Psicoanalisi contro n. 54 – In bilico

giugno , 1989

Ricordo una volta che da ragazzetto presi in mano un nuovo libro di storia e sfogliandolo rimasi molto impressionato da una illustrazione in cui era ritratto Urbano II che indice la prima crociata; quello che mi aveva impressionato maggiormente era stato il vedere quel papa col triregno in capo, avvolto in manti solenni, stare quasi in bilico su di un piccolo trono, angusto e stretto in modo inverosimile. Mi ero domandato perché mai un tal papa riuscisse a non andare a gambe levate seduto su di un aggeggio così instabile; sullo sfondo, sopra una città merlata, dominava un cielo pieno della presenza divina. Era un cielo a ben pensarci molto simile a quello che ci sovrasta ogni giorno, dal quale tante volte ho creduto di poter veder trapelare la figura stessa di Dio (penso persino di esserci almeno una volta riuscito). Il problema del papa in equilibrio precario sul trono non è però il solo argomento di riflessione che le crociate mi abbiano ispirato. Educato nella religione cattolica, credente fervido, ero tuttavia libero di accedere alla biblioteca di mio padre: ero così riuscito a farmi un’idea sia pur molto schematica e semplicistica delle crociate (non sempre la libertà di accesso all’informazione porta alla verità). Avevo letto la «Gerusalemme Liberata», affascinato da quella lingua così dissueta ed elegante, ed avevo consultato libri ed enciclopedie dal linguaggio senz’altro meno affascinante; ma ero rimasto come un monacello ingenuo che, chiuso nel suo convento, ascolta da qualcuno di passaggio il racconto delle crociate, fantasticando sui paesi lontani, sul Santo Sepolcro profanato, su musulmani cattivi alleati col demonio, convinto dell’assoluta necessità per il mondo cristiano di riappropriarsi della terra che aveva visto svolgersi la vita, la morte e la resurrezione del Cristo. Come poteva quel luogo dove la speranza dei secoli si era realizzata, dove l’angelo aveva detto: «Egli è risorto, non è più qui» rimanere in mano a chi non amava il buon Gesù di Nazareth e non lo riconosceva come il salvatore dell’umanità? Comunque in quel libro sul quale mi aveva colpito il ritratto del papa in bilico sul trono, avevo trovato le parole più convincenti, quelle per cui mi feci infine una ragione delle motivazioni storiche ed economiche che avevano spinto il mondo feudale e quello delle repubbliche marinare a perseguire lo stesso obiettivo di una guerra in Terra Santa: la mia fantasia immaginava gli eredi cadetti di feudi troppo piccoli cercare per mare la possibilità di evitare il saio e magari di trovare nuove ricchezze; così che mi costituii anche un bagaglio di spiegazioni laiche che rendevano più concrete le elucubrazioni mistiche. Io che avevo sempre odiato la guerra riuscivo così ad avere la rassicurazione che nessuna guerra era davvero stata fatta in nome di Dio, ma per ambizioni umane di potere e di ricchezza: quel papa sul trono traballante che benediceva le armate era un uomo che correva il rischio di cadere; ma non rischiava solo la sua incolumità fisica bensì anche quella spirituale. Da una parte desideravo condannare il gesto di Urbano II, dall’altra lo giustificavo perché pensavo che lui e molti di quei soldati erano in buona fede. Si può uccidere in buona fede? Non sono sicuro che fossero proprio questi i miei pensieri di allora o se tutto questo non sia invece il risultato di stratificazioni successive che costituiscono anche le mie opinioni di oggi.

