Psicoanalisi contro n. 17 – Oltre il telefono azzurro

febbraio , 1997

Una notte, ascoltando una radio privata, mi accadde di sentire la telefonata di un ragazzo ventisettenne di nome Federico, dalla bella voce, leggermente malinconica, venata di ansia. Iniziò invitando i giovani a stare in guardia dai preti: con la voce rotta dall’emozione raccontò poi della seduzione di cui era stato oggetto da parte di un sacerdote, che durante un campeggio estivo, cinque anni prima, lo aveva indotto ad avere rapporti sessuali con lui. Il conduttore della trasmissione intervenne per esprimere tutto il suo sdegno per un comportamento così scandaloso, bollando con parole pesanti quell’uomo di chiesa che aveva approfittato del suo ascendente per circuire quello che era ancora un ragazzo. Non si rendeva conto, nell’enfasi, che stava rischiando il ridicolo con 1′esagerazione della sprovvedutezza e dell’incapacità di gestirsi di un ventiduenne. Il dubbio che a me si affacciò alla mente fu su quale dei due avesse in realtà sedotto l’altro, visto che non c’era stata violenza. Se è vero che un sacerdote non può permettersi di agire sessualmente in spregio all’obbligo di castità, anche il ragazzo aveva responsabilità precise sulle proprie scelte in materia sessuale. Nella seduzione sessuale il gioco è sempre complesso e difficilmente unidirezionale.

Quello che mi rattristò soprattutto fu però la violenza con cui si condannava in trasmissione un prete che forse era stato travolto dal desiderio e il modo in cui quel ragazzo sembrava negare e forse rinnegare ogni sua partecipazione attiva in un gesto che pure aveva coinvolto due persone adulte, responsabili di se stesse. La stessa debolezza di una volontà turbata dal desiderio, dall’una e dall’altra parte, non era presa neppure in considerazione da un conduttore qualunquista ancor più che moralista, preso a istigare nell’uditorio la morbosità e lo spirito di condanna; ma forse quello era il suo ruolo in tale sede.
La riflessione che suscitava in me quello che andavo ascoltando era che troppo spesso ci si appaga di giudicare le azioni degli esseri umani, mettendo tutto il bene da una parte e tutto il male dall’ altra: il prete era diventato in poche battute un diavolo tentatore ed il ragazzo la vittima innocente. I lupi che si travestono da agnelli abbondano tra i preti come tra i laici; ma spesso anche un prete può essere vittima della sua debolezza o dell’astuzia di un giovinetto ben consapevole del proprio potere di seduzione. Come uomo e come terapeuta ritengo che nel dibattito sarebbe stato giusto almeno porre la questione, forse così si sarebbe impedito ad un maturo giovinotto di continuare a crogiolarsi nel suo vittimismo e lo si sarebbe magari costretto ad assumersi maggiormente la responsabilità dei propri atti. Si dovrebbe essere meno inclini ad accusare di plagio chi ha la sola colpa di essere travolto da un sentimento o da una passione, né più né meno della sua presunta vittima.

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Il termine “plagio” deriva dal latino, dove stava a designare nel diritto romano un ben preciso reato:
quello di chi si appropriava fisicamente della persona di un libero, riducendolo in schiavitù, o chi rubava uno schiavo; in seguito, tra gli altri significati, ha assunto anche quello che definisce il comportamento di chi riduce in proprio potere una persona mettendola in stato di soggezione e costringendola con la violenza psicologica a fare qualcosa contro la sua volontà; comportamento che il diritto penale italiano fino al 1981 riteneva punibile dalla legge (art.603 c. P.). La norma fu considerata poi illegittima dalla Corte Costituzionale ed abrogata con una decisione che senz’altro considero illuminata. In passato questa accusa era lanciata a pensatori e Maestri che svolgevano opera di educazione o di proselitismo, ma non trovavano il consenso del sistema politico sociale dominante e dei quali si diceva plagiassero i giovani o le folle per il proprio personale interesse o a danno del bene pubblico.
Il plagio è un problema etico delicatissimo di gestione dei rapporti, quando si ha a che fare con minori o persone non completamente in grado di decidere per se stesse, perché incapaci o non libere; tuttavia è grottesco pretendere che possa venire codificata dalla giurisprudenza un’ipotesi di plagio, quando riguardi i rapporti tra persone maggiorenni, ugualmente capaci e libere di scegliere.
Da Socrate in poi, l’accusa di plagio è stata strumentalmente usata da chi ha visto in pericolo le basi della propria tirannia a causa della capacità di alcune personalità dotate di eccezionale carisma di fare proseliti, di avere seguaci fedeli anche in opposizione al potere politico, culturale e religioso, dominante. Poco ha mutato nell’opinione corrente dei perbenisti il fatto che il reato, in molti Paesi, non sia più contemplato dal codice penale: tuttora permane infatti una pesante condanna morale contro chi è ritenuto un seduttore del corpo o dell’anima. Questo pone spesso in una strana posizione di irregolarità rispetto al contesto sociale, quei pensatori, scienziati o artisti, che per coerenza ritengono doveroso cercare di diffondere le verità in cui credono e si sforzano di praticare una vita coerente con i loro principi.
“La mia libertà termina dove incomincia quella dell’altro” è un principio che l’Illuminismo aveva fatto proprio e che fa appello al rispetto reciproco ed alla tolleranza che devono uniformare il comportamento di tutti.

