Psicoanalisi contro n. 24 – Sintomo e malattie 3

novembre , 1997

1. Cerchiamo di proseguire il cammino nell’intricata selva delle psicoterapie e della psicoanalisi. Curare la psiche, analizzarne le strutture, osservarne i comportamenti e poi intervenire terapeuticamente è impresa non facile.

Prima di curare bisogna sapere cosa siano la cura e la salute. Già è complesso stabilire quello che si debba intendere per salute degli apparati strettamente fisici dell’organismo, ma certo è più difficile dire cosa si intenda per salute mentale; resta addirittura un mito il raggiungimento di una ipotetica salute psicofisica che coinvolga la persona nel suo insieme e nelle sue relazioni col mondo. Questo mito deve comunque essere perseguito quando si parla di salute. Aristotelicamente, la salute potrebbe essere la sintesi ottimale tra la potenza e l’atto: ovvero tra quello che un uomo racchiude potenzialmente in sé e la sua capacità di metterlo in pratica nel mondo. L’essere umano assolutamente sano è una pura astrazione: vivere significa di fatto passare da una malattia ad un’altra. Nessuna struttura organica o psichica – in alcun momento – funziona senza inceppi e deviazioni. L’essere umano non è mai in grado di mettere in atto tutto quello che è in potenza: l’uomo “normale” è l’uomo malato.

Per contro si potrebbe dire che finché la vita ha il sopravvento permane la possibilità di salute che solo la morte nega in assoluto. L’uomo vive sospeso tra la vita e la morte: la salute e la malattia esprimono una condizione di precarietà oltre la quale non si può andare.

2. Le modalità della cura sono comunque molte e la discussione su quali siano le cure più valide resta aperta. Uno dei punti paradossali del dibattito sulle terapie è costituito dal cosiddetto effetto placebo o suggestivo. È risaputo che la suggestione è uno tra gli elementi fondamentali che agiscono sulla vita umana. Il presentimento si insinua nell’attesa agendo come suggestione, il pregiudizio colora il giudizio: corpo e psiche suggestionati si aspettano sempre qualcosa piuttosto che qualcos’altro e ciascuno si prefigura lo scenario che sta per svolgersi. I movimenti sono finalizzati: la teleologia guida anche i gesti più semplici, e i meccanismi istintivi sono i più finalizzati: la secrezione delle ghiandole endocrine come l’ammiccamento delle palpebre realizzano scopi iscritti geneticamente nell’evoluzione della specie; ogni fine raggiunto diventa poi nuovo punto di partenza.

Quello che la psiche si prefigura si sovrappone alla percezione della realtà, condizionando allucinatoriamente gli stessi sensi ed integrandone l’azione. Il desiderio e la fantasia suggeriscono “a priori” il dato che si vuole cogliere: “Quel che ci possa essere negli oggetti in sé e separati dalla recettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli, che ci è peculiare, e che non è neanche necessario che appartenga ad ogni essere, sebbene appartenga a tutti gli uomini. Noi abbiamo da fare solamente con esso. Spazio e tempo sono le forme pure di esso; la sensazione in generale, la materia, quella possiamo conoscerla solo a priori, ossia prima di ogni reale percezione” (cfr. Kant, Critica della ragion pura, p. 84, Laterza, Bari 1959)

