Psicoanalisi contro n. 26 – Invidia e cura

gennaio , 1998

1. Fin dal tempo in cui Freud scrisse il suo saggio su “analisi terminabile e interminabile”, molto si parla di trattamenti psicodinamici che si prolungano nel tempo e sembrano non terminare mai. È vero infatti che il rapporto psicoanalitico, anche strettamente terapeutico, può durare illimitatamente: la psiche umana è indefinibile e le sue dinamiche sono infinite; l’inconscio poi è come se fosse una grande foresta, intricata di vegetazione e popolata dei più svariati animali, oppure può essere paragonato ad una grande città percorsa e attraversata da labirinti di strade e fitta di costruzioni di ogni tipo, abitata da persone eterogenee. Coscienza ed inconscio sono strettamente uniti fra di loro e continuamente i contenuti psichici trapassano dall’una all’altro e viceversa e i momenti dell’appercezione si articolano su diversi livelli: si coglie una percezione e si percepisce di aver percepito, in un progredire di consapevolezza che però poi sfuma
in un indistinto di cui si perdono di vista i contorni. Sapere di sapere può essere il momento del massimo prevalere di un inganno dell’inconscio. Una persona che acquisisca la consapevolezza di un contenuto inconscio profondo può essere vittima di una doppia costruzione di inganno: diventa – per esempio – consapevole che la violenza particolare di un rapporto sessuale col partner non era solo passione, ma anche espressione del desiderio di vendetta per un tradimento immaginato, ma questa
consapevolezza gli fa perdere di vista che in quel momento rispondeva in quel modo – riappropriandosi del proprio corpo attraverso la fisicità della violenza – ad un sentimento di morte e di annullamento che ancora più in profondità lo stava tormentando, frutto di lontanissimi meccanismi di frustrazione e di castrazione trasmessi nella primissima infanzia dalla madre o dal padre.

2. Quando e dove parla l’inconscio?
L inconscio si insinua nella coscienza attraverso l’appercezione che diviene parola o consapevolezza.
In tanta apparente indeterminatezza c’è però il conforto dell’assoluta verificabilità dell’inconscio secondo i parametri attraverso i quali lo ha identificato la psicodinamica.
La psicoanalisi è una scienza sperimentale e tutte le sue teorizzazioni, tra cui quella fondamentale dell’inconscio, sono confermate dall’esame degli effetti che il procedimento psicoanalitico sortisce coerentemente coi princìpi che lo fondano: proprio come l’atomo non è veramente rappresentabile, ma la teoria atomica ha dimostrato sperimentalmente la sua validità coerentemente con i principi che ne sono a fondamento.

Non si può mai essere certi di esser diventati consapevoli della verità; ma quali sono i segnali che permettono di capire che si sta acquistando la consapevolezza dei veri contenuti inconsci? È possibile saperlo soltanto decifrando i comportamenti che sono effetti di quella consapevolezza: la scomparsa di un sintomo – per esempio – ma abbiamo già visto che anche il linguaggio dei sintomi è complesso e può nascondere oltre che rivelare. Allora è importante chiedere aiuto all’altro, ricercare l’intervento del terapeuta. La sua figura, coinvolta a metà, diventa garante, per i suoi requisiti specifici e per la fiducia concessagli, del disvelamento dei contenuti sia dell’inconscio sia della falsa e cattiva coscienza. Verosimilmente egli è in grado di stabilire nel percorso analitico i punti fissi raggiunti.

