Psicoanalisi contro n.1 – La diagnosi e la persona (Sezione seconda)

maggio , 1993

II.1 LA MITICA FAMIGLIA

Il bambino inizia la sua esistenza ben pri­ma di venire alla luce; possiamo dire: dall’incontro, nel ventre della madre, dei due gameti, i quali però sono già a loro vol­ta ricchi dell’esperienza che deriva dal ri­spettivo corredo genetico. La nascita è uno dei momenti più importanti della vita, ma non necessariamente il più importaste: questo dipenderà dalla storia di ognuno. Perciò non credo agli oroscopi, sebbene creda nell’influenza degli astri; perché l’oroscopo è una diagnosi truffaldina che fissa arbitrariamente il momento della na­scita anagrafica, come l’inizio della vita in­dividuale.

Torniamo ora al bambino: egli imme­diatamente si apre al rapporto col mondo. Io non credo nel narcisismo originario: non è vero che, il feto prima e il neonato dopo, siano chiusi nella loro esperienza soggettiva; anzi sono profonda­mente convinto che siano entrambi aperti alla relazione con l’altro. Attraverso una serie di meccanismi fisiologici intrauterini, oltre che manipolazioni e messaggi dal­l’esterno, quell’essere, che prima chiamia­mo embrione, poi feto e poi bambino, ab­bandona, fin da subito, il proprio isola­mento. Io sono sicuro che l’essere umano accumula,  già dal ventre materno, un patri­monio di esperienze. Eppure, in apparenza, questo patrimonio pare perduto. Perché?

Chi ha un bambino di un paio d’anni si accorge di quanto egli sia capace di ricordare, con eccezionali esibizioni di memoria, fatti di cinque o sei mesi prima. Più tardi, però, non resta traccia alcuna di quanto è accaduto nei primi due anni di vita, che sembrano dimentica­ti. Ciò è vero solo in apparenza e si spiega col fatto che il bambino fatica ad acquisire il senso del tempo: egli vive soprattutto nel presente ed è dominato da esso. Per ragio­ni fisiologiche e psichiche è infatti caratte­rizzato da una estrema labilità, che gli im­pedisce di fissare i ricordi in una succes­sione temporale e di dare loro una struttu­ra. Solo lentamente, il tempo acquisirà poi per lui la caratteristica di movimento dal passato verso il presente e il futuro.

Il bambino diviene col tempo, se ne appro­pria, e, insieme con il tempo, si appropria anche dello spazio. Quando tende la mano ed indica gli oggetti, ovvero li riconosce, mette in atto una elaborazione personale dei due concetti di spazio e di tempo. Indi­care implica, per il bambino, percepire l’oggetto desiderato come lontano da sé spazio-temporalmente: “Io indico quell’og­getto che desidero, ma che è lontano, per­ché impiega tempo a percorrere lo spazio che lo separa da me e dal soddisfacimento del mio desiderio. Io quindi tendo le brac­cia oppure vado verso di esso: mi muovo nello spazio per andare, nel tempo, verso l’altro.” Così il bambino impara a deside­rare e a vedere procrastinato il soddisfaci­mento del proprio desiderio, prima che pos­sa realizzarsi, nello spazio e nel tempo.

Dopo aver imparato a collocare l’altro nel tempo e nello spazio, il bambino passa a domandare: “Cosa è quello?” I bambini non domandano mai “se” una cosa c’è, se quel cavallo esiste, ma domandano che cosa quel cavallo è. Potremmo dire, con Rosmini, che, nel bambino il concetto di “essere” è innato, mentre il concetto sii “non essere” forse non verrà acquisito neanche dall’adulto e resterà una bizzarria filosofica. L’uomo  tutt’al più riesce ad im­maginare l’ “essere diversamente”, ma non il non essere. Successivamente, inizia per il bambino l’epoca dei “perché?” Una richiesta continua ed ossessiva, che però nasconde qualcos’altro, oltre al desiderio di far arrabbiare i genitori.

