Psicoanalisi contro n. 53 – Il mare e l’angelo

maggio , 1989

L’uomo è in bilico tra l’essere e il non essere. Questa affermazione, tanto cara alla filosofia ed in particolare a quella dei nostri giorni, per un verso ha un grande significato perché esprime e manifesta la precarietà dell’esistenza umana, forse la precarietà dell’esistenza in generale, o meglio: la precarietà dell’essere; per un altro verso dichiara invece in modo manifesto che l’uomo è soltanto essere e possiede soltanto l’essere. Oltre all’affermazione che il non essere non è, nessuno è riuscito ad andare (ecco il termine «nessuno» che ora uso per esigenze immediate, ma che nel seguito del mio discorso avrà una sua importanza). Se il non essere non è, non c’è. Eppure la nostra mente si illude di riuscire a pensare qualche cosa di diverso dall’essere; ma se fosse solo un’illusione? Chi mi sta leggendo provi a fare un elementare gioco psichico: pensi al non essere. Immaginerà uno spazio,molto grande, vuoto; ma non riuscirà neppure a pensarlo davvero vuoto: penserà qualcosa di azzurro, o di nero; forse, come capita a me, con bordi vagamente circondati di luce. Qualcuno penserà intensamente le due parole: non essere; ma se proverà ad andare oltre le parole, la sua mente immaginerà certamente qualcosa di simile a uno spazio colorato che si estende sempre più; qualcosa che non sarà neppure un vuoto; d’altra parte se il vuoto potesse essere pensato sarebbe qualcosa: il vuoto appunto. Forse il non essere è, ma non è pensabile dall’uomo. Ha senso per l’uomo parlare di ciò che non può essere pensato? I pensieri si estrinsecano in parole e in frasi. Allora è soltanto una questione legata al fatto che ci è necessario un linguaggio?
Eppure, se proviamo ad andare oltre la parola, ci accorgiamo che pensiamo il non essere come un infinito, come il leopardiano mare in cui è dolce naufragare. È corretto che l’uomo pensi all’infinito come a un non essere, perché l’uomo in realtà non riesce neppure ad immaginare l’infinito. È dunque così importante l’immaginazione? Senza dubbio: che sarebbe l’uomo senza le sue costruzioni fantastiche? Sarebbe un sasso, un’onda; del resto la moderna biofisica da più parti torna ad avanzare l’ipotesi di un nuovo ilozoismo; perciò anche i sassi e le onde avrebbero capacità di percezione e reazione e non ci sarebbe una materia inanimata. Il sasso e l’onda diventano così dotati anche di immaginazione, possono allora fantasticare sul non essere. La particella negativa che precede la parola essere indubbiamente disturba, perché nega l’esistenza dell’essere, mentre di fatto ne ribadisce la presenza.
Il non essere è un essere diverso dall’essere, perciò bisogna, per non impazzire, travestire l’essere in qualche modo, o forse travestire in qualche modo il non essere (una figura bianca su di uno sfondo bianco non è percepibile). Per renderlo comprensibile si è allora chiamato questo non essere: nulla. Questo nome è un travestimento; in sé ugualmente non è pensabile, proprio come il non essere. L’uomo quindi non è in bilico tra l’essere e il non essere, ma è soltanto essere; perché allora questo timore di non essere più che ci prende tutti? Forse è solo la paura di essere diversi. Questa è una verità che ho imparato da coloro che fanno analisi con me, nei loro sogni e nei loro racconti morire significa solo vivere in modo diverso; morte e nascita coincidono; ma la nascita è un non essere e la morte è l’essere; sembrerebbe una contraddizione bizzarra, ma è una realtà profonda. Si nasce per non essere e si muore per essere. È un gioco di parole che forse nasconde un altro gioco di parole. Noi non possiamo uscire dalla nostra cultura, perciò dobbiamo rimanere in bilico tra essere e non essere, pur sapendo di essere saldamente radicati nell’essere. Resta la domanda: di dove viene la paura di non essere più? Voler superare questa contraddizione significa voler fare come quel ragazzetto di cui ci parla S. Agostino che vuol mettere tutto il mare in una piccola buca scavata nella sabbia (lo sapevate che in realtà era un angelo?)

