71 – Marzo ‘91

marzo , 1991

Certo ha suscitato clamore lo sbarco degli Albanesi a Brindisi, per le modalità di un «arrembaggio» di massa, al quale le fragili strutture portuali e regionali hanno scricchiolato. Ma resta il fatto che, più o meno, ventimila «pirati» dell’immigrazione selvaggia e disperata non sono, di per sé, una cifra allarmante quanto si è voluto far credere. Dal colabrodo dei controlli di frontiera entrano ogni giorno in Italia alcune migliaia di disperati. La linea Tunisi – Trapani, da sola, getta ogni giorno sulla banchina poco meno di un migliaio di avventurosi, pronti a tutto. Ci sono leggi e regolamenti di polizia che hanno il compito di dare a tutto ciò una parvenza di ordine; ma chi, per fortuna o per disgrazia, resta sul suolo di questo Paese, cosa ci trova? L’alloggio negli alberghi requisiti, il campo-profughi, le tendopoli risultano subito un ‘umiliazione inflitta alla dignità umana, benché costituiscano un ammortizzatore della violenza del mercato della casa. Il lavoro possibile è una forma di accattonaggio o di estorsione in qualche modo violenta. ma affatto insicura. Intorno a queste forme perverse di sopravvivenza si articola poi una frammentazione di generi di assistenza volontaria e benefica, che mantiene inevitabilmente le caratteristiche della cristiana carità o della laica solidarietà, che hanno solo in se stesse la loro ragion d’essere. L’istruzione diventa una necessità, ma rimane l’orecchiamento di una cultura estranea e la rimozione di una storia che bisogna forzatamente rinnegare, per meglio adattarsi, per integrarsi al più presto nelle pieghe più qualunquistiche della cultura dominante. La sfida è la stessa da sempre: i migliori, i più idonei, troveranno la strada del riscatto, e faranno di tutto perché i loro figli non sappiano mai cosa vuoi dire essere «poveri e stranieri»; ma siano felici di un ‘omologazione che sarà tanto meno squallida quanto più confortata dal benessere che solo il denaro può dare. Molto più tardi potrà anche esserci spazio per sentimenti come l’orgoglio o la nostalgia.

Gli italiani conoscono bene questo percorso sulle vie della speranza che il mondo ogni tanto sembra offrire. Per questo fa più impressione il razzismo istintivo con cui si accostano allo straniero, che arriva sui marciapiedi e ai semafori delle città: caritatevoli o sprezzanti, ma comunque radicati in una presunzione di diversità. O forse questo bisogno di sentirsi diversi è un penoso tentativo di riscatto. La paura è infatti di poter rivedere in quei disperati se stessi.

Nessuno vuole riconoscersi viandante su quella stessa strada, venditore di se stesso per un impiego, per una casa, per una posizione tranquilla. Nessuno accetta di essere figlio di un padre che aveva lo stesso odore di miseria che invade l’auto dal finestrino aperto; che riempie una camera di letti sfatti. Bisogna subito stabilire distanze e superiorità: razzismo caritatevole fatto di pasti cattivi e abiti smessi, ma considerati all’altezza di chi è ancora ad un grado così basso di dignità umana. Oppure violenza sbrigativa e sfruttamento di chi non può opporre condizioni. La storia insegna che la ribellione alla miseria dei più vilipesi ha implicato cambiamenti significativi nel nostro mondo; ma la prima reazione di chi si è riscattato è stata sempre di negare il proprio passato, di non volersi riconoscere in chi combatte la stessa battaglia. Benvenuti dunque immigranti di tutto il mondo perché la vostra presenza ci assicura che noi siamo andati ormai lontano!