Psicoanalisi contro n. 8 – Nuova psicoanalisi nuova sessualità (I parte)

marzo , 1996

Quest’ultimo scorcio del Ventesimo secolo ha assunto nei confronti della psicoanalisi due atteggiamenti principali: il primo è di svalutazione non solo della psicoanalisi freudiana, ma di tutte le grandi scuole di psicologia dinamica (Jung, Adler, Reich, Lacan e via dicendo). Il crollo della domanda di terapia è stato impressionante ovunque: in Europa, negli Stati Uniti e in Sud America. Da una situazione generalizzata in cui tutti facevano psicoanalisi (anche gli animali domestici sono stati portati sul lettino dello psicoanalista), si è giunti ad una fase di noia per la terapia psicoanalitica. È vero che la crisi riguarda tutti i settori della medicina allopatica tradizionale mentre si va alla ricerca di nuovi metodi di cura, di farmaci che si basino su principi diversi da quello dell’antagonismo alla malattia, di tecniche esoteriche di intervento; ma fa in ogni modo impressione rilevare la dimensione del fenomeno di disaffezione che ha colpito in particolare la terapia proposta dalle grandi scuole della psicodinamica. Il secondo atteggiamento fa sì che oggi il mondo scientifico e culturale veda nella psicoanalisi un punto di riferimento acquisito. Il Novecento senza la psicoanalisi non avrebbe senso e soprattutto ci si rende conto che senza di essa mancherebbe una lettura fondamentale dei significati della nostra società e del nostro esistere individuale e di gruppo. Anche i mezzi di comunicazione di massa non possono farne a meno: senza sentire il parere dello psicoanalista non si fanno inchieste, non si discute di politica, né di arte.

Questo modo di considerare il mondo e il singolo individuo ha una sua peculiarità ed ha saputo guadagnarsi un prestigio che non si può più misconoscere. Se da punto di vista terapeutico quindi la psicoanalisi ha stancato, la psiconalisi come espressione culturale, invece, è una voce che viene sempre più ascoltata quando si vuole che il dibattito sia ampio ed approfondito. Ciò è in parte comprensibile ed in parte resta un mistero.

Vale oggi forse la pena di capire come la psicoanalisi stessa abbia giustificato il suo ruolo nella società contemporanea ed in base a quali criteri abbia proposto una sua particolare forma di terapia.

Guardiamo per un momento quello che ci dice la storia della scienza. Il Cinquecento ha conosciuto la rivoluzione copernicana, seguita poi dalle teorizzazioni di Galileo Galilei sulla struttura dell’universo, sul rapporo tra la terra, il sole e gli altri pianeti, con la sua celebre frase che parafrasava quella di Lutero: “Qui sto fermo”, seguita dal pronunciamento: “Eppur si muove!” Non toglie nulla al significato della rivoluzione copernicana il fatto che la stessa teoria eliocentrica fosse già stata enunciata in modo molto chiaro ed esplicito da Aristarco di Samo, nel 300 a.C. circa, la cui opera andò perduta, salvo qualche frammento tramandatoci da Archimede, il quale tra l’altro ebbe il torto di non capirne il significato.

Un famoso psicoanalista freudiano statunitense: Lawrence Friedman (L. Friedman, 1978, Anatomia della psicoterapia, Boringhieri, Torino 1988) ha tentato con un certo acume di trovare una collocazione precisa della psicoanalisi all’interno della varie psicoterapie ed anche di cogliere le peculiarità della teoria psicoanalitica. Secondo lui alcuni hanno voluto caratterizzare la psicoanalisi per le sue tecniche applicative (libere associazioni, interpretazione dei sogni, analisi del transfert), mentre altri hanno invece voluto cogliere la sua essenza nell’obiettivo che essa si pone: cioè quello di modificare il carattere, al fine di rendere più felice la vita delle persone. Friedman soggiunge che la tecnica in sé non ha caratteristiche così peculiari e, d’altro canto, tentare di modificare il carattere è un fine troppo presuntuoso per una cura. Secondo l’autore americano la peculiarità della psicoanalisi sta invece proprio nella teoria della psiche che essa è stata in grado di formulare, una teoria così organica e completa quale nessun’ altra scienza è riuscita ad elaborare.

Quello però che stupisce di Friedman e che egli non parli quasi mai dell’inconscio, che pure, per uno psicoanalista, deve essere un postulato. In tutta la sua opera “Anatomia della psicoterapia” infatti il termine inconscio viene citato solo due volte. Qui egli scopre le sue carte e può venire a sua volta psicoanaliticamente interpretato: la sua è infatti una rimozione.

Quando egli afferma che è un luogo comune dire che la psicoanalisi ha scoperto l’inconscio con ciò intende che non è più il caso di parlarne, di affrontarlo direttamente. Per giustificare la sua presa di posizione aggiunge poi che già Ellenberger (Ellenberger H. F. 1970, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1976) ha dimostrato come la cultura occidentale, e non soltanto, abbia da sempre saputo della presenza dell’inconscio. Quindi non sarebbe più il caso di attribuire questa scoperta in particolare alla psicoanalisi.