A questo punto, egli ha compreso il significato della diagnosi: “il tempo, lo spazio, la cosa e il perché”. Contemporaneamente egli assimila i precetti morali (che non sono altro che la modulazione dei desideri nel tempo: alcuni verranno soddisfatti, altri procrastinati, altri rifiutati). Incomincia la dialettica tra il “devi fare” e il “non devi fare”. Con l’uso organizzato del linguaggio sopravviene poi il tempo del “nome delle cose”, con il quale si instaura un gioco che non si fermerà più.

Anche “madre” è una parola, che è il coa­gulato di una descrizione e che esprime una diagnosi. “Madre” non vuol dire soltanto: “colei che ha partorito”; ma implica tutta una serie di definizioni che hanno un si­gnificato culturale. Ogni donna avrà un suo modo di essere madre e di trasmettere que­sto significato. Le donne diventano madri non quando partoriscono, ma quando, an­cora bambine, si trovano ad avere in mano una bambola; già da allora, infatti, si pre­parano ad un modo ben preciso di essere madri. Sbagliando, la nostra cultura dice ancora oggi quello che diceva anticamente, cioè che la donna ha il grande privilegio (o la grande condanna) di  “generare”, confondendo questo termine con “partorire”. La  donna, come ben sappiamo, non genera e non ha più parte dell’uomo nella generazione. Nella specie umana, la femmina e il maschio, insieme, generano. La donna è prima una gestante e poi una partoriente. Questo ha un significato ben preciso, che risulta evidente dalla considerazione che si ha per quel ventre che per nove mesi è gonfio di una vita altra da sé. Dalla bambola al ventre gonfio, al modo in cui crederà di “recitare” il proprio ruolo quando manipolerà il suo bambino, ogni donna avrà un diverso modo di essere madre e di trasmettere questo significato. Esiste “quella madre” perché c’è stata “quella bambola”. Le bambole cambiano nel tempo e con esse cambia il concetto di ma­dre e quello di figlio.

Il maschietto non viene invece educato a diventare padre, attraverso un giocattolo emblematico, che equivalga alla bambola. Tutt’al più gli si parla del padre e dei padri e gli si prefigura la possibilità di diventare un giorno a sua volta padre. Indirettamen­te trova in giochi come quello del marito e della moglie la possibilità di immaginarsi un futuro ruolo paterno. Il maschietto si trova a costruire la capanna o casetta in cui fa abitare i figli immaginari e la compagna di giochi che recita il ruolo della sposa. Il suo interesse è però concentrato su altri giochi, di avventura, di prestanza fisica, di lotta e di guerra. Le fiabe e le rappresenta­zioni teatrali e cinematografiche sono gli strumenti privilegiati sui quali si forma l’idea che i bambini si fanno dei loro futu­ri ruoli. Al maschio viene presentata un’im­magine del padre con cui identificarsi e su cui proiettare sogni e fantasie, anche ses­suali; su cui pure sfogare aggressività e de­sideri di morte; ma, in ogni caso, quasi mai esplicitamente gli vengono date indicazio­ni sul modo di prepararsi a quello che do­vrà essere anche il suo ruolo. Troppi padri si sottraggono ad una partecipazione attiva all’educazione e ancora oggi, dopo il con­cepimento, abbandonano quasi completa­mente la cura e il pensiero dei figli alla ma­dre e alle altre eventuali donne di casa, su­bendo senza saperlo un’ulteriore castrazio­ne, che riguarda loro, ma anche i figli ma­schi. Freud dice che il bambino che la don­na ha partorito è per lei un sostituto del fal­lo che non ha. La mia esperienza clinica mi conferma che spessissimo i maschi perce­piscono questa appropriazione del figlio da parte della donna come castrazione supina­mente accettata. I tribunali, nelle cause di separazione tra coniugi, affidano quasi sempre i figli alla madre, an­che per la pigrizia e la vigliaccheria dei padri. È recente la figura del padre che lotta per affermare il suo diritto alla cura del figlio. È un diritto che gli compete. Pur­troppo gli stereotipi del padre e della ma­dre imperano nell’inconscio sociale ed in­dividuale: il triangolo edipico (o il poligo­no) continua ancora ad agire sulla rappre­sentazione famigliare. Non tutto è sempli­ce come aveva creduto Freud o come cre­dono troppi teorici sociali della famiglia. Ancora oggi, però, la convenzionale im­magine persiste dando sicurezza, da una parte, in quanto costituisce punto di riferi­mento collaudato, e confermando dall’altra una povertà di schemi affettivi. Per fortuna non s’è persa l’eco degli antichi miti e la storia di Edipo e di Giocasta si intreccia con quella di Eteocle e Polinice, Ismene ed Antigone e la rappresentazione non si ferma. Questo frammentario tentativo di diagnosi dei ruoli di padre, di madre e di fi­glio che ho qui esposto è l’inizio di una se­rie di diagnosi che cercherò di esporre in seguito, ma so bene che l’inizio non è sta­to né il padre né la madre.

