Psicoanalisi contro n. 22 – Sintomo e malattie 1

agosto , 1997

1. In ogni forma di esercizio della terapia, non soltanto in quella psicologica, è importante cercare di distinguere i sintomi dalla malattia vera e propria. Un disturbo, fisico o psichico, è costituito da un insieme di elementi di cui alcuni producono sintomi manifesti, mentre altri restano asintomatici. Se non vogliamo cadere in un accademico nominalismo, dobbiamo convenire che un sintomo ha origine in qualcosa che è altro da sé e che congiuntamente all’effetto sintomatico produce la malattia. Sia una nevrosi sia
un’appendicite sono la manifestazione di due realtà molto complesse che esprimono ciascuna una gamma molto ampia di realtà patologiche in cui gli aspetti organici e quelli psicologici si sommano a più livelli. La medicina organicista occidentale che da secoli affronta i disturbi somatici ha costruito nel tempo schemi diagnostici che raggruppano i diversi sintomi e li riferiscono di volta in volta ad una determinata patologia. Su basi completamente diverse la stessa cosa fanno molte medicine orientali. Così che le forme di lettura dei sintomi patologici sono molte e diverse tra loro, come i metodi di cura.
Rimanendo all’interno della cultura scientifica occidentale si nota inoltre che la psichiatria e la psicologia presentano una grande varietà di articolazioni e la lettura dei sintomi avviene secondo principi nosografici e nosologici molto diversi tra loro.
Così anche la diagnosi e il significato della malattia cambiano seguendo le differenti impostazioni teoriche su cui si fonda chi osserva e cura.

A questa complessità dei modi di lettura si aggiunge poi la diversa valutazione e le diverse modalità di collegamento che ciascuna teoria attribuisce ai rapporti tra il livello organico o somatico e quello psichico: ne deriva che finisce col prevalere ogni volta lo spirito di una presa di posizione che è allo stesso tempo scientifica ed ideologica.
Uno dei manuali della diagnostica universalmente noto a cui la nostra cultura psichiatrica fa riferimento è il D.S.M. (ovvero Diagnostic and Statistic Manual della associazione degli psichiatri americani) nelle sue varie e successive redazioni: una specie di prontuario che dovrebbe servire di base al terapeuta per collocare il disagio psichico di chi si rivolge a lui in uno schema diagnostico riconoscibile o sindrome classificabile con un nome preciso. È questo uno strumento che, certo, permette di avere parametri clinici di riferimento; ma allo stesso tempo si rivela ad una attenta lettura critica quasi ridicolo. La pretesa obbiettività rischia infatti di scadere nel dogmatismo rigido, nella tautologia e nella petizione di principio fondata soltanto su se stessa, per la sua pretesa di ingabbiare la complessità della psicopatologia in regole elementari, universali ed univoche.

Oggi, l’informatica e l’elaborazione dei dati statistici su grande scala permettono di articolare meglio i parametri della nosografia, ma bisogna sapere che anche gli strumenti più sofisticati sanno trovare soltanto quello che il ricercatore si propone come obiettivo dell’indagine e l’elaborazione computerizzata dei dati immessi in una memoria non sfugge al rischio di ricadere a sua volta nella tautologia.
Questo significa forse che non si può evitare di cadere sempre nel nominalismo di Gorgia e Roscellino ?

2. E’ comunque indispensabile che ogni terapeuta abbia chiaro a se stesso il riferimento ad una diagnosi, fondata su principi teorici e sperimentali che non debbono essere considerati assoluti e preminenti, ma strumenti flessibili che si calano nella realtà patologica del soggetto in questione. Perciò è fondamentale sapere che la diagnosi, anche quando è seriamente fondata e condivisa dal paziente, può sempre essere smentita dall’evoluzione della patologia e dalle dinamiche inconsce della persona che si ha di fronte. Inoltre, in qualunque momento, i desideri, le paure e persino il rifiuto della cura da parte di chi l’ha richiesta debbono essere presi in considerazione dal terapeuta. A rischio poi di sconfinare nella metafisica è opportuno essere consapevoli che qualunque diagnosi ha il suo primo ed ultimo fondamento nell’ignoto. Ammesso che ogni attenzione sia stata posta nello studio della sintomatologia e dell’etiologia, resta tuttavia un margine di alea che non riesce ad avere ragione del mistero della realtà umana, di cui non si conoscono le origini, i contorni ed i fini.
Questa consapevolezza riesce a contenere la presunzione del terapeuta ed è un esercizio di umiltà che aumenta la sua disponibilità verso l’altro, abbassandone il sentimento di onnipotenza. All’opposto, troppe perplessità possono nuocere all’impegno del terapeuta nella cura quando lo rendono insicuro ed inadeguato alla gravità dei problemi che gli si pongono.