Come dobbiamo a Copernico il significato storico della teoria che metteva il sole e non la terra al centro dell’universo, così dobbiamo alla psicoanalisi che l’inconscio abbia assunto il significato che ha avuto negli ultimi cent’anni, pur senza ignorare che l’arte ne aveva già fatto un uso analogo. Magistrale (per fare un esempio tanto illustre quanto chiaro) è l’uso che Shakespeare ne fa nel Macbeth con lady Macbeth che – dopo il delitto – ossessivamente si lava le mani che lei continua allucinatoriamente a vedere bagnate di sangue; vera e propria rappresentazione del tipico rituale ossessivo di chi si lava di un sentimento inconscio di colpa.

Questa scena è veramente un piccolo saggio di osservazione psicoanalitica:

“Medico: – E adesso che fa? Guardate come si strofina le mani.

Dama: È un suo atto abituale, il gesto di lavarsi le mani. L’ho vista insistere anche per un quarto d’ora. Lady Macbeth: – C’è ancora la macchia.

Medico: – Sssst! Parla: – Voglio seguire attentamente quello che le esce dalle labbra per fissarmene meglio il ricordo.

Lady Macbeth: – Via, maledetta macchia! Via, ho detto! Una: – due: – è l’ora. L’inferno è buio. Vergogna, mio signore, vergogna! Un soldato che ha paura! Che paura c’è ad avere che si scopra, se nessuno può chiamarci a renderne conto? Però, chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse dentro tanto sangue?

Medico: – Sentite?

Lady Macbeth: – Il Tane di Fife aveva una moglie; dov’è ora? Ah, queste mie mani non saranno mai pulite? Basta, mio signore, ora basta. Guasterete tutto con questi sussulti.

Medico: – Andate via! Avete sentito quello che non avreste mai dovuto sentire.

Lady Macbeth: – Sanno ancora di sangue. Non basteranno tutti i balsami d’Arabia a profumare questa piccola mano. Oh!oh!oh!”

(W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena I . Trad. Cesare Vico Lodovici, Einaudi, 1980)

Dire quindi che l’essenza della psicoanalisi non sta nella scoperta dell’inconscio, perché da sempre si è saputo della sua esistenza è una sciocchezza. Non è però una sciocchezza gratuita, perché dimostra che l’inconscio è scomodo, anche per chi lo manovra, anche per gli psicoanalisti.

In tutta la storia del pensiero psicoanalitico si è cercato di negare l’inconscio. Ci sono coloro i quali hanno tentato di sfuggirvi andando oltre l’inconscio, con osservazioni valide come quelle di W. Reich (Reich W. 1933, Analisi del carattere, Sugarco, Milano, 1973), che lo radica nel biologico; oppure le teorie di Deleuze e Guattari (Deleuze G. — Guattari F. 1972, L’ami- Edipo, Einaudi, Torino, 1975) che hanno ridicolizzato la psicoanalisi tradizionale, prigioniera di poche formule ripetute sul triangolo edipico. Se alcuni hanno esplicitamente negato l’inconscio, molti altri hanno preferito tenerlo, con un po’ di imbarazzo, come un vecchio sovrano detronizzato che ancora vive nel suo palazzo, ma non ha più potere.

Emblematica è la posizione in merito di Sandor Rado (Rado S. 1959-’66, La nevrosi ossessiva, in Arieti S., a cura di, Manuale di Psichiatria, Boringhieri, Torino, 1969), il quale dice che bisogna interessarsi della coscienza, perché è l’Io che ci serve ad incidere nel mondo e quindi che lo psicoanalista deve parlare alla coscienza, mentre l’inconscio è il luogo del rimosso che deve essere lasciato dove sta.

La psicologia dell’lo da Anna Freud (Freud A. 1936, L’Io e i meccanismi di difesa, in Opere, Boringhieri 1972, vol. I) in poi sposta l’interesse dall’Es all’Io, il quale metterebbe in atto le sue difese per difendersi dalle pulsioni e dagli istinti. In realtà è la società borghese, che la Freud esprime, che ha paura dell’inconscio. Per Hartmann (Hartmann H. 1964, Saggi sulla psicologia dell’Io, Boringhieri, Torino, 1976) l’inconscio esiste, ma non interessa lavorarci su perchè è qualcosa di incontrollabile.

Gli psicologi dell’lo sono portavoce della società americana del loro tempo, alla quale interessa soprattutto l’integrazione dell’individuo nel tessuto produttivo.

A questo fine l’inconscio disturba, perché destruttura e sconvolge parametri ormai consolidati, costituendo un intralcio al processo di formazione di cittadini efficienti, sani e sufficientemente cretini che sappiano inserirsi nel mondo quale è, senza spiriti di ribellione, non solo economica, ma neppure culturale e religiosa. L’ipotesi dell’inconscio era diventata come un sasso lanciato in uno stagno di acqua putrida ma tranquilla. L’ultima frontiera di questo discorso che nega l’inconscio può essere considerata la psicologia del Sé di Kohut (Kohut H. 1961, Narcisismo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino, 1976), la cui teorizzazione è però così oscura che sorge il dubbio di trovarsi di fronte a un cumulo di banalità, ben camuffata. Questa è la matrice fino agli anni Settanta da cui sorge il pensiero psicoanalitico di oggi.