Psicoanalisi contro n. 19 – Sintomo e guarigione

aprile , 1997

1. Sia l’antica terapia del comportamentismo sia le sue moderne revisioni ed applicazioni hanno per assunto fondamentale che il paziente non debba
conoscere le ragioni e il significato dei gesti e delle frasi che il terapeuta gli rivolge. In effetti spesso si tratta di messaggi trasversali, che debbono essere talvolta scomposti o addirittura capovolti per sortire l’effetto voluto: si dice a per far intendere b. Naturalmente, svelare il trucco spiegando quali sono i fini ultimi che ci si propone di conseguire, fa perdere di significato al lavoro terapeutico che nell’imprevisto e nell’ambiguità trova la sua efficacia.

Il meccanismo della suggestione sta dietro sia ai discorsi trasversali sia a quelli capovolti e non debbono essere svelati proprio come non deve svelare i suoi trucchi un prestigiatore che voglia conquistare una platea con giochi illusionistici o di ipnotismo, pena il fallimento di ogni sorpresa e la privazione di ogni divertimento. Nel caso dell’intervento terapeutico è tanto più importante rispettare le regole, in quanto quello che è in gioco è la salute del paziente. Resta il problema però di evitare al terapeuta le accuse di eccessiva manipolazione, che si può tradurre nella vecchia domanda: “Il fine giustifica i mezzi?” Di fronte ad una sofferenza che appare insopportabile, la tentazione è di rispondere che qualunque mezzo che la cancelli o la diminuisca sarebbe giustificato. A volte un’eccessiva intransigenza morale può addirittura intaccare la dignità dell’uomo: ma questo discorso ci porterebbe lontano, per cui è preferibile accantonarlo, almeno per il momento.

2. Abbiamo già accennato al ruolo svolto dall’effetto placebo nella terapia farmacologica e specialmente in quella psico-farmacologica e quanto importante
sia che il paziente non abbia la consapevolezza della componente suggestiva, per il buon esito della cura. Anche i gesti e la personalità del medico organicista hanno un significato simbolico la cui efficacia potenzia suggestivamente gli effetti benefici sul malato. Anche qui il problema della manipolazione, del cosiddetto plagio si pone in modo spesso drammatico, soprattutto quando vada a pregiudicare la dignità del paziente. Eppure un improvvido zelo che smascherasse totalmente il gioco della suggestione sarebbe alleato della malattia e non della salute.

La responsabilità ricade, in tutti questi casi, sulle spalle del terapeuta che solo può dire a se stesso quanto onesto sia stato il suo modo di procedere. A chi cura si pongono in alternativa alcune opzioni di fronte a questo genere di problemi: dire tutto, dire solo in parte, non dire alcunché. Nessuna di queste scelte è di per sé giusta o sbagliata, né può essere, indiscriminatamente e sempre, applicata. La sola motivazione dei suoi atti, il solo principio superiore a cui può appellarsi quando deve prendere una decisione è il bene del paziente.
La verità non è mai pienamente raggiungibile da nessuna forma di scienza o di filosofia, però non per questo si giustifica un atteggiamento depressivo di rinuncia: si deve ricercare la verità anche sapendo che sarà possibile soltanto tutt’al più vederne l’ombra. La verità non è altrove, ma resta oltre le umane possibilità:

“Credere nella possibilità della verità vuol dire tendere fiduciosamente ad essa. Tendere non significa raggiungere. La verità (…) è sempre oltre; mai, però, altrove (…) Se fosse altrove, sempre, la sua irraggiungibilità sarebbe un’impossibilità. Invece la sua irraggiungibilità sta solo ad esprimere che la verità è come il desiderio: non si realizza mai pienamente “.

(Cfr. S. Gindro, A Tiresia)

3. La psicoanalisi freudiana afferma che i sintomi attraverso i quali si manifesta il disagio psichico sono frutto di un compromesso: la pulsione
rimossa vuole venire alla luce, ma la coscienza non glielo permette. Se la forza pulsionale è eccessiva si ottiene un risultato di compromesso: la pulsione riuscirà sì a manifestarsi, ma convertita in sintomo, malattia, che pregiudica il corso della vita. Freud diceva che svelare il meccanismo con cui l’inconscio ingannatore era riuscito ugualmente ad esprimersi equivaleva a togliere al sintomo la sua ragione di essere.

