Psicoanalisi contro n. 23 – Sintomo e malattie 2

ottobre , 1997

1. Vi sono molte ragioni per le quali può essere opportuno iniziare una psicoterapia e in specie un trattamento psicoanalitico. Tra coloro che approdano allo studio dello psicoanalista si possono distinguere due generi di persone: uno è composto da quelli che hanno preso questa decisione per una scelta personale, sia pure spinti dal bisogno di alleviare un disagio; l’altro è fatto di persone che sono state in qualche modo sollecitate e spinte, se non proprio costrette, a compiere tale passo da parenti, amici o colleghi.
Tra i primi, alcuni sostengono di voler iniziare a fare psicoanalisi per conoscersi meglio, altri vogliono curare qualche forma di disagio psichico che li disturba più o meno fortemente, altri ancora sono mossi dal desiderio di scegliere la stessa professione di terapeuta, e non soltanto di psicoanalista, per cui vogliono o debbono prima di tutto essere in grado di conoscere e controllare le proprie dinamiche psichiche consce ed inconsce. Non è possibile impostare correttamente la propria professione medica, specialistica o generica, senza fare un lavoro che permetta di considerare quelle che saranno, nell’esercizio della futura professione, le implicazioni delle dinamiche inconsce proprie e del paziente che comunque agiranno in ogni tipo di cura. La persona del medico è spesso una vera medicina in sé – non solo un effetto placebo, come pretendono alcuni teorici – e questo deve essergli chiaro; perciò deve conoscere se stesso al fine di non cadere negli inganni del proprio inconscio e svelare i troppi schermi che potrebbero interporsi tra sé e il proprio paziente.

2. Molto spesso chi fa psicoanalisi per ragioni non strettamente terapeutiche, fatica nelle prime fasi del lavoro a non lasciarsi vincere dalla delusione per la mancanza di risultati immediati e clamorosi; mentre al contrario una altissima percentuale di coloro che hanno fatto ricorso alla terapia psicoanalitica per lenire un malessere notano proprio nei primi tempi del lavoro cambiamenti notevoli quanto inattesi del proprio stato di salute e del tono generale.

Succede infatti nella terapia psicoanalitica ben condotta che tanto più gravi sono i sintomi, fino al delirio psicotico, tanto più rapida pare essere la loro regressione, insieme all’affermarsi di una sorta di stato di euforia. In questa situazione positiva possono però annidarsi futuri pericoli per il paziente, soprattutto se lo psicoanalista è inesperto ed eccessivamente ottimista. In questo caso facilmente abuserà del suo eccessivo sentimento di sicurezza e gli sfuggirà qualche frase di troppo. Per non correre simili rischi è importante che a monte ci sia stata una preparazione rigorosa e un altrettanto serio lavoro di supervisione. Dal canto suo il paziente troppo compiaciuto correrà il rischio di percepire il proprio terapeuta come un taumaturgo e di sentirsi “miracolato” da una guarigione repentina. Invece è molto probabile che con il proseguire di un lavoro serio e continuo si debba registrare in tempi medi un ritorno di quegli stessi sintomi, magari leggermente trasformati, spesso addirittura aggravati.

Questo momento della cura è – nuovamente – uno dei più critici, perché il paziente rischia una crisi di sfiducia, con esiti depressivi spesso, sentimenti di sconfitta e di inadeguatezza che vanificano gran parte degli effetti positivi fino ad allora conseguiti. In questo caso – non meno che nella fase dell’euforia – è fondamentale un comportamento accorto del terapeuta il quale, mentre avrà saputo prima usare a vantaggio dell’analisi l’entusiasmo del paziente, spostandone l’attenzione dai contenuti esplosivi dell’inconscio su argomenti non critici per il suo equilibrio, ora saprà altrettanto accortamente alleggerire la tensione diversificando e scegliendo opportunamente i temi da trattare.