II.2. LONTANO DA EROS

La follia è una presenza costante; il linguaggio stesso ne esprime la quotidiana realtà: “ma sei pazzo!” è un modo di dire, un intercalare consueto. Pazzo deriva dal latino “patiens” = che soffre; matto dal tardo latino “mastus” = ubriaco; folle, ancora dal latino “folis” = pallone pieno di vento. Una convinzione che è maturata in me, affrontando clinicamente il campo della follia, è quella che non abbia senso la distinzione comunemente operata dai trattati di psichiatria quando distinguono tra psicosi funzionale, in cui sarebbero disturbate le funzioni psichiche, senza che sia evidenziabile un’alterazione organica, e psicosi con base organica, in cui è evidente una lesione o un’alterazione del sistema nervoso. Credo che questa divisione sia meto­clologicamente scorretta, in quanto tutte le affezioni della psiche hanno a mio avviso un riscontro organico. Non credo che la psiche sia qualcosa di staccato dal corpo, sono in­vece convinto che esista una realtà unica, somatopsichica, che io definisco “persona”, alla quale deve essere riferita ogni modifi­cazione del comportamento. Per questo non sono contrario, per principio, all’uso dei farmaci e anche degli psicofarmaci. Il tipo di intervento farmacologico estremamente mirato sulla persona deve comunque sol­tanto essere un momento dell’azione tera­peutica. Ho detto che la psicosi si instaura quando si sovrappongono e si chiudono le due difese fondamentali, al punto che non è neppure più possibile distinguere se siamo in presenza di una struttura prevalentemen­te sadomasochistica oppure narcisistica. Chi ha avuto a che fare con i cosiddetti “pazzi” si sarà accorto che i deliri e le allu­cinazioni si sostituiscono alla realtà, ten­tando di abolirla narcisisticamente e nello stesso tempo di distruggerla sadomasochisticamente. Il mondo è diventato pieno di fantasmi, Eros è troppo lontano, anche se non del tutto assente.

Le difese in quanto tali hanno la funzione di difendere dalla relazione con l’altro, al limite persino con noi stessi. Ogni relazio­ne si mette in opera necessariamente in uno spazio ed in un tempo. Nelle psicosi i rap­porti temporali risultano molto più distorti di quanto già normalmente avvenga. Lo psicotico percepisce i fantasmi del proprio passato come se fossero presenti e reali: è qui ed immagina di non essere qui, vive oggi e si pensa in un lontano allora. Ricor­do una ricoverata in ospedale psichiatrico che “andava indietro” di cinque giorni.

La psicosi si esprime fondamentalmente attraverso due moduli: la depressio­ne e la mania; tutte le altre pseudo-classificazioni (isteria, schizofrenia, etc:) sono solo storielline piene di contraddizioni. La depressione è forse la forma più grave di malattia mentale: significa infatti sprofondare in una condizione di negazio­ne del mondo e della stessa vita. Prodromi di questa situazione possono essere sintomi di patofobia o addirittura di ipocondria. Una importante caratteristica del depresso è la profonda disistima di sé, la tendenza ad autoaccusarsi. La depressione è a mio giu­dizio una parodia della morte, che può condurre alla condizione di arresto psicomoto­rio e all’immobilità del catatonico, che sembra morto senza esserlo, che vuole pen­sarsi morto senza riuscirci davvero perché la morte non è un concetto rappresentabile dalla mente dell’uomo vivente. Nonostante le apparenze, la depressione non è una for­ma soltanto sadomasochistica, anche se esprime molto masochismo con l’esaspera­to gusto per la propria sofferenza e molto sadismo per la enorme capacità di ricatto ché il depresso opera nei confronti degli al­tri. Un ricatto di sadismo infinito perché ri­fiuta ogni risposta, perché disprezza e va­nifica ogni soccorso. L’aspetto narcisistico della depressione si esprime con la concen-trazione sul proprio corpo che genera dapprima la condizione di patofobia, e poi con il delirio di corruzione del proprio or­ganismo, tipico dell’ipocondria.