Se – però – il desiderio pulsionale rimosso viene alla luce della coscienza prima che la personalità del paziente sia in grado di reggere l’urto di una verità spesso violenta e pesante, si corre un grave rischio: che il suo equilibrio psichico venga sconvolto, causando un danno maggiore di quello provocato dal sintomo stesso. Bisogna allora che il terapeuta sia molto cauto nell’accompagnare il paziente nel viaggio rischioso tra i meandri dell’inconscio, evitandogli incontri con realtà che per la sua fragilità non sarebbe in grado di affrontare.
Una madre patologicamente ossessionata dalla paura che al figlioletto potesse accadere un grave incidente o trasmettersi una pericolosa malattia – e che quindi lo tormentava con premure eccessive ed esagerati divieti – si dibatteva essa stessa tra pensieri coatti e fantasie di morte e catastrofe che nascondevano un desiderio incestuoso molto forte. Se avesse dovuto prendere coscienza di ciò all’improvviso e senza una adeguata preparazione, avrebbe potuto crollare psichicamente. Cosa che non sarebbe necessariamente avvenuta se le si fosse dato modo e tempo di capire come quella dell’incesto sia una pulsione che esiste in tutte le persone “normali” e che può essere gestita o sublimata all’interno di un armonioso rapporto sociale e familiare. La cautela dello psicoanalista evidentemente si impone, in casi come questo, anche se non sempre è sufficiente ad evitare che il desiderio rimosso esploda clamorosamente esprimendosi in un sogno in cui i meccanismi di censura non abbiano fornito una “mascheratura” censoria adeguata.

Un maturo e serio dirigente industriale con moglie e due figli cominciò a trascurare il proprio lavoro a cui aveva dedicato con passione tutta la vita e nel quale, a costo di grandi sacrifici, era riuscito ad ottenere lusinghieri successi che gli avevano consentito una considerevole agiatezza. Aveva incominciato a sentirsi pervaso da una sottile depressione che lo coglieva soprattutto in ufficio; era colpito da crisi di pianto apparentemente immotivate. Il lavoro analitico prese un ritmo subito abbastanza rapido e preciso che gli permise di ripercorrere la propria vita e prendere coscienza delle reali motivazioni di alcune scelte su cui non aveva mai riflettuto. In parte si riprese e migliorò il rapporto con la famiglia e con l’ambiente di lavoro, rapporti che si erano piuttosto deteriorati a causa della sua patologia. Le crisi di pianto, nel chiuso del suo ufficio, l’ ansia e la depressione, sebbene controllate, però continuavano. L’uomo era credente, di una schietta religiosità, serena ed apparentemente equilibrata, che però mal si accordava con certi segnali provenienti da sogni e lapsus in cui si rivelavano pulsioni sessuali difficilmente in accordo con la sua morale religiosa. Il lavoro dovette subire un’ interruzione piuttosto lunga, per una mia assenza, in occasione di un viaggio di lavoro, al ritorno dal quale fui raggiunto da una sua telefonata in cui mi chiedeva con urgenza di incontrarlo. Quando mi fu davanti lo trovai depresso, ansioso e soprattutto rabbioso nei miei confronti. Mi raccontò subito un sogno: era venuto nel mio studio, dove io stavo al mio posto, vestito con un abito rosso da cardinale che però – mi disse con astio – mi copriva soltanto fino all’ombelico, lasciando nudo il resto e ben in vista il mio membro in stato di erezione. Lui si era avventato su di quello con la bocca e, grazie al cielo, il sogno si era interrotto lì. Con rabbia mi disse che non aveva iniziato l’ analisi per diventare omosessuale come sembrava fosse mia intenzione di farlo diventare. Associò il rosso dell’abito cardinalizio al diavolo che io incarnavo ora per lui e se ne andò sbattendo la porta. Come mai l’analisi non era riuscita a prevedere che le pulsioni omosessuali rimosse stavano per esplodere? Perché non ero intervenuto per tempo? La frustrazione del sentimento di onnipotenza dell’analista mi faceva soffrire. Ma allo stesso tempo intuivo che, liberato da me e dall’ansia che la preoccupazione di nascondersi rendeva opprimente, avrebbe attraversato un periodo di euforia che lo avrebbe aiutato, dapprima, e che poi la depressione sarebbe ritornata. Tornò a chiamarmi, mi raccontò come tutto fosse avvenuto come previsto e che il colorito depressivo era più opprimente che mai. Di quel vecchio sogno ora sorrideva, ma di lì potemmo riprendere il lavoro fino ad una conclusione soddisfacente.

