68 – Dicembre ‘90

dicembre , 1990

Il ristorante Mblo di via della Stelletta 25, si fa subito notare per il nome tanto bizzarro: noi abbiamo tentato di farcene dire l’origine dal sorridente giovane maitre che ci serviva, ma siamo soltanto riusciti a sapere che ha il nome di un analogo ristorante di Fondi, forse della stessa proprietà. Il nome quindi rimane avvolto nel mistero; misterioso invece non è tutto il resto. Ripide scalette conducono ad una suite di ambienti sotterranei, rivestiti di mattoncino e pavimentati di freddo marmo, arredati con sedie tardo stile decò e tavoli bene apparecchiati, ambienti sfavoriti da un’acustica pessima che rende difficile la conversazione; si potrebbe forse ovviarvi con una moquette e qualche tendaggio. Nel complesso noi vi abbiamo trascorso una piacevole serata, anche se siamo costretti a muovere qualche critica. Vogliamo premettere che, considerato il livello del locale, non certo popolare, abbiamo pagato un conto decisamente ragionevole, quasi basso, il che non guasta mai. Il menù è imposto dall’alto e così pure gli abbinamenti. Poiché i farfalloni, almeno a tavola, non sono frigidi e sono disposti a provare qualunque pietanza, la cosa a noi non è dispiaciuta, forse a qualcuno più schizzinoso e nevrotico potrebbe creare qualche problema.
Abbiamo cominciato con l’immancabile spumantino di benvenuto, corretto quanto anodino, e subito dopo, insieme con un Sauvignon di Ronco del Castagneto dell’89, servito poco freddo, ma che rimanendo in ghiaccio ha acquistato presto il suo buon profumo di mandorla e un deciso gusto salato, è arrivato un delizioso foie gras che ci hanno detto essere fatto in casa, con un pan carré che avremmo preferito tostato e caldo e che invece era soffice ma gelido; è seguito un piatto di carne secca, carciofo e spicchi d’arancia dissennato e soprattutto poco propizio al bicchier di vino; la successiva trancia di pesce spada affumicato con asparagi consisteva di eteree fettine e di qualche croccante punta di asparagi (!), dobbiamo dire che ci ha stupito che venisse dopo la carne, poiché malgrado l’affumicatura e la presenza dell’arancia nel piatto precedente avremmo preferito un ordine inverso. Nulla da eccepire sull’ottimo risotto al tartufo con asparagi perfettamente mantecato, ben cotto e armoniosamente profumato. È seguita una proposta di polenta e cacio, con cimette di cavolfiore e puré di broccoli che ci è parsa un esempio di dissociazione di sapori. Decisamente mal cucinato è risultato il girello d’agnello con asparagi (!) e testa di champignon, questa intrisa di acqua amarissima che inzuppava anche la carne bruciacchiata.
C’è una regola dell’armonia che dice: «Non si può mai far ritornare nei punti nodali di una melodia la stessa nota con lo stesso valore armonico, perché ingenera nell’orecchio un senso di stucchevole ripetitività.» La stessa norma deve a maggior ragione valere in cucina: in un menù è un grave errore far ritornare tre volte lo stesso ingrediente (gli asparagi!).
Un altro appunto riguarda i vini: il Sauvignon tenuto su tutti i piatti che hanno preceduto la carne è risultato monotono e inoltre sul fegato d’oca era troppo debole e salato. Il Cabernet giovanissimo della stessa casa è invece risultato appropriato sul girello: dalla buona e delicata stoffa, decisamente caratterizzato dal debito sentore di peperone.
La piccola pasticceria è risultata nel complesso gradevole, ma la pasta di mandorle dei petits fours era dura come gesso; il Savarin finale al Millefiori con formaggio bianco aveva un buon impasto, ma risultava nel suo insieme un po’ ingenuo e ci è stato servito con un fin troppo ovvio Moscato d’Asti dei Vignaioli di S. Stefano. Per concludere, diremo della finale generosissima offerta di un buon Courvoisier servito in un enorme adattissimo ballon.

Da poco una nuova gestione conduce il ristorante cinese Il giardino di melograno in via dei Chiodaroli, proprio dietro al Teatro Argentina. L’ubicazione è di quelle che fanno sentire appieno l’atmosfera di quella certa Roma; i locali spaziosi sono di sobrio buon gusto (non c’è una doratura, né un rosso lacca) e il personale accoglie e serve i commensali con squisita cortesia… Le note positive si fermano però qui.
Ormai anche a Roma i ristoranti cinesi imperversano: ce ne sono di tutti i tipi e per tutte le borse. Perciò se ne trovano anche di quelli che ammanniscono i prodotti di una cucina raccapricciante. Sono sempre i medesimi numerosissimi piatti con nessuna o pochissime varianti da un posto all’altro.
A parte gli involtini primavera e i ravioli al vapore che nella loro banalità si presentavano quasi perfetti, tanto da farei dubitare che provenissero direttamente da una fornitura di surgelati precotti, tutte le altre portate si sono caratterizzate per insignificanza e trascuratezza.
Spaghetti saltati con verdure mollicci e affumicati; riso alla cantonese pressoché lessato e insapore; maiale in agrodolce viscido e dalla carne sfatta, come quella del brodoso pollo alle mandorle, e del dolciastro vitello alla piastra; lo stesso discorso vale anche per il maleodorante misto piccante dello che/, fin troppo scopertamente ammasso di rimasugli. Il gelato fritto e la frutta caramellata tornavano ad avere poi la caratteristica del già pronto. Ovviamente la solita miserabile e implacabile lista di vinelli bianchi e le grappe di riso e di rose offerte con generosità per farsi perdonare il tutto. Sempre, pensiamo per fare un po’ dimenticare ogni giusto risentimento, il conto bassissimo viene offerto insieme con un fazzolettino di seta omaggio alle gentili signore.