La mania è invece un modo di reagire, opposto a quello autosvalutante della depressione: ci si esalta fantasticando di essere .grandi personaggi (non solo Napoleone), ci si illude di essere al centro dell’interesse universale, per lo più con forme di delirio persecutorio. Anche la mania ha la doppia modalità: narcisistica – il maniaco è interessato soltanto a se stesso – o sadomasochistica, nel gusto di essere persecutore o di credersi perseguitato. La paura della follia è una tra le più diffuse e può esprimersi con uno stato di sottile e permanente angoscia, oppure con un’esplosione di fobia. Molti arrivano dal­lo psicoterapeuta proprio per sfuggire a questa paura che li attanaglia e che assume a volte contorni terrificanti inducendo com­portamenti che disturbano la vita quotidia­na. La mente è disorientata,le idee sfuggo­no di testa, la memoria non c’è più; a vol­te si giunge al tenore di compiere gesti in­consulti. La paura della follia nasconde an­che sottili desideri. In ogni caso posso dire che la paura della follia non è necessaria­mente un prodromo della follia stessa: solo una parte di coloro che hanno questa pau­ra rischia davvero la follia.

II.3. IL GIUDIZIO SOCIALE

Quando dico che non esiste per me diffe­renza sostanziale tra psicosi funzionale e psicosi con cause organiche non voglio ov­viamente negare che queste ultime possano essere riscontrate, solo che non mutano la natura della psicosi in sé, che è sempre un disturbo della persona. Inoltre agiscono come cause determinanti della follia i giudizi del gruppo sociale. La storia di una follia è sempre quella di una persona, del suo rapporto con la società e l’ambiente, ogni volta diversa da ogni altra. La necessità di avere parametri non autorizza però clinici, filosofi e scienziati ad applicare sulle per­sone schemi rigidi di classificazione che sono sempre inadeguati e devianti.

Vorrei portare un esempio di disturbo psi­chico che è una storia personale e, nello stesso tempo, un esempio di quanto agisca il giudizio di una cultura e di un ambiente sociale.

Avevo in analisi un ragazzo che, per ragio­ni di lavoro ed anche per il punto delicato raggiunto dal comune lavoro analitico, de­cise di interrompere l’analisi e di trasferirsi in un’altra città. Prima di opera­re quella che io consideravo come una vera e propria fuga mi chiese di dare il suo posto alla sorella, desiderosa di iniziare un lavoro di psicoanalisi. Sebbene io accetti solo pochissimi pazienti per de­dicarmi con maggior libertà al lavoro di­dattico e teorico, tuttavia decisi di dare alla sorella, che al primo incontro era riuscita a destare in me interesse e simpatia, le ore di lavoro che prima dedicavo al ragazzo. Nel lavoro delle prime sedute venne fuori una personalità sensibile, capace di cogliere il mondo e di lasciarsi penetrare dalle sensa­zioni; coglievo però nel suo modo di per­cepire la realtà qualcosa che mi faceva pau­ra. Mi parlava come se fosse sempre un po­chino lontana da me e dalle cose; era piut­tosto prevedibile nella sua voglia di essere originale: amava l’arte romanica, preferiva la scultura alla pittura, detestava i poeti ro­mantici ai quali preferiva i lirici greci e Dante. Risultava moralmente rigida e persin troppo scrupolosa e corretta. Mi dava un po’ fastidio, ma me ne ero anche inna­morato. Aveva difficoltà notevoli di rap­porto con gli altri, si sentiva depressa e non riusciva più a studiare, frequentava una fa­coltà scientifica che detestava. Aveva fre­quenti dolori alla nuca e alle spalle. In una seduta mi raccontò un sogno che dette una svolta all’analisi. Prima mi disse che ama­va la montagna, ma, curiosamente, le pia­ceva solo salire, mentre la angosciava do­ver intraprendere la discesa, la faceva sta­re male vedere davanti a sé il precipitare delle vallate. La notte precedente aveva ap­punto sognato di trovarsi da sola in monta­gna e di aver dovuto iniziare da sola la di­scesa verso la pianura, ma la paura era di­ventata angoscia che alla fine l’aveva fatta urlare fino a svegliarla.