3. Per tornare alla cura, qui placebo significa: “falso farmaco somministrato, a scopo puramente suggestivo, a pazienti che si credono malati o anche a pazienti effettivamente malati, in sostituzione di un farmaco, per misurare l’effettiva efficacia di questo. Effetto placebo: la reazione psicologica e talvolta anche fisiologica di un paziente alla somministrazione di un placebo (latino placebo, prima persona singolare del futuro di piacere: propriamente ‘piacerò’. Devoto Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1995). Si usano però come placebo anche: “mezzi terapeutici non medicamentosi, come la personalità stessa del medico” (Cortelazzo Zolli, Dizionario etimolgico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1989). Tutte queste sostanze, figure o azioni, vengono percepite dalla psiche del paziente come aventi valore terapeutico per la loro azione sulla malattia e i loro effetti positivi sulle condizioni di salute. Nel secolo scorso il ricorso al placebo era motivato soltanto dal desiderio di compiacere il paziente, poi il suo uso fu determinante anche per la sperimentazione farmacologica.
Esiste pure un effetto di contro-placebo o placebo negativo ispirato dalla diffidenza nei confronti del farmaco o dall’ostilità verso il terapeuta o espressione del rifiuto di guarire; per cui si azionano meccanismi psichici che alterano o capovolgono l’effetto della prescrizione o dell’intera cura, sia nel caso di malattie organiche sia quando il disagio è mentale. Sono questi i casi in cui è più facile leggere l’azione dell’inconscio che si oppone alla terapia e al terapeuta.
Questa manifestazione riguarda soprattutto la cura psicoanalitica, dove, in alcune situazioni, lo scopo stesso per cui ci si rivolge allo psicoanalista è di sfidarlo e di decretarne l’incapacità di intervenire sul disturbo psichico.

4. L’effetto placebo è però particolarmente difficile da ottenere quando ci si trova di fronte a personalità che manifestano una opposizione eccessiva o una esagerata acquiescenza alla cura. Mentre nel primo caso la considerazione sembrerebbe ovvia in quanto la personalità irrigidita nell’opposizione è capace di elaborare fantasie di onnipotenza – narcisistiche o sadomasochistiche – paranoicamente sospettose, che si oppongono al lavoro di introspezione; nel secondo caso la cosa sembra meno evidente, ma ad un’indagine più accurata, la docilità e la suggestionabilità si rivelano debolezze della personalità, propensa a cancellare con suggestioni sempre nuove e contraddittorie quelle di placebo eventualmente recepite in prima istanza. Questo vale anche se il placebo è stato incarnato dalla figura stessa del terapeuta: la volontà di abbandonarsi totalmente a lui può venire fin troppo facilmente contraddetta da nuove fascinazioni provenienti da altre personalità suggestive: amici e parenti prima di tutto. Questo deve invitare il terapeuta alla prudenza nella valutazione dei risultati immediati della cura. Lo stesso vale anche quando si tratti di una terapia essenzialmente farmacologica.

5. L’uso del placebo, in tutte le accezioni di cui sopra, pone comunque un problema etico, come l’uso di qualunque tecnica suggestiva. Dal momento che la suggestione è tanto più efficace quanto più è occulta, va da sé che il paziente non deve essere al corrente di quanto si opera nei suoi confronti, a rischio di pregiudicare la possibile efficacia dell’intervento. È abbastanza facile superare l’ostacolo quando si prevede una somministrazione alternata di sostanze attive od inerti, mettendo il paziente al corrente del meccanismo e lasciandogli liberamente accettare di non sapere in quale momento vengono somministrate le une e le altre, ma, negli altri casi, si compromette ogni possibilità di successo. Lo stesso problema etico lo pone la psicoterapia, la cui efficacia iniziale si basa quasi esclusivamente sulla suggestione, usata dal terapeuta come strumento utile al progresso terapeutico, che porterà – ma solo in seguito – ad un rapporto più consapevole e paritario. Una informazione completa, in questa fase, pregiudicherebbe il bene stesso del paziente che risulta vincolato proprio all’ inconsapevolezza dell’ effetto suggestivo. Questa constatazione è un esempio di antinomia di cui è prigioniera la Bioetica quando prescrive il consenso informato del paziente.

Qui l’informazione è opposta alla beneficialità. Fondamentale deve rimanere comunque il principio del rispetto della dignità del paziente e il perseguimento del suo bene. La verità ad ogni costo è spesso un pretesto per la prevaricazione ben più nociva del placebo.