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Martin Lutero, agostiniano scalzo, si ribellò alla chiesa di Roma, fastosa e corrotta, volle richiamarsi ai principi della parola di Gesù, alle Sacre Scritture e forse fermarsi lì; ma principi e cavalieri usarono la sua parola, le sue argomentazioni teologiche, i suoi dubbi dogmatici per fermare il flusso di danaro che inesorabile scorreva verso Roma, la sede di Pietro e per ribellarsi alle ingerenze del papato nei loro stati. I poveri però rimasero tali anche quando le chiese di culto romano furono spogliate e perciò si ribellarono a quei principi in nome della giustizia: quei nobili che si erano pretesi paladini contro l’ingiustizia clericale li massacrarono. «Egalité, liberté, fraternité» furono presto solo vuote parole, tirannidi nuove seguirono all’antica tirannide. Chi crede che la Ragione sia una dea è un imbecille oltre che un empio. Così furono imbecilli molti rivoluzionari che pure avevano in tre parole sintetizzato un valore sacro ed universale, che da solo potrebbe bastare a far recuperare agli uomini tutta la loro dignità di esseri umani.
Nonostante Robespierre, Danton e Napoleone, in Francia e altrove i bambini continuavano però a morire per il troppo lavoro e la denutrizione; questo mentre i padroni ascoltavano Beethoven.
Significa forse che era meglio la vita del medioevo dove, se pure c’era fatica e violenza, almeno, la sera, i signori sedevano sui gradini della cattedrale, mescolati al popolino; quando nelle grandi cattedrali c’era rifugio per tutti, prelati e prostitute?
Ci fu una nuova rivoluzione che abbatté uno Zar e liberò i contadini.
La parola Zar significa Cesare, ma neppure quello fu l’ultimo Cesare, ce ne furono in seguito e ancora ce ne sono e nella stessa Russia oggi il popolo reclama benessere e libertà, reclama addirittura l’applicazione dei princìpi elementari che furono a base della rivoluzione d’ottobre; dopo settant’anni un popolo si sveglia da un sonno e si rende conto di non aver ottenuto ancora tutto il rispetto che la sua condizione umana pretende a buon diritto.
Anche il Celeste impero, quarant’anni dopo la grande marcia, continua ad avere imperatori e mandarini ancora più crudeli e potenti di quelli che furono deposti.
Si chiede democrazia e si viene accusati di essere controrivoluzionari.
A cosa è servito abbattere il sonnacchioso ultimo imperatore?

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A questo punto pensavo che avrei riflettuto su Hegel e il suo concetto di progresso o su Marx e la lotta di classe, che forse l’anarchia attende l’uomo al punto culminante della libertà e felicità possibili su questa terra. Invece mi trovo ad essere infastidito se penso a queste teorizzazioni del passato recente; mi pento di aver trascorso mesi a studiare «Il Capitale» cercando di capire i significati possibili di una bibbia che oggi è per me solo un vuoto involucro di parole che la storia ha smentito. E’ giusto questo mio rifiuto così globale? Le analisi di Marx hanno ancora una loro validità, si possono e si debbono usare anche se sono state contraddette dai fatti? Nessuno può pretendere di prevedere davvero la storia, o meglio nessuno deve farlo perché è fin troppo prevedibile, meglio allora lasciarsi cullare dalla filosofia la quale se, come dice Freud, non ci illumina il cammino, almeno serve a consolarci e tutti noi sappiamo quanto sia importante la consolazione!
Il concetto stesso di progresso è andato in frantumi prima per opera della scienza, poi della filosofia e oggi della politica e della economia.
Le ideologie si sono infrante come divinità fatte col vetro di scadenti fondi di bottiglia.
Ma di certo, da qualche parte, nuove ideologie stanno nascendo.