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Indubbiamente, la messa in discussione delle opinioni sembra a prima vista sorgere proprio da un’esigenza di pluralismo democratico; ma spesso si trasforma in veicolo di oscurantismo se non addirittura di prevaricazione. Questo valeva nelle assemblee pubbliche dell’antica Grecia e di Roma e vale tuttora. Oggi è evidentissimo però come la nostra società abbia fatto della discussione uno strumento di intolleranza e di superficialità di giudizio, in nome di una pseudo-democrazia. Di fatto la discussione è un esercizio di brutale violenza che il detentore momentaneo del potere (sia esso il moderatore di un convegno, il conduttore di una trasmissione radiotelevisiva, chi controlla faziosamente l’uso degli strumenti tecnici, il leader, la star o la stessa maggioranza dei partecipanti) agisce contro uno o più interlocutori che non sono messi in condizione di esprimere in piena libertà il loro pensiero attraverso mille forme di censura, diretta ed indiretta, che condizionano la libertà del dibattito.
Tutto finisce per ridursi ad una cacofonia che annulla le voci privandole di significato. Il dibattito delle idee si trasforma in disordine che lascia il potere a chi ce l’ha già e finge solo di metterlo in discussione.
In realtà si inizia a non ascoltare già in famiglia: figli e genitori, marito e moglie, fratelli e sorelle non si ascoltano e preferiscono il litigio alla comprensione. Fuori dall’ambito familiare non ci si ascolta: in discoteca come allo stadio, preferendo ricorrere direttamente alla droga e alla violenza. La musica assordante che viene imposta annulla ogni possibilità di ragionamento e manda in strada automobilisti in stato di stordimento tale che rappresentano un pericolo per sé e per gli altri. La società civile non può sussistere senza un’armonia generale che tenga conto anche delle voci del dissenso e sappia inglobarle nel suo contesto complessivo. I giovani non vogliono parlare davvero perché non ne sono più capaci e l’uomo si porta dietro questo handicap in tutte le sedi del dibattito, completamente dimenticando il diritto alla “libertà dell’ altro”.
Non è solo moralismo quello che mi spinge a fare questa critica alla società contemporanea, dal momento che si producono ogni giorni danni psicologici profondi che impediscono ai più deboli di condurre una vita accettabile, al riparo dalla violenza dei più forti. La paura domina incontrastata nell’anima di tutti, ma essa è figlia di quella noia e di quell’ indifferenza che hanno spinto gli uomini a perdere ogni interesse per la persona dell’altro e per le sue ragioni. Il branco si forma per predisporre difese più adeguate, si riconosce per segni di uguaglianza soltanto esteriori: abbigliamento, linguaggio, musiche, rituali che devono nascondere il vuoto di interessi ed ingannare la noia. Il terapeuta conosce la disperazione di chi precipita nella droga per vincere una noia alla quale non è in grado di porre rimedio null’altro, neppure la sessualità sfrenatamente agita, ma svuotata di ogni possibile significato di relazione con l’altro; e la droga è il “buco” assoluto, il vuoto divenuto realtà, la morte prima della morte.

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La nostra civiltà si trasforma in una società globale all’insegna della cultura di morte e non stupisce che, in questo contesto, la prima aggressione alla vita sia quella verso chi è appena concepito.
Che l’aborto sia rivendicato da uomini e donne come segno di libertà assoluta, che trova nell’omicidio senza punizione l’esaltante conferma dell’egoismo, è un segno della disperazione generale che cerca vittime e non interlocutori.
L’ipocrisia induce però, da un lato, quegli stessi che incoraggiano l’aborto, a reprimere, dall’altro lato, ogni segno di amore, tra le persone sospettandovi il plagio, non rendendosi conto che nel caso dell’interruzione volontaria di gravidanza si commette invece proprio quel reato di chi prevarica talmente il diritto a vivere di un altro uomo, da deciderne la soppressione, senza che questi abbia commesso colpa alcuna che non sia quella di essere stato concepito senza averlo neppure chiesto.
Quale boia eseguirebbe a cuor sereno tale sentenza? La donna deve avere pienezza di diritti, in questa come in ogni società. Compreso il diritto di vedere tutelata e difesa non solo la vita, ma la propria integrità fisica e psichica, ma gli stessi diritti vanno riconosciuti al concepito fin dal primo istante. Non è sufficiente aver istituito “telefono azzurro”: vanno difese la vita e l’integrità anche dell’embrione, se si vuole che cambi davvero l’attuale prospettiva di morte, a vantaggio di una cultura della vita. Vita che qualunque strumento diagnostico di monitorizzazione moderno, fino all’ecografia e oltre, è in grado di documentare, alla faccia di qualunque oscurantismo medievale di principio che asserisca il contrario. Non si può permettere il plagio che giunge all’uccisione nei confronti di chi dimostra così efficacemente la propria natura di persona psicofisica completa fin dal concepimento. Tocca alla scienza il dovere di dare all’embrione quella voce che ai bambini ha dato il “telefono azzurro”!