3. Diversa. in parte. è la dinamica del lavoro psicoanalitico con chi ha invece – più che problemi neuropsichici – interessi di studio o di autoconoscenza. Il periodo iniziale dovrà essere di feconda collaborazione, stimolata soprattutto dalla comunicazione diretta guidata dal terapeuta, nei modi dovuti e prudenti di chi sa evitare prematuri e rischiosi “affondi” nell’inconscio, sempre sapendo tacere il dovuto e dire soltanto il dicibile.
Alcune sottolineature razionalizzanti, qualche chiarimento od osservazione puntuale saranno sufficienti, nella maggior parte dei casi, a mantenere il rapporto, in attesa di poter entrare nel vivo dell’analisi. In presenza però di un soggetto particolarmente suscettibile di depressioni o scoraggiamenti, sarà bene che lo psicoanalista entri, con cautela e leggerezza, in campi più significativi, capaci di provocare risonanze nell’inconscio, così da fargli cogliere l’importanza dei temi in questione. Per muoversi meglio, è importante che il terapeuta capisca al più presto se il paziente che gli sta di fronte usi prevalentemente difese di tipo narcisistico o sadomasochistico. Nel primo caso, la strategia potrà essere meno stringente, in quanto l’individuo, concentrato soprattutto su se stesso, chiederà solo di non essere disturbato troppo nella sua autogratificazione e nelle sue autoconvinzioni. Per il soggetto sadomasochista, sarà meglio rischiare prima il discorso incentrato sull’inconscio. In ogni caso è bene tenere presente che nessuna di queste persone avrà iniziato la psicoanalisi in buona fede: le reali motivazioni di ogni analisi sono infatti sempre diverse da quelle addotte, non perché queste siano false, ma perché dietro c’è molto più di quanto è stato detto.

4. Chi si avvicina alla psicoanalisi perché intende avviarsi alla professione di psicoterapeuta, o anche soltanto di medico – poiché è bene che chiunque si proponga di curare gli altri conosca a sufficienza le proprie dinamiche inconsce, oltre che quelle altrui – si trova in una situazione delicata ed ambigua perché rischia di mascherare dietro l’interesse professionale, scientifico o culturale un reale disagio che lo riguarda personalmente. Il desiderio di dedicarsi alla cura degli altri può restare sincero, ma, evitando di cadere in fantasie di onnipotenza, non deve essere persa di vista la necessità di superare il proprio personale disagio. In questi casi, il corso tipico dell’analisi passa attraverso un tappa necessaria: quella del delirio interpretativo. Dopo poche settimane di lavoro analitico, questi soggetti renderanno la vita insopportabile a famigliari, colleghi ed amici, per la furia interpretativa che li spingerà ad interpretare sempre e comunque ogni gesto di chi li circonda. La stessa smania li spinge ad interpretare continuamente anche se stessi ed i più narcisisti si esibiranno in una loro pretesa quanto compiaciuta nudità “psicologica” davanti al loro terapeuta, aspettandosi i complimenti per l’eccellenza del lavoro compiuto. Nei sadomasochisti questo stesso piacere esibizionistico si colora di sfumature accentuatamente sessuali e più che alla ricerca dell’ammirazione altrui, pretenderanno di imporre agli altri la percezione delle proprie caratteristiche sessuali con un atteggiamento prossimo allo stupro, almeno figurato. Tutto questo periodo deve essere affrontato dall’analista con partecipazione affettiva, ma con distacco critico, riservandosi di chiarire quanto ci sia di buona fede e quanto venga agito in vera e consapevole mala fede.

Chi si avvicina alla psicoanalisi perché intende per ragioni professionali mettersi in grado di controllare le proprie ed altrui dinamiche psichiche inconsce, ha il merito di aver capito che nessuno può affrontare un rapporto interpersonale significativo come quello che si prospetta al medico, all’insegnante, al sacerdote, senza aver prima cercato di darsi gli strumenti per capire la struttura della psiche umana, nelle sue linee fondamentali, consce ed inconsce.

La persona stessa del medico ha la funzione di medicina anche al di là di ogni effetto “placebo”, per questo è importante che sappia evitare gli inganni che potrebbero essergli tesi dal proprio inconscio e sappia entrare nei meccanismi psicologici dell’altro.
Ciò non toglie che spesso anche queste persone abbiano bisogno di curare davvero se stessi, anche al di là delle motivazioni professionali esplicite. Il terapeuta deve tenere conto dei due aspetti del problema che la persona che gli sta di fronte presenta.