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Io ho scelto di ritirarmi, forse un po’ aristocraticamente, nel mio studio, dove incontro persone di tutte le classi sociali, che dicono di aver bisogno di me e della mia scienza, che hanno comunque bisogno di qualcosa che sia al di fuori di loro e a cui possano aggrapparsi. Io offro quello che ho e quello che ho imparato, il che è lo stesso. Apparentemente non ho a che fare con l’infinita varietà dei problemi di quest’umanità; ho davanti a me solo alcuni uomini e alcune donne, più o meno giovani o più o meno vecchi, che soffrono, che vogliono capire, che sono disorientati o addirittura immersi in un delirio atroce quanto le torture medioevali, o gli sfruttamenti ottocenteschi o i lager. Sono fantasmi quotidianamente presenti in nome dei quali si opprime una povera madre, un figlio tremebondo, un fratello esasperato.
Tutte queste vittime indirette della follia mi telefonano per dirmi che non ne possono più; io vorrei domandare loro di che cosa. Forse del fatto che si vedono incolpati del male del mondo da chi lo ha assorbito per intero? Che per questo è diventato cattivo come solo chi è pazzo può diventare.
Tutti i pazzi sono cattivi perché hanno perso la battaglia contro il male; per fortuna non sempre la vittoria è totale. Ma questo campionario che sfila davanti a me è rappresentativo abbastanza della più complessa realtà del mondo, di quello «normale» e di quello «folle». Ansie, crisi di panico, incapacità di relazione, difficoltà di inserimento, turbe sessuali e così via sono il piccolo orticello del quale ho cura; ma è un orticello che sta in questo mondo. Io e la persona che mi è di fronte dobbiamo insieme sforzarci di capire la realtà, prima quella reciproca e poi quella più vasta intorno a noi. Dobbiamo insieme riconoscere quell’inconscio sociale di cui facciamo parte e che contribuiamo a formare, percorrendo e ripercorrendo tutte le strade possibili, con visitazioni e rivisitazioni. La madre diventa le madri e così il padre, il figlio, ogni persona diventa tante persone.
C’è il pericolo dello smarrimento. Qualcuno giunge a domandarmi chi è. Tutti ci domandiamo chi siamo realmente. Mi sento vacillante come l’Urbano II del quadro; la tiara della mia scienza pesa sulla mia piccola testa. Dico a me stesso: «Urbano, scendi dal trono». Vorrei abbracciare le persone che fanno con me il lavoro dell’analisi, stringerle forte; ma so che non posso, perché non capirebbero: nessuno oggi è stato veramente educato all’amore, nessuno è preparato a riceverlo e a darlo.

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Così vengo a scoprire gli odi originari: quello, più profondo di tutti, del maschio verso la femmina e della femmina verso il maschio. Per una strana aberrazione genetica non è vero che il maschio ricerca la femmina e viceversa; al contrario, si respingono e voler farli stare insieme ad ogni costo è spesso causa di disagio mentale o di follia. L’amore non si può imporre, deve essere una conquista.
Quando i geni hanno cominciato ad impazzire? Quando la pulsione che si dirige verso l’altro si è sentita respingere? Le donne non vogliono capire i maschi; non li hanno mai capiti, ma dovranno capirli.
I maschi non capiscono le donne, non le hanno mai capite, ma dovranno capirle.
Questo perché hanno origine comune e divina.
Perciò è meglio mettere bene in luce queste lotte, queste disarmonie, invece di sopirle e negarle, come fanno le ottuse, stupide e malate famiglie, televisivamente quotidiane. Non dico più borghesi, perché quei vecchi concetti sono oggi inapplicabili. Non bisogna chiudere porte e finestre per non sapere e non far sapere.
Qualcuno ha inventato il telefono azzurro, per difendere chi è tanto debole da essere sbranato letteralmente. I più deboli non sono le donne, questa è un’aberrazione femminista; i più deboli sono i bambini talvolta, dilaniati dall’odio del padre e della madre. Vengono da me spesso coppie di uomini e donne che si odiano perché non sono stati capaci di amarsi ed usano i figli per ferirsi l’un l’altra. Io cerco timidamente di far loro notare che hanno scelto di unirsi e anche di odiarsi ed ora di separarsi, però i bambini o le bambine che si contendono non hanno chiesto loro di venire al mondo e perciò non possono essere usati. Quasi sempre non sono capito, ciascuno rivendica il suo amore per il figlio o la figlia e denuncia l’indifferenza o l’odio dell’altro.
Questi stessi meccanismi si riproducono subdolamente in tutti i rapporti a due, o a tre o tra più persone. Lo scambio è continuo tra il dentro e il fuori, tra il pubblico e il privato, negli stadi, nelle visite pontificie e sulle piazze di Pechino.

