54 – Giugno ‘89

giugno , 1989

Tra le molte qualità che un buon ristorante deve possedere, una è quella di saper scegliere le cose fatte da altri che egli intende offrire ai clienti e un’altra è quella di avere il buon gusto di sapere, almeno approssimativamente, adeguare il prezzo dei propri servizi alla qualità e quantità dei prodotti. Nella Grapperia di via della Lupa 17 queste due caratteristiche valgono per quel che riguarda le molte grappe messe a disposizione; ma non valgono più per quel che riguarda il tentativo di ristorazione, nella piccola saletta attigua alla mescita. Si potrà dire che questo è solo un neo per una «grapperia»; noi però pensiamo che un buon bicchiere di grappa di brunello o di moscato non sono sufficienti nel modo piu assoluto a consolare il disgraziato avventore che ha mangiato nel peggiore dei modi possibili, pagando per un primo e un secondo scarsissimi, con contorno di verdure «nature», e poco vino di non eccelsa qualità una cifra spropositata!
La carta offriva solo due primi piatti: un lago di panna in cui si trovavano invischiate alcune fette di zucchine e un fascio di fettuccine col solo sapore di sale intitolato: tagliolini alle zucchine; e un pugnetto di semi d’orzo e fagioli semicrudi in un viscido e gelatinoso brodo salatissimo che aveva il nome di zuppa d’orzo. Qualche brandello di carne grassissima e, come al solito, troppo salata, era chiamato stinco al forno; un indecifrabile medaglione di carne grondante di grasso e acqua salata era chiamato: tournedos alla Rossini; ostie di una sostanza bruna di diverse sfumature di colore, ma con nessun sapore avevano la presunzione di essere un affettato di cacciagione. Per fortuna le verdure erano appunto «nature»!
Come aperitivo abbiamo assaggiato uno scontato e mediocre prosecchino; poi abbiamo incontrato una vera perla: un’ottima bottiglia di Freisa d’Asti, del 1987 di Castelnuovo Don Bosco, guizzante e dal delicato profumo di viola; lo Chambave rosso era invece indecente: un’acida bottiglia di vino morto. Il servizio ci è parso molto poco attento e piuttosto assonnato. Solo ad essere capace di qualche comunicativa era il maestro delle grappe che ci ha guidato in buoni e assennati assaggi.

I Farfalloni, prima di parlare della cosiddetta «cucina cinese», hanno meditato e studiato a lungo, sia i piatti delle varie regioni, sia la cultura della tavola di quella lontana parte del mondo. Invece questa volta hanno deciso di parlare di cucina indiana (anche questo è un modo di dire poiché le cucine regionali dell’India sono molte e molto diverse fra loro) lasciandosi guidare esclusivamente dal palato. Forse non è molto serio, e quindi ci scusiamo se la nostra ignoranza ci farà esprimere giudizi poco fondati e approssimativi. Qualche sera fa abbiamo consumato una gradevole cenetta al ristorante indiano Kairali Bhavan di via Pietro Verri 11, sotto il colle Oppio, nel luogo in cui sorgeva a suo tempo uno dei tanti ristorantini alternativi. Qui ora si preparano piatti che danno un’impressione generale di quella che potrebbe essere la cucina indiana, in particolare quella del Kerala. Tutto è preparato con discreta accuratezza; la sensazione del piccante non sovrasta indiscriminatamente ogni piatto, come avviene spesso nei ristoranti indiani, in Italia e altrove, anche se in ogni preparazione si insinuano, quasi striscianti, le spezie che compongono la mistura di polveri da cui originano i vari curry: i curcuma, coriandolo, zenzero, peperoncino e così via. Abbiamo trovato appetitose le diverse crocchette dell’antipasto vegetariano; saporiti, differenziati e gradevoli i vari risi: al burro e al pollo e verdure. Tutti i piatti di carne ci sono parsi gustosi: sia il vitello allo zenzero, sia l’abbacchio al curry; ma eccellente tra questi ci è parso il pollo Tandoori, dai molti e armonici sapori: i contorni di patate e peperoni, di ceci neri o il purè di lenticchie costituivano per ciascuno di essi un gradevole complemento.
Divertente l’esperienza dei diversi tipi di pane: chapati, poori, kairali roti, e i dolci alla carota e al cocco.
Noi non siamo tipi da bere i tè duranti i pasti ed abbiamo un’ostinata propesione a tentare sempre l’abbinamento di qualsiasi tipo di cucina con i vari vini. Qui abbiamo trovato una carta dei vini abbastanza variata, anche se un po’ ovvia e con uno squilibrio di qualità tra i buoni rossi e i mediocri bianchi; inoltre non sempre il vino bianco viene tenuto alla giusta temperatura di servizio; la cosa è una piccola pecca che sarebbe comunque facile da eliminare con un po’ di buona volontà; così che l’esperienza diventerebbe solo positiva, anche grazie ad un’accoglienza gentilmente sorridente, che fa persino perdonare un costo non proprio modestissimo.