Psicoanalisi contro n. 11 – Nuova psicoanalisi nuova sessualità (IV parte)

giugno , 1996

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Sandro Gindro su dignità del minore e trattamento psichiatrico, tenuto al meeting internazionale del 25 maggio, che ha avuto luogo a Roma.

Il meeting è il primo di una serie di tre incontri volti a esplorare difficoltà cliniche ed etiche nel trattamento psichiatrico dei minori.

La serie di tre meeting è inserita in un progetto europeo, promosso e finanziato dalla Comunità Europea, finalizzato alla produzione di materiale didattico per clinici su problematiche clinico- bioetiche.

Nella legislazione dei paesi occidentali è precisata l’età prescritta per l’emancipazione giuridica dei cittadini, definita come maggiore età, in cui l’individuo assume la piena responsabilità e la pienezza dei diritti nei confronti dello stato.

In Italia questa data — da poco tempo a questa parte — è quella del compimento del diciottesimo anno; mentre prima era del ventunesimo. Prima Oancora dell’unità politica del nostro paese questa età variava da stato a stato. Inoltre la nostra legislazione prevede tappe di emancipazione parziale che precedono quella completa e definitiva dei diciotto anni e che stabiliscono diritti e doveri del minore. Va detto per inciso che il minore va considerato tale anche nei nove mesi che precedono la sua nascita anagrafica, in cui è ospitato nel grembo della madre, in cui gli deve essere riconosciuta la piena dignità di essere umano. Le leggi però, non sempre concordano con la scienza, il senso comune e con le usanze. Esemplare è l’atteggiamento verso l’embrione e il feto: la scienza oggi è in grado di dimostrare a sufficienza la pienezza di vita relativamente autonoma del bambino nel ventre materno; la legge invece non gli riconosce dignità umana tanto che sancisce la liceità della sua soppressione fino a novanta giorni dal concepimento (legge n. 194 del 22 maggio 1978), incurante del fatto che una consistente percentuale di cittadini la pensi diversamente e consideri quella soppressione un omicidio. La psichiatria infantile, tuttora assestata su posizioni molto antiquate, ipotizza che neppure il neonato abbia capacità proprie di esprimere bisogni e desideri, al di fuori di quei moti istintivi da cui sarebbe assolutamente assente ogni contenuto di coscienza: “Nel neonato non esiste il pensiero come attività psichica autonoma dall’attività sensoriale; il neonato è vicino ai meccanismi neurofisiologici più che a quelli ncuropsicologici”. (Cazzullo, 1993, pag. 1303) Lo stesso pensa un grande psicopedagogista: Jean Piaget, che molto ha contribuito al progresso della psicologia infantile, anche se con il peso della sua autorità ha imposto alcune affermazioni scorrette che hanno finito per far prevalere una lettura deformante e parziale dell’età dello sviluppo, per lo scienziato svizzero, l’intelligenza del neonato al primo stadio non è che: “…un insieme di strutture spazio-temporali e causali. In mancanza di linguaggio e funzione simbolica, queste costruzioni si effettuano sulla base esclusiva delle percezioni e dei movimenti, dunque per mezzo di una coordinazione senso-motoria delle azioni senza l’intervento della rappresentazione e del pensiero”. (Piaget-Inhelder, 1966, trad. it. 1970, pag. 14) Persino uno scienziato di indirizzo psicoanalitico quale René Spitz non esita a dire che la “…soglia elevata protegge il bambino dalle stimolazioni dell’ambiente nelle prime settimane, anzi nei primi mesi” — tanto che — “Si può affermare che in questo periodo per il neonato non esiste un mondo esterno. A questo stadio, ogni percezione è legata alla funzione dei sistemi enterocettivi….” (Spitz. 1958, trad. 1962, pag. 17). Secondo altri l’essere umano raggiungerebbe la propria completezza, solo quando si appropria dell’uso della parola, che sarebbe il segnale della raggiunta autoconsapevolezza e della capacità di conoscenza riflessiva. Affermazioni queste tutte scorrette sia dal punto di vista logico, sia da quello sperimentale: quando si può dire che il linguaggio è completamente formato? Quando la coscienza diventa cosciente di se stessa? Se, come è provato oggi sperimentalmente, l’essere umano già nel ventre materno è in grado di apprendere alcuni contenuti e di dimostrarlo, se già nell’utero la mimica facciale esprime sentimenti di piacere o dispiacere, come si può dire che allo stesso tempo non vi sia consapevolezza alcuna? Il fatto è che permane l’errato atteggiamento autocentrico di indagine dell’antichità per cui gli adulti studiano il bambino ricercando quello che vogliono ritrovare in se stessi. Se è pur vero che la psiche umana non può prescindere anche nella ricerca scientifica dal meccanismo di proiezione-identificazione; tuttavia un’eccessiva indulgenza a questo meccanismo rischia di far passare una lettura del mondo reale troppo simile a quella delirante dello psicotico. Cerchiamo quindi di affrontare il problema della situazione del minore nella nostra società, considerando quanto di necessariamente proiettivo ci sarà nel nostro tentativo di lettura e lasciamo il dovuto spazio alle osservazioni sperimentali meno suscettibili di soggettivismo e pregiudizi sul neonato, il bambino e l’adolescente.