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Dove e quando inizia il cammino del male?
L’antico manicheismo ha tentato di rispondere all’interrogativo, ipotizzando all’origine due divinità ugualmente potenti: un dio del bene e un dio del male, destinati ad essere in lotta tra loro per l’eternità.
Può essere questo un modo di lavarsene le mani: gli dèi lottino dentro di me. Oppure si potrebbe parlare del maligno: Dio è la bontà ed ha creato solo cose buone; ma allora il maligno di dove trae la sua capacità di fare il male? Kierkegaard poneva a se stesso una domanda inquietante: per avere fede bisogna pregare Dio che ci mandi la fede; ma se non si ha fede in Dio come pregarlo? La stessa cosa vale per il principio del male: esiste il malvagio che un giorno, angelo splendente ed invidioso, si ribellò a Dio; ma chi permise a Lucifero di ribellarsi? L’indulgenza divina? Tutto il male deriverebbe da un gesto di liberalità di Dio, da un eccesso di democrazia, come diremmo oggi? La psicoanalisi antica era ritornata al vecchio discorso manicheo: due pulsioni, una di vita e una di morte si combattono nell’uomo; nell’una è presente il desiderio sessuale, la capacità di amare; nell’altra è racchiusa la volontà di sofferenza e di annientamento. Questo discorso bipolare funziona abbastanza per un certo mondo capitalistico-borghese dell’inizio del novecento; in fondo il male, l’egoismo distruttivo servono a garantire che ci sia qualcuno che paghi il progresso della società. Se l’uomo non distruggesse per appropriarsi, non ci sarebbe movimento economico, non aumenterebbero le ricchezze, il benessere materiale (che espressione stupida: il benessere è benessere e basta) non aumenterebbe. Perché il benessere è spesso frutto di quelle guerre che io ho sempre detestato e che tutt’ora esecro.

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Chiamare il diavolo con l’espressione «pulsione di morte» non ha cambiato niente; la mitologia è rimasta quella. La cultura contemporanea è dominata dal manicheismo; forse gli esseri umani non hanno speranza e dovranno continuare a girare su se stessi illudendosi di poter cambiare qualcosa e di stare meglio un giorno, anche su questa terra. Il cerchio si chiude e l’uomo è prigioniero nella morsa. Le grandi rivoluzioni sociali, le grandi lotte diventano sopraffazione, odio, distruzione, povertà e morte; gli stessi sentimenti però li ritroviamo nell’intimo di ciascuno, e li vediamo proiettarsi all’esterno nel giro senza fine. La cosa terribile forse della morte è che potrebbe essere un istante di assoluta solitudine, in cui ciascuno ripercorre tutta la propria vita, rivedendo tutti quelli che ha amato ed odiato, ricordando tutte le esperienze. È solo un’ipotesi, che molti si sono sentiti raccontare da chi ha rischiato la vita; a me l’ha raccontata il mio vecchio insegnante di greco e latino, quasi annegato dopo un piccolo naufragio. Che sia delirio o fantasia, certo non è una menzogna.

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Forse allora bisogna compiere un atto di buona volontà e negare al maligno ogni strapotere, negargli anche la natura di pulsione biologica. È difficile compiere questo sforzo di buona volontà anche perché si corre il rischio del ridicolo. Eppure io che non vivo in un mondo di carta, ma lavoro a fianco di esseri umani ho scoperto una cosa semplicissima: che prima dell’odio la persona conosce un disperato bisogno d’amore. Quando è iniziata la follia? Non lo scopriranno certo mai esperimenti di laboratorio né lo potranno riferire i libri; forse lo potrà scoprire il semplice ed ingenuo ricercatore che lavorerà con i suoi simili, mettendo in comune odi e sofferenze, desideroso di imparare che si ha solo bisogno d’amare. Paradossalmente questa importanza dell’amore è sbandierata soprattutto da chi non la sente, anzi da chi ne fa un uso aberrante per scopi opposti a quelli dichiarati. Non bisogna avere paura di manifestare il proprio bisogno d’amore; ma bisogna smascherare chi vende odio travestito da amore.