5. Ci sono poi alcune categorie di persone che giungono all’analisi spintevi da altri: sono principalmente i bambini e quelle persone la cui capacità di giudizio e di gestione di se stessi sono limitate da condizioni vicine alla psicosi vera e propria.
I bambini, anche molto piccoli, sono particolarmente disponibili al rapporto psicoterapeutico, a parte casi clamorosi di rifiuto: sono lieti di recarsi all’incontro col terapeuta, e dipende da quest’ultimo e dalla sua sensibilità rendersi capace di stabilire un rapporto di fiducia, grazie anche al ricorso a tecniche di gioco comune, in grado di coinvolgere. Il terapeuta deve mettere in gioco la propria disponibilità anche “fisica”, accettando l’incontro col bambino, usando con lui i materiali più diversi ed utilizzando tutti questi elementi per leggere il discorso inconscio che gli viene comunicato. Dopo che il legame con la terapia sarà solido, allora sarà possibile anche con questi piccoli pazienti – generalmente molto disponibili ad ascoltare – iniziare a parlare, toccando argomenti significativi. Nella narrazione di cui i bambini sono maestri appare spesso con evidenza il contenuto di antichi e nuovi miti, espressioni dell’ inconscio individuale e sociale che li avvolge. Ovviamente le differenze di età richiedono adeguamenti nella tecnica e nelle modalità di rapporto. Inoltre i più piccoli, se opportunamente saggiati, saranno in grado di riferire ricordi sufficientemente utili e intelligibili della loro vita intrauterina, che potranno essere trasformati in elementi che favoriscono la comprensione dell’eziologia di alcune patologie – anche di quelle più gravi come l’autismo – permettendo un intervento più efficace, capace di spezzare il mondo di isolamento e sofferenza in cui appaiono sprofondati, ma da cui possono essere strappati.

Una complicazione delle terapie coi minori è rappresentata dall’ingerenza dei famigliari che hanno anche il ruolo di “committenti ” e che, poiché pagano, pretendono di intromettersi anche pesantemente nell’analisi e si riservano il diritto di sospendere la cura quando non la ritengono in armonia con i loro progetti, oppure decidono da soli sulla presunta guarigione. Il terapeuta si trova a dover gestire anche i conflitti tra ragazzo e famiglia, sforzandosi di mantenere la propria autonomia e inoltre è spesso costretto a fronteggiare una svalutazione del proprio lavoro. Una variabile è quella che riguarda il rapporto coi minori “devianti” – per lo più indotti all’analisi dagli insegnanti oltre che dalle famiglie -, ragazzi che manifestano un rifiuto drastico per una cura che leggono come tentativo di repressione, e per il terapeuta che viene percepito come rappresentante dell’autorità. La fatica in questi casi è di riuscire a farsi accettare.
Può allora essere necessario scongiurare situazioni di disagio psichico anche molto gravi: si tratta di smantellare un sistema difensivo spesso conformistico e pieno di luoghi comuni, instaurando un legame in cui la fiducia viene ottenuta senza concedere in cambio equivoche complicità. In ogni caso è più arduo ottenere risultati quando si ha a che fare con giovani che si sono assestati in comportamenti in cui hanno trovato posto la microcriminalità e la droga.

6. I pazienti in gravi condizioni psichiche, inviati in analisi da altri medici o da famigliari, negano spesso di aver bisogno di cura ed assumono un atteggiamento oppositivo. Il ritornello che oppongono ai tentativi dell’analista è quello della loro pretesa “normalità” e quanto più sarà insistito tanto più sarà sintomatico del loro malessere. Le pulsioni inconsce violente si manifestano con durezza e il terapeuta deve saper aggirare gli ostacoli, evitando un confronto diretto che intralcerebbe il raggiungimento dello scopo ultimo del lavoro, evitando soprattutto di assumere un ruolo persecutorio che rafforzerebbe la malattia. Quando il disagio è particolarmente grave, è utile saper associare alla psicoterapia la somministrazione di psicofarmaci, che vanno però ricondotti e gestiti all’interno del rapporto analitico.

Ovviamente, tutto quanto finora è stato detto non esaurisce i paradigmi della cura psicoanalitica ed ogni rapporto fa storia a sé. Quello che dovrebbe essere il senso generale di questa rassegna è come sempre sia fondamentale che il terapeuta abbia acquisito una propria personale capacità di gestione del rapporto psicoanalitico, che però può essere fondata soltanto su un buon lavoro preliminare di formazione didattica e una accurata pratica di supervisione.