Lessere umano, dal primo istante dopo il concepimento ha diritto al pieno riconoscimento della sua dignità. La parola di origine latina (dignitas) esprime il concetto di rispetto di sé e degli altri che deve essere proprio di ogni uomo; rispetto che bene è formulato dalla morale kantiana nella frase: “Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e negli altri sempre come fine e mai come semplice mezzo.”

Sono parole fortemente evocatrici oltre le quali non è possibile andare e che tuttavia rischiano di essere ancora ambigue. La chiarezza illuministica kantiana blocca qui la presunzione della mente umana.

Tre sono gli assunti fondamentali che bisogna accettare se si vuole sperare di abbozzare almeno in parte uno schema di comportamento terapeutico nei confronti del minore: il primo è che la vita umana inizia al momento del concepimento e termina con la morte; il secondo è che dall’embrione, al bambino e all’adolescente non ci troviamo in presenza di adulti imperfetti; ma davanti ad individui che in quella fase della loro vita realizzano in atto e non in potenza il loro dover essere (realizzazione che può essere ostacolata o pregiudicata da fattori patologici); terzo assunto fondamentale è che non si deve pensare al minore con cui si entra in relazione come se questi fosse il rappresentante provvisorio dell’adulto di domani e che pertanto si deve operare per il suo bene presente e non solo in vista di quello futuro. Purtroppo, soprattutto nei primi anni di vita, l’interpretazione dei bisogni e dei desideri del minore è difficile; ma non si può negare che già l’embrione nel ventre materno ha capacità sufficienti di esplicitare le sue intenzioni.

Oggi possiamo fondatamente prendere come punto di riferimento un ramo specifico della scienza definito come “psichiatria fetale”. È questo un approccio all’individuo che permette non solo di scoprire precocemente i disturbi eventuali del sistema nervoso, ma anche riesce a leggere le modalità attraverso cui la psiche (completa di coscienza ed inconscio) si sta strutturando nei primi nove mesi. Come dice M. Soulé : “Gli uomini hanno da sempre immaginato, inventato e costruito intorno al mistero della vita fetale. La psicobiologia definisce ormai scientificamente le capacità e le condizioni in cui si. svolge la vita del feto.” (Soulé, 1992) Si potrebbe aggiungere che ormai è venuto il tempo della psicoterapia fetale, e addirittura della psicoanalisi fetale; infatti si può inter-agire con l’embrione anche a livello della psiche, con vere e proprie procedure terapeutiche che partono dall’intervento che si può operare sull’ambiente fetale, attraverso l’aiuto dato alla madre, e vanno fino all’intervento diretto sul figlio.

Questa nuova realtà rimane ambigua per il legislatore il quale conosce molto poco in proposito ed ha conseguentemente un campo d’azione limitato. La madre, l’ambiente, il gruppo e le équipe terapeutiche hanno idee relativamente più chiare, ma spesso l’ambivalenza dei sentimenti crea disorientamento nel rapporto col bambino.

Fino a pochi decenni fa, al momento del parto, il bambino che veniva alla luce era un assoluto sconosciuto per tutti, eccetto che per la madre che lo aveva potuto percepire per i segnali diretti provenienti dal proprio ventre che avevano dato il colore alle fantasie — anche pericolose — di quei nove mesi su di sé e sul figlio. Per gli altri si trattava di un estraneo. Oggi, al contrario, le moderne tecniche di indagine sono già sufficienti a far sì che il bambino che nasce abbia tratti di famigliarità: l’ecografia (tra poco sarà possibile anche quella tridimensionale) lo mostra a tutti in piena attività vitale, le indagini cliniche e le analisi sulle sue cellule, sui geni e sugli organi ed apparati, hanno già dato informazioni sul suo stato di salute. Questa realtà ha mutato radicalmente anche l’immaginario della madre e del gruppo sul nascituro. Le antiche sedimentazioni arcaiche ovviamente permangono, occultate nell’inconscio sociale e faranno sentire il loro peso, ma a tutti è possibile rivolgersi al neonato come ad un individuo non più sconosciuto. Il che rende il rapporto della triade padre, madre, neonato per un verso più sereno, per l’altro più complesso e contraddittorio. Mater semper certa, parer incertus recitava il vecchio adagio latino e quindi era fondamentale e sufficiente a un tempo il rapporto di fiducia tra i coniugi per dare al padre la certezza che il figlio fosse il suo. Oggi è possibile scoprire oggettivamente la paternità e questa novità è destinata col tempo a modificare l’atteggiamento paterno e del gruppo verso la madre e il bambino. Lacan sosteneva che la legge data al figlio è quella del padre che ne è il rappresentante simbolico, ma in realtà la prima legge al figlio viene dalla madre o da chi ne esercita simbolicamente e realmente le funzioni: uno sguardo, un contatto condizionano la risposta del bambino (feto o neonato) che non è per niente chiuso nel narcisismo autocentrico ed autoerotico che la psicoanalisi freudiana teorizzava, ma che è anzi aperto al mondo quasi senza riserve.

