all’altro non può veramente stabilire un rapporto continuo ed affettivo con il suo paziente. L’analista deve essere mosso dal tipo di giustizia ispirato da Eros ed instaurare col paziente uno scambio affettivo senza riserve, disposto a dargli tutto ciò di cui ha bisogno, anche a costo di dare sproporzionatamente molto più di quanto riceve; negarsi significherebbe agire contro il paziente, usargli violenza. La giustizia significa, nel rapporto terapeutico, un continuo dare all’altro ciò che gli serve, in armonia coi bisogni della cura e dei suoi attori.
Non è strano che l’avarizia sia un sintomo del paziente in analisi: l’obiettivo della cura può infatti essere anche il superamento di quella che può essere considerata a tutti gli effetti una patologia. Il lavoro terapeutico dovrà riuscire a chiarire le ragioni profonde di un comportamento giustificato da una serie più o meno articolata di razionalizzazioni.

Il paziente avaro è, in genere, puntuale all’appuntamento fissato per la seduta, dal momento che non vuole perdere neanche una briciola del tempo messo a sua disposizione, e giunge a manifestare insofferenza, se non proprio rabbia, per l’eventuale ritardo del terapeuta. Il paziente avaro vuole avere a disposizione tutto il tempo della seduta, durante la quale cura che non vada perso un gesto né una parola: egli ha fretta di cogliere i frutti del suo investimento economico. L’avaro guarda fisso negli occhi il terapeuta per non perdere neppure un suo sguardo, gli butta addosso continuamente interpretazioni per non perdere tempo, gli nega scioccamente le associazioni e racconta verbosamente ed instancabilmente i suoi sogni, ma anticipa le possibili interpretazioni, sperando che coincidano con quelle del terapeuta. L’avaro fatica ad innamorarsi del terapeuta: dare affetto è come dare soldi; oppure, al contrario, si tuffa nell’innamoramento, perché ha letto da qualche parte che questo è un passaggio utile della dinamica terapeutica, e lo ritualizza ed esibisce per farlo sembrare più vero.
All’avaro in analisi si pone, prima o poi, il passaggio cruciale del dono. Per ottenere il massimo, il paziente avaro giunge ad offrire al terapeuta doni, anche preziosi, che porge con sussiego e magniloquenza. I teorici avari della psicoanalisi hanno stabilito che non è mai lecito al terapeuta accettare alcun dono; sentenza sciocca quanto ingiusta: se è vero che il dono può essere una forma di ricatto, esprimere aggressività o violenza, è anche vero che può essere un segno di disponibilità. Lo psicoanalista deve saper accogliere il dono valutandolo per quello che è, evitando la frustrazione indiscriminata dell’offerta. È un’esperienza che ogni bambino ha conosciuto quella di veder rifiutato, per grettezza ed egoismo, un dono offerto con amore. L’analisi delle motivazioni è un passo successivo, che deve essere certo intrapreso e che può essere utile al proseguimento del lavoro analitico. Il terapeuta avaro evita di incontrare il paziente al di fuori degli spazi e del tempo dedicati alle sedute perché teme di dare troppo, perdendo così l’occasione di confrontarsi con la realtà del mondo del proprio interlocutore, di cui ha solo la visione limitata che gli viene proposta in seduta. Non per nulla succede tanto spesso che il “malato” guarisca in analisi, ma non si riveli capace di affrontare la vita quotidiana ed i problemi non legati al rapporto analitico.

È ovvio che tali incontri devono essere gestiti consapevolmente, senza illudere e senza concedere spazio alle fantasie del paziente sulla loro natura.
Anche il supervisore può essere avaro con effetti devastanti sull’analisi. La sua avarizia danneggia direttamente il lavoro dell’analista e si riflette indirettamente sulle condizioni del paziente. È addirittura impossibile il lavoro con un supervisore troppo avaro. Ciò nonostante, può accadere che anche il migliore supervisore attraversi momenti in cui perde il controllo della propria avarizia; ma deve al più presto sapersi riprendere, riconoscerlo apertamente con l’analista con cui sta lavorando ed insieme a lui riparare i danni eventuali. Anche in supervisione, l’avarizia si esprime come timore dell’ espropriazione e va di pari passo con l’invidia e la gelosia, per cui il supervisore centellina la propria collaborazione, timoroso che il patrimonio della sua scienza gli venga sottratto a basso prezzo dal terapeuta con cui lavora.
In realtà è importante che il supervisore sia generoso e sappia anteporre al suo interesse quello del terapeuta e quindi del paziente, del cui equilibrio psichico è, in entrambi i casi, responsabile.
Il paziente avaro, infine, non è riconoscente; penserà infatti di non aver mai ricevuto abbastanza: la sparizione dei sintomi, il miglioramento delle condizioni di vita, saranno considerati frutto delle proprie capacità, piuttosto che merito del terapeuta; in questi casi il ringraziamento esplicito – oltre che il pagamento dell’onorario – sarà un segno di guarigione.