85 – Maggio ‘92

maggio , 1992

Bosnia e Somalia, Di Pietro e Tangentopoli, Mafia e Borsellino, ma anche Funari e Lady D., Woody Allen e Mia Farrow: l’opinione pubblica ha avuto di che saziarsi di indignazione durante l’estate e mentre le folle si pigiavano in bungalow e chalet, una complessa analisi della situazione politica ed economica diagnosticava per il nostro Paese uno stato di coma dal quale non è detto che si riprenderà, malgrado gli alti prezzi che comunque siamo fin da subito chiamati a pagare. Nonostante tutte le considerazioni di altro genere che si sarebbero potute e si potrebbero fare, pare che l’italiano medio, o almeno l’italiano per il quale scrivono i media, sia soprattutto tormentato dal problema morale, o per meglio dire dal problema dell’ immoralità di tutti gli altri. Il giudice e il politico si accusano reciprocamente e accusano le rispettive istituzioni di degenerazione ed entrambi concordano nel deprecare la corruzione del sistema economico inquinato dalla delinquenza mafiosa. Il mondo culturale depreca la generale disgregazione dei costumi e la prevalenza della società-spettacolo, le punte avanzate della quale con la forza di strumentazioni elettroniche e video-clip denunciano l’ignobilità piccolo borghese ed invocano una trasgressione definitiva e liberatrice. I lavoratori si sentono abbandonati da un sindacalismo inefficace e compromesso col capitale e con le istituzioni. Tutti abbiamo orrore dell’ immoralità dei nostri interlocutori e nessuno si accorge di non avere di fronte altro che specchi variamente e più o meno accidentalmente deformanti di quello che ciascuno è. Né la psicoanalisi, né prima di lei il cristianesimo, né altre scienze od utopie sono riuscite davvero in nessun tempo a migliorare la natura umana; tutto regge allo stesso abietto modo da sempre:

schiavismo, razzismo, violenza, espropriazione ed imbecillità. Persino la stupidità è rimasta sostanzialmente invariata lungo il corso dei secoli, tanto è vero che ridiamo ancora delle turpitudini umane che ci hanno insegnato a riconoscere Aristofane e Plauto. Forse di nuovo c’è solo che data la velocità dei ritmi con cui tutti i meccanismi di comunicazione oggi si sviluppano non abbiamo più nemmeno il tempo di riconoscerci, quando ci vediamo e, quel che è peggio, non sono più aristocratiche élites filosofiche ad additare a tutti con sufficiente consapevolezza le umane miserie, ma siamo noi stessi imbecilli, che dell’ imbecillità nostra inconsapevole facciamo arma, questa sì consapevole, contro gli altri. Chi castiga oggi i costumi, col riso sguaiato della volgarità o con l’altrettanto volgare furibonda ipocrisia è il portatore malato dell’ immoralità contro cui pretende di scagliarsi. La lucidità dell’ autocritica è un bene che più nessuno oggi può permettersi e del resto l’indignazione ha ragioni continue per nascere irrefrenabile. La sola speranza è che ci resti un briciolo di vergogna di noi stessi, quel tanto che basti ad impedirci di seguire tutti i correntoni «lutulenti» che il rimestare continuo nel liquame origina ogni giorno. Accettiamo la scomodità di essere sommessamente «contro» le logiche vincenti ed allo stesso tempo non lasciamo cadere la sfida: prima di tutto alla nostra stupidità, e poi quella della nostra intelligenza. Parlare sommessamente oggi è un dovere, dal momento che il silenzio significa il suicidio, morale e talvolta materiale.