21 – Luglio ‘97

luglio , 1997

Abbiamo più volte ripetuto come Parigi offra una ristorazione capace di soddisfare tutte le esigenze possibili, economiche e di gusto, di una folla cosmopolita ed eterogenea che di lì passa per ragioni di studio o di lavoro, per dovere o per piacere. Di questa ristorazione esiste un nome mitologico a favore del quale vogliamo spezzare una lancia: MAXIM’S. I parvenus e le guide gastronomiche da molti anni trovano snob parlare male di questo mostro sacro (dimostrando così di avere poco palato e troppa cattiva coscienza). Non è, senza dubbio, il migliore ristorante del mondo, ma per esempio, gli involtini di cavolo ripieni d’aragosta in salsa d’ostriche sono addirittura sublimi, come eccellenti sono le suprèmes di rombo brasato con la salsa verjuce o i teneri porri con rondelle di cipolla fritta. Il filetto d’agnello arrosto alle erbe croccanti con i legumi ai profumi di Provenza è un piatto di classica inappuntabilità ancora oggi esemplare. Persino i dolci, che siano moelleux al cioccolato, gelati o sorbetti con i loro coulis di frutti di bosco restano inarrivabili delizie suggellate da un caffè accompagnato da piccola pasticceria fragrante.
La cantina del ristorante è inattaccabile da qualunque critico e lo prova fra l’altro il prezzo raggiunto da alcune bottiglie recenti messe all’asta per alleggerire lo stoccaggio.
Il lusso quasi eccessivo dell’ambiente ha acquistato oggi qualcosa di appassito che è commovente e nella famosissima alcova ancora suona l’orchestra (è vero: troppo jazz mal eseguito) ma, se lo richiedete (come a noi capita di fare) suoneranno, benissimo, per voi Offenbach e Lehar.

Gli stessi compilatori di guide gastronomiche afflitti da ansia di mediocrità hanno inneggiato al cambiamento sopraggiunto qualche tempo fa in un altro tempio della cucina parigina: Il GRAND VÉFOUR, in uno storico ambiente del Palais Royal. Invece quella fu una vera e propria capitolazione, infatti, sotto il pretesto di un ringiovanimento ed alleggerimento dietetico, si è confermata solo la perdita di una tradizione insostituibile. Il funesto segno della quale fu per noi la risposta di un cameriere che davanti alla richiesta di avere il nostro rituale filetto al midollo, ci rispose con viscida arroganza che era stato tolto dal menu perché “troppo pesante”! Ci accontentammo dell’arrostino smunto e da allora evitiamo di tornarci, lasciandolo alle preoccupazioni gastriche di Berlusconi e della Regina Elisabetta, anche considerando i prezzi, che, quelli sì, non si sono alleggeriti!

Se è vero che la cucina cinese europea è per lo più una risorsa d’emergenza, ancora capita, qua e là, di trovare una buona ragione gastronomica per sceglierla. Così avviene che alle DELICES DE TSZECHOUAN, al 40 di avenue Duquesne, a due passi dagli Invalides, si possa fare una cena tranquilla, in un elegante e quieto salone o su una terrazza estiva piacevolmente carezzata dal vento. A noi piace la freschezza dell’insalata di medusa (un prezioso articolo del repertorio orientale in via di sparizione); ma apprezziamo anche tutte le preparazioni croccanti – e che qui non sono mai viscide -, sia piccanti (la regione del Tszechouan è specialmente “bruciante”), sia in agrodolce, di pollo, di maiale e di un inarrivabile manzo. Persino la carta dei vini offre buone scelte a costi accettabili, se pure tenuti su di tono, come il conto nel suo complesso.

Un pessimo vezzo fa chiamare “etnica” la cucina di alcuni paesi trasferita in altri luoghi il cui etnocentrismo finisce per essere schiacciante. Di fatto ci sono posti di piccolo rilievo gastronomico, ma che hanno il pregio di una indubbia autenticità e che costituiscono una piacevole sorpresa per chi li conosce per caso. Come è capitato a noi con il ristorante peruviano MACHU PICCHU, in rue Royer Collard 9, appena dietro ai giardini del Lussemburgo, ai bordi del quartiere latino: due piccole e linde sale coi tavoli ben separati ed una padrona di casa timida e gentile, se pure un po’ distratta e chiacchierona. Il tipico lomo satado di manzo e cipolle con legumi è senz’altro da provare. La carta si muove tra piatti di carne e piatti di pesce più o meno gradevoli (buono il ceviche). I vini peruviani possono riservare qualche piacevole sorpresa, in particolare certi rossi. Si finisce (come si comincia) con l’incapisco ed un conto onesto.

Per chiudere in bellezza vorremmo parlare di un ristorantino che non si trova nelle guide e nei cataloghi pubblicitari e che si situa nell’antico quartiere del Marais, in rue Vieille du Temple: prende il nome di COLIMACON da una scala a chiocciola di legno che porta al piano superiore. Si sta seduti un po’ stretti, ma tra mura di pietra antichissime e si gode della cortese cordialità di un’équipe tutta maschile: il patron, lo chef ed il garcon. La cucina è la più tradizionale che si possa pensare, anche se con qualche tocco di freschezza, la lista dei piatti non è ricchissima, ma varia spesso e comunque tutti sono fragranti e molto appetitosi, tanto che abbiamo fatto di questo posto il punto di riferimento abituale e ci andiamo piuttosto spesso. Tra i piatti di pesce, i calamari alle cipolle sono una sorpresa piacevole. Funghi in fricassea ed animelle sono un’accoppiata ricca di profumo e di solida consistenza. Il bue Marengo è un’armonia perfetta di sapori quale si trova solo in un capolavoro. L’agnello arrosto alle erbe è croccante e sodo, ricco di profumi ed umido di succhi, né gli sono da meno le nocelle dello stesso animale. La pera in crosta col suo coulis e accompagnata dal gelato alla crema è una perfetta cadenza di chiusura.
La carta dei vini non è molto ampia, ma vi sono rappresentate tutte le buone aree di produzione nazionale e noi siamo affezionati ad una caraffa di Corbières, un vino rosso del Languedoc Roussillon, verso la costa mediterranea, morbido, profumato di frutti di bosco e ben equilibrato. Il conto resta contenuto, anche considerando che l’area è intensamente turistica.