3. Chi, però, controlla il terapeuta e garantisce per lui?
È vero che il presupposto di un professionista serio dovrebbe essere quello di una adeguata preparazione, che avrebbe anche la funzione di evitargli la confusione tra i sentimenti personali e le proprie dinamiche inconsce e quelli del paziente, di metterlo in guardia dai meccanismi eventuali di proiezione ed identificazione; ma ancor più utile a garantirlo dovrebbe essere la presenza del terzo attore della terapia psicoanalitica: il supervisore, ovvero colui che, coinvolto emotivamente ed affettivamente con entrambi, è però in posizione equidistante tra il paziente e l’analista. Un elemento ancor più rassicurante è che il supervisore sia anche la stessa persona che ha educato lo psicoanalista, seguendolo scientificamente ed analiticamente nel suo percorso di formazione: anche se questo principio è contraddetto in alcuni ambiti della psicoanalisi. In effetti è meglio che il supervisore conosca il più a fondo possibile la persona sul cui lavoro esercita la supervisione, proprio coerentemente con il discorso vichiano che l’uomo conosce bene solo ciò di cui è stato egli stesso artefice. Come Vico applicava il suo argomento alla storia di cui l’uomo può avere conoscenza, in quanto ha contribuito a farla, così è possibile per il supervisore applicarlo alla storia psicoanalitica dell’allievo che ha in gran parte contribuito a formare. Il supervisore ne conosce meglio forse di ogni altro anche le potenziali dinamiche inconsce ed è quindi capace di prevedere in parte il suo comportamento, oltre di che modificarlo quando sia necessario. Si potrebbe continuare chiedendosi chi debba controllare i supervisori e via di seguito, fermandosi soltanto alla suprema garanzia del Padreterno.

4. C’è una possibilità di fare in modo che il lavoro del supervisore non si strutturi come un’imposizione autoritaria o dogmatica, ma acquisti un carattere, per così dire, di circolarità: questa possibilità è la discussione dei casi clinici fatta in comune dal supervisore e da un gruppo di psicoterapeuti della stessa “scuola”. La presenza dei colleghi, insieme con il didatta, crea un momento di critica collegiale anche dell’operato del supervisore. Paradossalmente, non sarebbe poi tanto male che partecipasse all’esame collettivo anche lo stesso paziente; ma questo forse potrebbe avere in molti casi anche effetti negativi secondari disastrosi, che renderebbero temerario l’esperimento, benché è certo che alcuni pazienti volentieri accetterebbero la proposta e in molti casi con loro e generale vantaggio. Per il momento comunque è meglio lasciare all’ipotesi il suo carattere di provocazione.

5. La struttura di una buona psicoterapia deve dunque comprendere, oltre all’analista e al paziente, un supervisore, che preferibilmente dovrebbe essere anche il didatta.
In una serie di incontri individuali e di gruppo, supervisore e psicoterapeuta possono così aver modo di esaminare il procedimento psicoterapeutico e di questo è bene che il paziente sia informato e che dia il suo consenso all’eventuale discussione pubblica del proprio caso clinico. La vecchia psicoanalisi preferiva un sistema più filtrato di relazioni del paziente con il proprio analista: raccomandava infatti all’analista di concedere ai pazienti il minimo indispensabile di notizie intorno alla sua figura reale ed assolutamente di tacere i principi della propria metapsicologia, in un tentativo piuttosto velleitario di “neutralità” che in fin dei conti nuoceva al paziente che aveva nessuna possibilità di operare scelte a ragion veduta e di partecipare attivamente al rapporto terapeutico.
È invece utile, oltre che corretto, che il terapeuta espliciti – per quanto possibile – al paziente quali sono i princìpi teorici su cui egli opera; inoltre è bene che lo stimoli a domandarsi quanto li condivida e sia pronto a rispondere a tutte le sue esigenze di chiarimenti in proposito. È questo un modo di rispettare il principio del “consenso informato” che la bioetica pone come assoluto. Il paziente ha diritto di sapere e il terapeuta deve rispettare questo diritto fin in fondo, almeno nella misura in cui questa conoscenza non sia nociva agli scopi del lavoro comune.