La baby ohservation è una tecnica di indagine psicologica che ci ha permesso di conoscere molto del rapporto madre-bambino, nei primi mesi dopo il parto. Molte cause dell’insorgenza di autismo o di psicosi simbiotica si nascondono nelle pieghe di questo rapporto; l’eziologia dell’autismo in particolare poi risale addirittura a problemi insorti nel periodo gestazionale.

Il padre finora in questa fase è stato in disparte, sia per i condizionamenti sociali, sia per le attitudini specifiche. Oggi però avviene che anche il padre si inserisca in quello che fino a ieri era solo un rapporto diadico, con effetti negativi e positivi ad un tempo; in quanto la madre può percepire questa novità come un’ulteriore espropriazione di cui forse può essere considerato segnale la persistente depressione post partum; ma d’altro canto questa novità sottrae il bambino alle costrizioni del rapporto simbiotico. Di fatto, la parziale espropriazione della madre e l’inserzione della figura del padre garantiscono un recupero dell’individualità del bambino e permettono allo psicoterapeuta perinatale di operare al fine di mettere se stesso e la coppia genitoriale consapevolmente dalla parte del bambino, di cui ci si propone — dopo averne compreso il linguaggio specifico — di conoscere ed alleviare i possibili disagi.

I bambino intorno ai tre anni (età dell’insorgere del complesso di Edipo, secondo S. Freud, contraddetto in seguito da molti psicoanalisti che lo collocano in età precedente) affronta un particolare momento della sua vita psichica, emozionale e sessuale. L’osservazione clinica permette di stabilire che la pulsione sessuale non aumenta, ma mentre prima era diretta verso l’ambiente in modo piuttosto generalizzato, in questo momento si focalizza sul corpo degli adulti. Verso i sei anni Freud ipotizzava l’instaurarsi di un cosiddetto periodo di “latenza” che avrebbe dovuto segnare una specie di eclisse della pulsione sessuale che durerebbe fino all’inizio della pubertà. Questo è assolutamente falso: chiunque abbia osservato clinicamente la sessualità infantile potrà confermare che nessun bambino perde motivazioni sessuali in quell’età, anzi l’intensità dell’attività è evidente; è vero per contro che è questo il periodo in cui più frequentemente si notano ansia e manifestazione di tendenze psicotiche, dovute non solo a turbe sessuali o a problemi nel superamento dell’Edipo, ma anche in modo considerevole alle incomprensioni dell’ambiente; soprattutto dei genitori che non accettano l’espropriazione e pretendono il controllo stretto della sessualità dei figli.

In questa fase, la coppia genitoriale si manifesta come l’entità meno capace di capire i reali bisogni e desideri del bambino.

Del resto il venire meno della solidarietà della coppia, o addirittura l’eventualità di separazione o divorzio mettono il bambino alla mercé di aggressioni violente dell’ambiente, spesso operate proprio in nome delle entità giuridiche preposte alla sua tutela ed ai procedimenti conseguenti in cui i bambini diventano merce di scambio, strumenti di vendetta e di ricatto delle passioni dei genitori. È importantissimo che proprio in queste situazioni chi interviene con funzione arbitrale o terapeutica abbia davvero l’intenzione di mettersi dal punto di vista del bambino e voglia fare solo il suo bene, ascoltandolo e recependone le istanze, meglio di quanto possano fare il padre e la madre. Il fatto è che gli adulti non si rendono conto di essere stati vittime di una castrazione che — a partire dall’adolescenza — li ha costretti dentro la cosiddetta logica aristotelica, privandoli della capacità di comprendere quella molto più ricca dell’infanzia, in cui ancora non si è instaurata la tirannia del principio di non contraddizione. Non è vero per il bambino che A non può essere allo stesso tempo anche B. Egli è in grado: “di

padroneggiare più logiche, con tutto il loro alternarsi ed avvicendarsi di astrazioni, polidirezionalità, stratificazioni significanti, deduzioni ed induzioni; egli sa senz’altro manovrare e manipolare molteplici simboli con facilità, perché fin da subito è in grado di rappresentare.” (Gindro, 1993, pag. 67).

