Psicoanalisi contro n. 10 – Nuova psicoanalisi nuova sessualità (III parte)

maggio , 1996

Nell’ambito della proposta della nuova psicoanalisi ci pare opportuno inserire a questo punto della trattazione due documenti che indicano praticamente l’azione che può essere svolta sul campo in una prospettiva di intervento diretto nelle questioni più urgenti, che in questo caso riguardano il mondo giovanile e dell’educazione interculturale. Si tratta di due interventi di Sandro Gindro, tenuti a Bologna e a Firenze nel mese di maggio 1996.

10 dicembre 1948 l’ON.U. promulgava la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. C’erano stati accordi preliminari già nel 1942 e nel 1945, quando a S.Francisco i Paesi firmatari della carta delle Nazioni Unite si erano trovati d’accordo nel porre tra i loro obiettivi il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questa era la reazione dei paesi vincitori del conflitto alle aberrazioni totalitaristiche che si erano conosciute ai tempi della seconda guerra mondiale. Prima però di questi pronunciamenti in epoca moderna già nel 1789 l’Assemblea Nazionale Francese aveva fatta propria la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e prima ancora le ex colonie del Nord America, ribellatesi al dominio inglese, nel 1776, avevano enunciato i loro Bills of Rights. Tutte queste dichiarazioni nascevano in un ambito filosofico e politico giusnaturalistico e liberale che si articolava però su due differenti posizioni: una, strettamente giusnaturalistica, che riteneva tali diritti naturali e spettanti universalmente a tutti gli uomini; l’altra che li riteneva invece diritti soggettivi concessi ai cittadini dalla sovranità dello stato; il contrattualismo segnò la strada intermedia che vide nella costituzione, strumento di mediazione tra il cittadino e il potere, l’ente garante di tali diritti. L’O.N.U. accettava il principio giusnaturalista stabilendo che alcuni diritti e libertà sono universalmente validi per tutti gli uomini e non possono essere conculcati da nessun potere. In particolare essi sono: il diritto alla tutela dell’esistenza individuale (contro l’uccisione, la mutilazione, la tortura, la schiavitù, la privazione della libertà giuridica, di coscienza, di religione); il diritto alla sicurezza contro i bisogni (lavoro, salario, casa, cure, istruzione); il diritto all’eguaglianza (contro ogni discriminazione di sesso, razza, religione, lingua, opinioni); diritti che i Paesi firmatari si impegnavano in special modo a promuovere e difendere. Putroppo è rimasta questa una petizione di principio continuamente contraddetta dai fatti.

In effetti il cosiddetto relativismo culturale che pure ha avuto il grande merito di affermare che gli altri vanno giudicati sempre e solo da un punto di vista soggettivo, mettendosi al loro posto e non dal punto di vista di chi giudica, ha lavorato attivamente contro la validità del principio del giusnaturalismo universalistico. Levi Strauss in una dichiarazione all’UNESCO pubblicata nel 1952 affermava: ” Le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno, anch’esse, la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in una umanità astratta, ma in culture tradizionali, in cui i mutamenti più rivoluzionari lasciano sussistere intere zone e si spiegano a loro volta in funzione di una situazione strettamente definita nel tempo e nello spazio. Preso fra la duplice tentazione di condannare esperienze che lo urtano sul piano affettivo, e di negare differenze che non comprende intellettualmente, l’uomo moderno si è abbandonato a cento speculazioni filosofiche e sociologiche per stabilire vani compromessi fra questi poli contraddittori, e rendere conto della diversità delle culture pur cercando di sopprimere quanto tale diversità conservava per lui di scandaloso e di urtante”.

Se però il principio giusnaturalistico è facilmente sostenibile quando si tratta di argomenti come la schiavitù o altri principi che la morale dei più ha fatto propri, diventa molto più difficile applicarlo nei casi particolari in cui si viene a creare un conflitto tra l’inconscio sociale di popoli diversi per cultura e tradizione, messi a stretto contatto nella società multiculturale. Come affrontare il problema del rispetto della diversità delle culture nei Paesi fortemente caratterizzati dai flussi migratori come è ormai il caso dell’Italia, dove confluiscono popoli provenienti da cieli diversi? Come poi armonizzare questo rispetto con il problema dell’integrazione, in particolar modo dei figli della seconda generazione che frequentano le nostre scuole a piena parità di diritti e di doveri?