La figura del supervisore suscita però il problema dell’invidia che si sviluppa in due direzioni: da parte del terapeuta verso quella figura che lo sovrasta e da parte del paziente verso le due figure che esercitano un potere così grande sulla sua vicenda personale. L’invidia, che qui va distinta dalla gelosia, è un sentimento fortemente dannoso per chi la prova come per chi ne è oggetto e in campo psicoanalitico i suoi effetti vanno attentamente considerati e affrontati attraverso un vero e proprio metodico approccio. L’invidia scatena situazioni di marasma psichico in cui si perdono i punti di riferimento: l’invidia invidia l’invidia stessa, ma anche la forza, la consapevolezza e tutto quanto di positivo può esservi in una relazione umana. La dantesca figura di Sapia simbolizza bene la situazione dell’essere umano accecato e roso da serpenti che gli mordono il cuore. L’invidia uccide la fantasia, il desiderio e la sensualità. L’invidia sancisce il pensiero “io non ho” di chi vorrebbe avere tutto: la bellezza, il potere, la fantasia, la ricchezza degli altri; per avere le quali cose si è disposti anche a distruggere e a distruggersi. È un sentimento per cui si prova nell’intimo una profonda vergogna e che nessuno può accettare senza fatica di riconoscere in sé.
Spesso i pazienti riescono ad ammettere in se stessi la presenza di desideri perturbanti e a volte destrutturanti, ma quando li si mette di fronte alla loro invidia, si irrigidiscono in difese assolute, si rifiutano di pensarci.

6. L’invidia del paziente gli fa desiderare di sostituirsi al terapeuta ed ancor più al supervisore: sono giochi simbolici pieni di tensione che si reggono su strutture quanto mai arcaiche. Si sviluppa un desiderio di avere nelle proprie mani I potere di controllo che il supervisore ha sul terapeuta, situazione che suscita tentativi di attacco, sconsiderati e ingenui, al lavoro analitico comune. È necessaria una grande vigilanza e prontezza da parte del terapeuta per contenerli e neutralizzarli. Contro l’invidia del paziente il solo lavoro da fare è quello di opporvi la presa di coscienza: il disvelamento non può però avvenire in modo diretto, ma è bene che il percorso analitico ricerchi possibili diversioni, dirigendosi verso obiettivi intermedi sui quali concentrare l’attenzione del paziente e che possano allentare la tensione dell’invidia.
Il terapeuta, dal canto suo, può essere sopraffatto dall’invidia quando è colpito dalla capacità di previsione del suo supervisore: di fronte ad un’analisi che si evolve in modo troppo conforme alle linee che gli erano state prospettate fin dall’inizio, oppure quando un evento particolare accade proprio come era stato previsto. Un’invidia che, se non viene subito riconosciuta e messa in discussione, può indurre l’analista, nella ricerca di una smentita, a deviazioni forzose del percorso terapeutico, con danno del paziente.
L’invidia del terapeuta per il paziente è più difficile da individuare, ma non di meno prende spesso piede nel rapporto analitico, perché ci sono aspetti della realtà esistenziale e psichica che sono ai suoi occhi desiderabili, malgrado il pensiero razionale che suggerisce che il paziente debba stare male e quindi non possa essere invidiato. Se il terapeuta è avveduto riuscirà persino ad usare la sua invidia per il bene del paziente.

L’invidia però può persino impadronirsi del supervisore: davanti, per esempio, ai successi terapeutici o accademici di un allievo troppo brillante, ma anche, insospettabilmente, nei confronti del paziente. È un disastro, se non riesce a rendersene subito conto e non prende misure idonee per controllarla. Egli deve assolutamente saper gestire la propria invidia, tenendo conto anche degli effetti che può produrre quella componente che comunque gli resterà nascosta. Tornando quindi alle ragioni che possono rendere un’analisi interminabile, si vede bene come, nell’ipotesi che si volesse affrontare a fondo anche un solo problema, come per esempio quello dell’invidia, ci sarebbe a disposizione del lavoro analitico un materiale inesauribile che la stessa analisi contribuirebbe a produrre. E questa non sarebbe che una delle ipotesi possibili, ma ovviamente potrebbero esservene infinite altre.