Anche lo psicoterapeuta — psichiatra o psicoanalista — corre lo stesso rischio di espropriare il bambino se gli impone la sua opinione di bene; per questo conviene che ad intervenire non sia un solo operatore, ma che egli abbia un supervisore o faccia riferimento ad un gruppo articolato. Anche così si va incontro agli inconvenienti dei meccanismi farraginosi che caratterizzano le nostre strutture sociali; ma è inevitabile che ciò avvenga se si vuole sperare di rispettare al grado massimo la dignità del bambino: nell’impossibilità di fare il bene si deve scegliere di fare il minor male possibile.

Aparte le modificazioni ormonali, endocrine, fisiologiche — che accompagnano tutta la vita dell’uomo e non sono peculiari solo dell’infanzia e dell’adolescenza, se pure in queste due fasi sembrano particolarmente ricche e vivaci — vi sono gravi disagi psichici che possono nascere proprio in questo periodo: depressione, schizofrenia, asocialità, solipsismo psicotico. Non è poi assolutamente vero che la psicosi non possa insediarsi nelle strutture psichiche ancora in formazione. Si è visto quanto sia importante invece la diagnosi precoce di molte malattie psichiatriche anche ereditarie o genetiche. L’adulto oggi è convinto di comprendere meglio il minore, dopo che questi ha raggiunto la maturazione sessuale, e si uniforma agli atteggiamenti dominanti del gruppo sociale di cui fa parte e comunica con maggior facilità con un individuo che ormai dimostra di accettare il principio unificante di non contraddizione della logica aristotelica. Questo è un impoverimento, molto vicino a quello imposto dall’etnocentrismo dominante alle culture “altre”.

Da ciò derivano molti inconvenienti delle legislazioni in materia sessuale, nel campo dell’autodeterminazione in generale e in campo medico in particolare. In caso di grave conflitto tra il minore, i genitori, il gruppo e il terapeuta si accentua il peso del controllo esercitato da chi ha dalla sua parte l’autorità giuridica, il che si risolve per lo più in uno scontro tra l’autorità tutelare degli uni e quella terapeutica degli altri, a scapito del soggetto direttamente interessato, il cui parere non viene preso spesso in considerazione o addirittura viene combattuto quanto più pare fondato ed autodeterminato. Più grave è il disagio psichico più è probabile che la depressione o il delirio del giovane vengano affidati per delega dei genitori al terapeuta. A volte però c’è il tentativo di negare fino all’ultimo la malattia per ragioni di decenza, di orgoglio o di opportunità. Addirittura poi avviene che il miglioramento delle condizioni cliniche del figlio induca i genitori e il gruppo famigliare a negarlo, per meglio mantenere il potere di controllo sulla persona, cosa che lo stato di malattia non permetteva di mettere in discussione.

Il meccanismo che appare più evidente è quello di una reciproca e continua espropriazione di chi fino ad oggi ha sempre ritenuto di poter esercitare incontrastato il diritto di proprietà sul minore: i genitori anzi tutto, poi i giudici, i medici, il gruppo e via dicendo. Anche se le leggi oggi si stanno lentamente orientando in favore dell’autodeterminazione del minore, di fatto nell’inconscio sociale permane la convinzione che esso sia proprietà di chi lo ha messo al mondo, in particolare, e degli adulti in generale.

Allo stato attuale è preferibile “espropriare” completamente i genitori, piuttosto che prevaricare il minore. Sarebbe ovviamente auspicabile la collaborazione tra genitori e terapeuta; ma talvolta la mancanza di collaborazione permette al ragazzo e al terapeuta di recuperare una loro autonomia di rapporto, utile alla cura. La dignità del minore è tutelata e rispettata al meglio quando coincide con l’accettazione dei suoi desideri e dei suoi bisogni — tanto più auspicabile sarebbe se questa accettazione prescindesse anche dalla comprensione o meno della loro natura, ma questo aprirebbe altri orizzonti di riflessione—anche se in contrasto con quelli delle altre parti in causa. Tanto più auspicabile sarebbe che questa accettazione prescindesse anche dalla comprensione o meno della natura dei medesimi.

Questo è difficile da realizzarsi nel nostro contesto culturale in cui per definizione i genitori sono i meno disposti al rispetto e alla comprensione dell’autodeterminazione e della dignità dei figli. Oggi bisogna avere il coraggio di espropriare quegli espropriatori per eccellenza del minore : i suoi genitori.