3. A rischio di andare fuori tema, a questo punto si impone una riflessione indispensabile prima di procedere nell’esame del significato dei sintomi e delle cause del disagio: ogni medico – per quanto generico ed organicista -, e non solo lo psicoterapeuta, dovrebbe sempre far precedere l’esercizio della professione da un processo di analisi critica che gli permetta di difendersi dai rischi che la proiezione dei propri problemi sul paziente o l’identificazione con alcuni aspetti della situazione di fronte a cui si trova possano viziare la corretta percezione dei problemi e condizionarlo nelle scelte dei rimedi più opportuni.
Questo lavoro è necessario guanto e più dello stesso esame di stato ed è secondario che l’eterogeneità delle scuole di formazione psicologica possa sollevare dubbi su quali siano i criteri di giudizio e i principi che si trasmettono. È indispensabile che il medico abbia una conoscenza sufficiente delle proprie dinamiche inconsce, che sappia quali sono le sue paure e quali le sue difese: quest’esigenza ha fondamenti scientifici e si impone come principio bioetico assoluto. Un medico non deve e non può essere in balia delle proprie fantasie e delle proprie paure davanti al disagio di chi ha bisogno di lui.

I medici possono dividersi in tre categorie: la prima è quella di coloro che sono sufficientemente sani ed hanno una percezione delle dinamiche inconsce che li determinano tale che permette loro di non proiettarle sui pazienti e di sbloccare pericolosi meccanismi identificatori; la seconda è quella dei medici inconsapevoli della propria realtà psichica che procedono senza esitazioni e coinvolgimenti, fondandosi solo sulla sicurezza della propria preparazione scientifica, con i rischi del distacco e dell’onnipotenza; la terza categoria è quella dei medici terrorizzati dal peso delle proprie responsabilità e dilaniati dai dubbi, vittime anche del paziente e dei suoi famigliari.

4. Senza ovviamente neppure tentare ipotesi sulle possibili cause prime o ultime del disagio fisico e psichico, possiamo però cercare chiarezza intorno alle cause seconde, o terze o quarte. Il filo che unisce tra loro gli aspetti di una patologia è molto difficile da seguire. Se si vagliano tutte le ipotesi, prima o poi, ci si imbatte anche in quelle che si riferiscono al corredo genetico che caratterizza ogni individuo, diverso per ciascuno, ma che ha origine nella notte dei tempi. Quello che riesce difficile da accettare è che il passato dell’umanità pesi su ogni singolo ed irripetibile essere umano. Alcune tracce sono chiare e vengono accettate, altre sono oscure e vengono istintivamente rifiutate. Fantasie, sogni, paure, desideri, i valori stessi dell’inconscio sociale costruiscono un a priori psichico che influenza lo stato di salute e può contribuire a determinare la malattia. Ogni cultura legge a suo modo i segni del comportamento sano e di quello malato, pur nella universale concezione del dolore e della sofferenza. L’inconscio sociale è la sede della patogenesi individuale. Ogni vita, dal momento del concepimento, passa attraverso esperienze che la rendono unica anche nel momento della malattia. La scienza possiede alcuni strumenti per intervenire sia sulle patologie conseguenti all’eredità biologico-genetica, sia su quelle indotte dall’inconscio sociale oppure originate dalle vicende personali. Interventi chirurgici, farmacologici, igienico-profilattici, psicologici e sociali cercano in mille modi di combattere il disagio e la malattia, ma lo fanno isolatamente spezzando l’unità dell’individuo e distaccandolo dal corpo sociale in cui è inserito. Manca a tutt’oggi un approccio scientifico complessivo che tenga conto della complessità delle concause del malessere, per quanto ampia si sforzi di essere la prospettiva.

5. Se i sintomi non esauriscono tutto il significato della malattia, è pur tuttavia possibile ricondurre un quadro clinico ad un insieme di sintomi tra loro coerenti? In molti casi è difficile persino distinguere l’effetto dalla causa: la psicoanalisi si è posta come obiettivo proprio quello di separare i sintomi dalle cause che ne sono all’origine. I pazienti giungono dallo psicoterapeuta presentando una serie di sintomi: palpitazioni e sudorazioni, disturbi respiratori o della motricità, idee ossessive collegabili ad una situazione di panico, o a una patofobia, che hanno alle spalle motivazioni ignote di cui sono una sorta di compromesso tra coscienza ed inconscio nei confronti della pulsione rimossa. Questa è una schematizzazione utile praticamente, anche se l’esperienza clinica insegna che, diradata la nebbia dei sintomi, non ci si troverà di fronte alle cause, ma quasi sempre di fronte a nuovi sintomi. La causa inconscia peraltro entra in gioco nel rapporto terapeutico fin dal principio, ma ne viene fatto un uso strategico e simbolico.