Al di là delle generalizzazioni, per fare un esempio concreto, oggi si pone un problema che riguarda molte comunità somale che vivono nel nostro Paese e che si trovano nella condizione di dovere scegliere se sottoporre le loro bambine in età precocissima alla infibulazione rituale, pratica che contraddice il principio del rispetto dell’integrità del corpo umano sancita da tutti i Paesi dell’ON.U, in quanto ritenuta una mutilazione dell’organo sessuale femminile: come rispondere a chi invece la ritiene un diritto sancito dal costume, in assenza della quale proprio la femminilità viene svalutata in quell’ambito culturale, con gravi conseguenze per lo svolgimento della successiva vita sessuale ed affettiva?

Per di più se si constringe tale pratica alla clandestinità si rischia che avvenga in condizioni igienico-sanitarie assolutamente non garantite!

Come legittimamente aspettarsi che certe tradizioni “barbariche” vengano superate dal progresso della “civiltà”, senza rischiare di sopraffare razzisticamente i popoli diversi da noi? Anche la nostra cultura conosce abitudini aberranti che sono diventate rituali moderni, come la violenza degli stadi calcistici, la ghettizzazione dei diversi, l’emarginazione degli anziani, le stragi da “sballo” in discoteca. La funzione della scuola potrebbe essere fondamentale al fine del superamento di queste contraddizioni: prima di tutto non nascondendole. Come l’educazione sessuale non può consistere nel puro e semplice racconto della fisiologia della riproduzione e dell’atto sessuale, ma deve essere educazione al rapporto amoroso, così il problema del rapporto con gli altri deve essere affrontato in modo globale fornendo a tutti la possibilità di riconoscere anzitutto le diversità di cui ciascuno di noi è portatore, e solo in seguito attraverso il riconoscimento della diversità di cui sono portatori gli altri. Il secondo passo è quello di scoprire insieme come proprio le diversità siano gli elementi,dinanaici ed in continuo divenire, che permettono la costituzione dell’identità di ciascuno, nell’uguaglianza di tutti che passa necessariamente attraverso il riconoscimento delle differenze di ciascuno. Questo perché è importante superare non tanto la paura del diverso, ma la paura del simile. In realtà ciascuno di noi ha paura di riconoscersi simile a quei portatori di diversità solo apparenti che i condizionamenti culturali ci hanno abituato a disprezzare e considerare inferiori. Capire che usi e costumi diversi non sono in contraddizione col principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini, ma sono anzi un elemento della ricchezza universale dell’essere umano, permette di apprezzarli come valori positivi che ci possono arricchire. Alla luce di questa certezza si può allora affrontare il dibattito sulle scelte da operare, senza cadere nel rischio del qualunquismo di un relativismo culturale acritico, ma appropriandosi anzi di questa possibilità di mettersi anche dal punto di vista degli “altri”.

Stereotipo ( dal greco stereo, di origine indoeuropea = duro, rigido ) e pregiudizio (dal latino prae = pre e iudicium = giudizio, giudizio anticipato) hanno una connotazione negativa: pensare per stereotipi e giudicare con pregiudizi significa affrontare i problemi della conoscenza della realtà in modo rigido: atteggiamento immorale e poco giustificabile scientificamente.

Per un altro verso però proprio la scienza ha bisogno degli stereotipi e dei pregiudizi per poter procedere. Lo stereotipo costituisce infatti il modello di base che diviene poi manipolabile ed analizzabile; il pregiudizio dal canto suo è il fondamento su cui poggiare il giudizio che si va ad esprimere: ogni ricerca deve partire da un punto dato; non sarebbe infatti possibile progredire se si dovesse sempre ricostituire ogni volta tutti i processi che ci hanno portato al punto da cui partiamo.