Mi disse: “Diventerò pazza? Ho tanta paura di diventare pazza.” Quello fu per me un campanello d’allarme. Qualche tempo dopo incominciò con insistenza a chiedermi se io posteggiassi appositamente l’automobile sotto casa sua e poi prese ad insistere chiedendomi cosa volessi significarle facendo ciò, fino a che la cosa si estese rivelando una mania persecutoria accentuata le cui origini potei rintracciare con molta fatica. L’anno precedente aveva avuto un fidanzato, non bello, povero e di poco successo, ma con cui si era trovata bene fino a che la sorel­la non si era messa con un giovane bello e intelligente, aitante e sicuro di sé. Dopo aver per un po’ di tempo umiliato il suo ragazzo tiranneggiandolo e costringendolo a continui confronti con l’altro, decise di lasciarlo, ma la cosa le procurò rimorso. Mesi dopo, in campeggio, fece amicizia con una ragazza molto bella, di cui l’ave­vano colpita soprattutto due enormi orec­chini di plastica bianca che quella indos­sava spesso. Raccontò alla nuova amica la sua fallita storia sentimentale e trovò com­prensione e solidarietà contro il comune nemico identificato nel maschio perfido e meschino, nei confronti del quale si può reagire solo pagandolo con la stessa mo­neta, senza scrupoli di sorta. In realtà quell’apparente solidarietà le fece nascere sentimenti di colpa, perché pareva confer­mare, al di là delle intenzioni, la cattiveria egoistica del suo comportamento. Una sera, sulla spiaggia, fumò insieme con gli altri marijuana e si sentì cogliere dai gran­di interrogativi sull’infinito, le stelle, l’uni­verso e poco a poco montò in lei l’ango­scia accentuata da una spaventosa tachi­cardia. Si sentiva svenire e in lei vortica­vano le domande senza risposta: “Dove fi­nisce l’universo, cos’è lo spazio, chi sono io?” La ragazza con gli orecchini bianchi era china su di lei e lei era impressionata da quel suo viso incorniciato da quella chincaglieria esageratamente grande. Fu necessario l’intervento di un medico. Dopo pochi giorni le giunse la notizia che il ragazzo che aveva lasciato aveva avuto un incidente d’auto. Se ne sentì colpevole tormentandosi per giorni finché una sera provò ancora a fumare “erba” con il risul­tato della volta precedente. Poi crisi di panico vere e proprie incominciarono a scatenarsi senza che lei fumasse. Poco a poco incominciò a pensare che la ragazza dagli orecchini che fingeva di aiutarla fosse in realtà una sua persecu­trice: prese ad odiare lei e la sua mania di prendere il sole a seno scoperto, a odiare le sue mammelle e i suoi orecchini. Tornata a casa credette di sentir raccontare alla radio il suo caso in una trasmissione di cui ero il conduttore. Per questo aveva insistito per venire da me. Il delirio precipitò in un vor­tice in cui io, il fratello, la ragazza con gli orecchini e il fidanzato facevamo parte di un’unica organizzazione, che faceva espe­rimenti su di lei, che le metteva microfoni nascosti ovunque. La famiglia cercò ad un certo punto di allontanarla dall’analisi e la affidò ad uno psichiatra che intervenne con dosi eccessive di psicofarmaci, aggravando la situazione. Per fortuna potei riprendere il lavoro con lei, che per lungo tempo mi identificò col nonno, che l’aveva rifiutata perché femmina e da quel punto proce­demmo. Una storia come un’altra dunque, ma unica nel suo sviluppo, condizionato anche dal giudizio che un gruppo dà sull’essere maschio e femmina, dalla cultu­ra che esalta la droga ed impone l’esibizio­nismo sessuale e via dicendo.