4. Se da un canto è vero che spesso il l sintomo nasconde, una fantasia che fa paura e piacere allo stesso tempo -, d’altra parte è altrettanto vero che, in molti casi, dopo la cosiddetta “presa di coscienza” il sintomo pur tuttavia rimane: come se fosse stato travalicato dalla stessa guarigione, il cui processo avanza, senza che questo intacchi la persistenza del sintomo stesso, che pure è ormai chiarito nei suoi significati.

Un giovanotto dal passato alquanto movimentato dal punto di vista psichico, con rischio, in fase adolescenziale, di vera e propria psicosi grave e un precedente di ricovero in ospedale psichiatrico, mi arrivò un giorno in analisi con sintomi apparentemente non gravi tra i quali, in particolare, una fobia accentuata per gli uccelli. La qual cosa, tra l’altro, lo metteva particolarmente a disagio quando veniva a Roma – notoriamente, e specialmente in alcuni quartieri – affollata di piccioni, da cui fuggiva e da cui si difendeva portando sempre un grande cappello che avrebbe dovuto proteggerlo. La vista e l’odore del pollame nei negozi lo disgustava fino a farlo vomitare. La sua vita sessuale era intensa: la sua bellezza e un certo fascino gli assicuravano il successo con le donne. Ammetteva di provare un certa attrazione
per gente del suo stesso sesso, ma la cosa lo terrorizzava Non fu difficile arrivare a fargli mettere in rapporto la sua paura dell’omosessualità con la sua fobia per i pennuti e fu possibile anche riderci su. Grazie ad un lavoro analitico condotto con la sua collaborazione la paura dell’omosessualità fu abbastanza presto vinta, tanto che giunse ad avere occasionali rapporti omosessuali che lo lasciarono imperturbato. Più avanti superò anche l’idiosincrasia alimentare e giunse ad assaggiare carne di pollo senza particolare disgusto. Fece persino a meno del cappello.
Quello che però non riusciva a vincere era la paura per i pennuti vivi. Se, come era chiaro anche per lui, il meccanismo associativo tra gli uccelli e la virilità era stato smontato, perché persisteva la fobia?
Non si riesce di fatto talvolta a spiegare quelli che sembrano puri e semplici automatismi psichici che persistono e sopravvivono ad ogni trattamento psiconalitico. Insistere in questi casi diventerebbe vero e proprio “accanimento terapeutico” con nessun vantaggio per il paziente. Perché il fine della psicoanalisi non è in alcun obiettivo che non sia quella forma di serenità che accompagna, in chi vi ricorre, una sufficiente accettazione di se stesso e del mondo.

5. Non trova dunque la felicità ogni persona che abbia avuto esperienza personale della psicoanalisi? Probabilmente nessuna forma di terapia riesce a procurare la felicità; ma è certo che la psicoanalisi riesce a trasmettere una visione di se stessi e degli altri libera dagli schemi della banalità quotidiana. Forse per questo il giudizio che se ne dà oscilla tra il disprezzo di quelli che se ne difendono perché la temono e l’esaltazione di quelli che credono di realizzare per suo mezzo
deliri di potenza. È vero che chi “ha fatto analisi” si sente trasformato ed in parte anche liberato da alcuni aspetti meschini dell’esistenza; se riesce anche a non cadere vittima della propria presunzione – che non appartiene alla psicoanalisi in sé, ma M suoi cattivi fruitori – ha buone possibilità di partire con un più ridotto carico di pregiudizi alla ricerca di quella felicità che ogni persona lecitamente si attende di riuscire, sia pure con fatica, a raggiungere.