L’importante è che stereotipi e pregiudizi non imprigionino l’oggetto della ricerca e non siano espressione di rigidità del ricercatore, che deve mettersi sempre anche dal punto di vista degli altri, pronto a smantellare gli stereotipi e a capovolgere i pregiudizi che troverà infondati.

Nell’inconscio sociale della nostra cultura, il minore, non solo il giovane straniero, è imprigionato in una rete di stereotipi e pregiudizi. Minore può essere un bambino di due anni, ma minori sono pure uno di sei, un ragazzino di dodici, uno di sedici anni, che pure sono individui molto diversi gli uni dagli altri e ogni scienziato, psicologo, pedagogista, antropologo, sociologo o giurista che si pongano loro di fronte, deve giudicarli con categorie specifiche e osservarli con strumenti diversi.

La psicòanalisi freudiana e il senso comune, considerano il bambino dei primissimi anni chiuso in se stesso, in un narcisismo autocentrico; e questa convinzione rimane ancora dopo che gli studi della moderna psicologia hanno dimostrato la poca fondatezza di questa ipotesi.

Il senso comune – in opposizione al pensiero psicoanalitico – insiste inoltre nel considerare il bambino fino ai cinque-sei anni un essere fondamentalmente buono, sincero, spontaneo, puro privo di pulsioni sessuali.

Per quanto sia discutibile il concetto di purezza, in ogni caso è certo che nel bambino la sessualità è presente in modo massiccio fin da subito; ugualmente è capace di mentire, di aggredire e di agire per calcolo.

Allo stesso modo il senso comune considera pre­adolescenti ed adolescenti individui generosi ed idealisti, ma ciò non risulta essere purtroppo vero, se si considera tutto quello che di violento accade nel microcosmo giovanile, per non parlare della criminalità vera e propria.

Risulta insomma che l’inconscio sociale è nei confronti dei minori fortemente influenzato da stereotipi e pregiudizi che bisogna combattere se si vuole provare a conoscere la realtà dei ragazzi che ci stanno intorno, immigrati e no.

Il minore non deve neppure essere considerato solo come l’adulto di domani: egli ha una sua propria dignità individuale e specifica ed ha il diritto di essere considerato un interlocutore responsabile a tutti gli effetti.

Peggio ancora è considerarlo un adulto imperfetto. Oggi molti ragazzi sono arrivati nelle nostre città e nei nostri paesi da altre terre, a volte molto lontane; oppure sono nati qui da genitori stranieri, ma anche loro vengono per lo più inglobati in quegli schemi pregiudizi stereotipati che vengono applicati a chi qui è nato e ha qui anche le sue radici più o meno remote.

Il nostro gruppo sociale opprime gli uni e gli altri, salvo esasperare in alcuni casi gli stereotipi nei confronti dei bambini non autoctoni: così si attribuiscono loro particolari doti di spontaneità piuttosto che di educazione, di freschezza anziché cultura, di furbizia piuttosto che di intelligenza e 15 così via. Un’indagine svolta su centocinquanta adolescenti stranieri o figli di stranieri delle scuole medie inferiori di Roma, su centocinquanta romani, e cinquanta insegnanti, permette di rilevare di primo acchito alcuni dati significativi.

ragazzini stranieri e gli italiani sono simili gli uni agli altri e tali sembrano considerarsi, senza che appaia un razzismo evidente.

Un esame più approfondito degli stessi dati però mette in evidenza due elementi abbastanza sorprendenti che caratterizzano i giovani stranieri: la presunzione e la nostalgia; mentre nei romani stranamente appare la stessa inclinazione alla nostalgia (che quindi sembra essere una caratteristica legata al momento evolutivo), traspare nei confronti dei nuovi compagni una chiara diffidenza.

Gli insegnanti risultano nei confronti dei due gruppi ugualmente prigionieri degli stereotipi e dei pregiudizi di cui sopra: da cui si vede quanto possa essere utile un lavoro di introspezione di impostazione psicoanalitica che permetta di chiarire sopprattutto a loro stessi le ragioni di questi condizionamenti generalizzati e di quanto influiscano sul comportamento professionale; stereotipi e pregiudizi che è inutile negare, ma che bisogna riconoscere e combattere.