La storia della depressione ha nella nostra cultura radici antichissime: la colpa originaria, il peccato originale, non è un’invenzione della cultura ebraica o del cristianesimo. Nonostante l’avviso opposto di certi grecisti d’accatto, la cultura ellenica aveva in sè questo concetto. Platone lo evidenzia chiaramente nella Apologia di Socrate. L’origine di questo senso di colpa derica va, io credo, ai Greci dal loro tentativo di ribellarsi alla cultura matriarcale che avevano avuto alle spalle. Mentre i Greci si sono sottratti al sentimento della colpa appellandosi al Fato, dal quale non ci si può liberare, ma di cui non si è responsabili, i Cristiani sono invece soggiaciuti al sentimento di colpa, che il depresso vive fino in fondo, fino a desiderare la distruzione di sé. La società moderna ha elaborato due tipi di fantasie reattive per di­fendersi dalla depressione che distrugge la “scienza” e la “religione”. Di questi reattivi sono però permeate anche le for­me più gravi della follia: dalla scienza de­riva la fantasia sui macchinari onnipotenti di controllo del pensiero. Dalla religione derivano le ossessioni diaboliche, le pre­senze invisibili, le possessioni, le persecu­zioni dall’al di là.

Noi non possiamo negare oggi la realtà del­la follia, ma dobbiamo vederla in tutti i suoi aspetti anche di demenza, stupidità, catti­veria, di cui certo sono responsabili anche l’insufficiente mielinizzazione che ingene­ra l’oligofrenia, o l’arteriosclerosi che ristupidisce, ma che coesistono con le ragio­ni sociali e culturali. Questo vale per il ra­gazzetto di sinistra che incomincia a non lavarsi per ragioni ideologiche e poi cade vittima di una catatonia depressiva che lo fa languire nella sporcizia e nel fetore fino alla morte. Per lo scienziato che insegue la sua teoria in solitudine e perde poco a poco il contatto con la realtà affondando in un delirio di carta e di segni senza senso in un padiglione di manicomio. Per la ragazza che è stata terrorizzata da una mammana dalla quale è stata condotta a forza dai pa­renti per un aborto e che ora è da anni ri­coverata col ventre gonfio, da cui attende che nasca Gesù, che non vuole nascere in un mondo così spaventoso. Quali sono i pazzi? Coloro che impongono i comporta­menti o coloro che li subiscono?

Prima si diceva che il pazzo fosse un pos­seduto e non sempre la cosa fu valutata in senso negativo, anzi grande rispetto circondava e circonda gli sciamani siberiani; nella Grecia antica le crisi comiziali erano ritenute segno di predilezione degli dèi; ma anche in forma negativa comunque la pos­sessione è stata a lungo ritenuta causa del­la follia. A partire del Settecento si for­ma la convinzione che la follia sia un vizio o una malattia. Il vizio in par­ticolare può essere curato attraverso la redenzione morale del malato; così gli Il­luministi pensano all’ergoterapia che recu­pera l’individuo alla società. La malattia in­vece libera il pazzo da ogni responsabilità morale e quindi la scienza medica del neo­positivismo borghese affronta lo schizofre­nico con lo stesso spirito con cui affronta il gastritico, trascurando completamente il problema delle cause e del rapporto. tra in­dividuo e società. Questa demenza verrà superata solo dall’antipsichiatria contem­poranea che negherà addirittura la malattia addossando ogni responsabilità alla società, incapace di assorbire e capire la diversità e che anzi ha la colpa di reprimere la libertà che è insita nella follia, tutto ciò trascuran­do completamente la realtà del dolore e della perdita di autonomia di chi affonda nella psicosi. A questa concezione non è estranea un’anima poetico-lettararia che da sempre, in malafede, esalta la poeticità della follia,  per non doversi porre il pro­blema della sua cura.

II.4. UNA PICCOLA LUCE

La follia è dunque una tra le maschera più  inquietanti della  nostra cultura ed è sempre stata considerata, da Ippocrate in poi, come malattia o possessione o colpa, che co­munque domina l’individuò che può esse­re curato, relegato o punito dalla società che se ne deve occupare per guarirlo o per difendersene; il folle è come quasi tutti gli altri malati un oggetto su cui e per cui gli altri decidono.

La psicoanalisi si è ribellata a questa concezione, affermando il principio che la terapia deve necessariamente coinvolgere il malato; la gestione della terapia deve essere comune del terapeuta e del paziente stesso. È il concetto che Freud enuclea progressivamente, dopo aver abbandonato la pratica dell’ipnosi degli inizi proprio perché passivizzava troppo il paziente; anche se egli personal­mente non pensò mai di affrontare con il suo metodo terapeutico le psicosi.

Questa a me pare una svolta di grande si­gnificato. Bisogna rispettare le scelte del malato e non si ha il diritto di guarirlo con la violenza. Tutto ciò però implica una sua partecipazione che può essere letta come una responsabilità o una colpa: torna il pro­blema della libertà di scelta, del libero ar­bitrio, di fronte al quale si trova anche il te­rapeuta. Di fronte ad una concezione, se­condo me giusta, che vede il disturbo psi­chico, contemporaneamente, come una col­pa e come una malattia, il terapeuta deve operare non espropriando il paziente dei suoi diritti, ma coinvolgendolo nella cura. Si tratta di avere l’atteggiamento del “dop­pio come se”. Il terapeuta deve comportar­si come se fossero valide le due ipotesi: deve rispettare il malato, considerandolo capace delle proprie scelte; ma allo stesso tempo deve tenere conto che quella libertà ha subito, a causa di molteplici ragioni: per­sonali, sociali ed ambientali, uno scacco che ha provocato la malattia, che significa anche progressiva perdita della capacità di decidere. Il terapeuta diventa così il filo­sofo che guida il paziente sull strada del­la riappropriazione di se stesso e di un mondo di valori comuni.

Un grave errore di molti psichiatri e psi­cologi è quello di credere che la scoperta delle cause di un disagio psichico signifi­chi aver risolto il problema. Io credo in­vece che questa conoscenza non sia che una piccola luce che contribuisce solo in parte a leggere con più chiarezza la malattia. È invece molto più importante sco­prire come una persona convive con essa e come l’ambiente e il gruppo reagiscono: qui si può radicare una giusta imposta­zione somato-psichica che interessa tutta la medicina e non solo quella a base psicologica. I testi di psicosomatica sbagliano quando dicono per esempio che l’asma deriva da un pianto re­presso, che la gastrite ha origine da uno stato d’ansia, l’ipertensione arteriosa è ge­nerata da un conflitto e così via: la realtà è più complessa e i sintomi si evolvono con la persona e il suo ambiente; le cause e concause sono sempre risultanti di relazioni intersomato-psichiche e sociali per cui non può esistere una tabella delle corri­spondenze tra disturbo organico e causa psichica, data una volta per tutte.

Quello che voglio dire è che non è possibi­le dare parametri diagnostici validi univer­salmente: ogni persona ha una storia irri­petibile che non può essere trascurata; inol­tre troppo spesso l’atteggiamento del tera­peuta determina l’evoluzione della malat­tia, come la determinano la reazione del gruppo sociale e le condizioni ambientali. Un’educazione troppo liberale può ottene­re risposte reattive altrettanto negative quanto  un’educazione repressiva. Un atteg­giamento di emarginazione può determina­re il fissarsi di comportamenti antisociali, ma lo stesso risultato potrebbe avere un at­teggiamento di iper-valutazione, etc.

Ogni persona è frutto di una situazione che precede la sua stessa comparsa sulla terra, perché nasce dall’unione di due semicel­lule, i gameti, frammenti di materia ricchi di cromosomi e di geni che mandano le loro informazioni all’embrione, che si deve adattare all’habitat che trova nel ventre del­la madre, la quale ha le sue caratteristiche individuali, appartiene ad una classe socia­le e vive in un ambiente determinato; la ge­stazione si conduce passando attraverso esperienze di benessere o di malattia, di violenza o di amore, di angoscia o di alle­gria. Quando nasce, l’individuo è già ricco di un’esperienza secolare. Non esistono due persone identiche fin dal conce­pimento e ogni persona è unica nell’eternità.