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Con queste due parole (essere e nulla) la filosofia dei saggi e la prorompente genialità degli adolescenti si è sempre trastullata.
«Così il nulla è questo vuoto d’essere, questa caduta dell’in sé verso il sé, per cui si costituisce il per sé. Ma questo nulla non può ‘essere stato’ se la sua esistenza d’accatto non è correlativa ad un atto annullatore dell’essere. Questo atto continuo, per cui l’in sé si degrada a presenza a sé, lo chiameremo atto ontologico. Il nulla è la problematizzazione dell’essere da parte dell’essere, cioè la coscienza o per sé. È un avvenimento assoluto che viene all’essere per mezzo dell’essere, e che, senza avere l’essere, è sempre sostenuto dall’essere. Essendo l’essere in sé isolato nel suo essere per la sua totale positività, nessun essere può produrre dell’essere e niente può arrivare all’essere per mezzo dell’essere, se non il nulla. Il nulla è la possibilità propria dell’essere, e la sua unica possibilità. Inoltre, questa possibilità originale appare solo nell’atto assoluto che la realizza. Essendo il nulla nulla d’essere, non può venire all’essere che per mezzo dell’essere stesso. E senza dubbio viene all’essere per mezzo di un essere singolare, che è la realtà umana. Ma questo essere si costituisce come realtà umana in quanto non è nient’altro che il progetto originale del suo nulla. La realtà umana è l’essere in quanto è nel suo essere e per il suo essere fondamento unico del nulla in seno all’essere.» (J. P. Sartre, L’essere e il nulla, 1943). Qualche volta l’essere si trova a disagio nei panni del nulla ed allora si fa chiamare nessuno: «Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano madre e padre e tutti quanti i compagni» (Omero, Odissea, IX, tr. it. R. Calzecchi Onesti). In che rapporto stanno però l’essere travestito da nulla e la mancanza della presenza umana? Il non essere è incomprensibile se non si ha il buon gusto di scoprire un piccolo trucco inventato dai filosofi: il nulla non è che una parte dell’essere, che anche si manifesta con una ricchezza di presenze esorbitante: stelle, mari, spiagge deserte dove non c’è nessuno, ma dove non è possibile dire che non c’è nulla. È impossibile sapere se la natura sia indifferente alla presenza dell’uomo; certo sarebbe una bizzarria ed una imperdonabile mancanza di equilibrio che la natura non avesse bisogno dell’uomo, visto che l’uomo ha così bisogno della natura. La natura perciò aspetta l’uomo per farsi brutalizzare e per farsi amare ed anche per farsi inventare. L’uomo vuole la natura per potere aver un ambiente in cui vivere, altrimenti non sarebbe neppure uomo. In che rapporto stanno allora nulla e nessuno? Il primo è in malafede e il secondo è un uomo che si è nascosto, o che guarda dalle quinte, o che si aggrappa sotto il ventre villoso del più bel capro degli armenti di Polifemo e di lì afferma di non esserci. Nessuno esiste, il nulla esiste e non è che l’essere travestito da qualcos’altro. Quando si partecipa ad una festa di carnevale è molto importante avere un travestimento riconoscibile, se no non ci si diverte e il divertimento, checché ne dica Pascal, è una categoria fondamentale per l’uomo. Una sera ricordo che con alcuni amici mi trovai ad organizzare una festa di carnevale, semplice ed allegra nella sua banalità un po’ scontata: si stabilì che tutti dovessero essere in maschera e tutti obbedirono; una nostra amica avvolse le sue prosperose fattezze con drappi variamente disposti mentre in mano teneva alcuni oggetti non facilmente identificabili. Tutti la guardavano perplessi mormorando e domandandosi quale mai personaggio volesse rappresentare. Ci fu sgomento quando si constatò che nessuno aveva identificato un’eroina dell’antica storia romana, forse non sufficientemente presente alla mente degli altri invitati o forse troppo maldestramente imitata; sta di fatto che per un certo lasso di tempo la nostra povera amica era stata vista e si era addirittura sentita come «nessuno». È un po’ come quando si sente bussare alla porta e passa un attimo di troppo prima che qualcuno risponda alla domanda «Chi è?» Per quell’attimo si ha l’impressione di aver rivolto la domanda verso il nulla.

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L’essere, il suo travestimento come nulla e l’assenza della persona umana espressa dal termine «nessuno», rappresentano il mistero. L’essere è e basta; il non essere non è e basta; nessuno è scappato, ma se «nessuno è scappato» vuol dire che qualcuno c’era. Ecco il travestimento dell’essere: nessuno. La presenza di chi non c’è. Eppure, se nessuno se ne è andato vuol dire che Odisseo è rimasto ben saldo al suo lanoso appiglio. Essere, nulla e nessuno suggeriscono il mistero; che cos’è il mistero: è ciò che non si sa, oppure è ciò che si vorrebbe sapere? Si tratta di due realtà molto diverse tra loro, pur se apparentemente simili. Ciò che non si sa è immobile, tranquillo e pacifico nella sua oscurità, nella sua incomprensibilità e nella sua lontananza. Se nessuno volesse sapere ciò che non si sa, questo ignoto vivrebbe la sua vita innocuamente e inutilmente. Ciò che si vorrebbe sapere invece non ha vita tranquilla; non viene lasciato in pace, utile o inutile che possa essere. Per il solo fatto che l’uomo vuole conoscerlo non può restare indifferente. Quali sono gli strumenti che l’uomo ha a disposizione per sondare il mistero? L’esistenza umana sorge dal mistero, si alimenta del mistero, sfumerà nel mistero. Così è per l’universo, per l’essere e per il suo travestimento: il nulla. Forse un giorno Nessuno sarà realmente nessuno: uno spazio infinito in cui nessuno potrà più dire che c’è nessuno. Come potrà lo spazio sapere di essere spazio? Questi sono pensieri che posseggono la concretezza del dato di fatto. La fede tenta di colmare questi pensieri, o meglio di trasformarli e spesso ci riesce: il mistero non è più solo mistero. Un passo della messa dice: «mistero della fede»; la fede stessa è un mistero. Se le cose stanno così, come può il mistero della fede colmare l’indeterminatezza del mistero? Fede e mistero sono in contrasto o si sovrappongono? La fede serve per fugare il mistero o ne è avvolta? Non sarà forse la fede soltanto espressione della troppa paura di qualcuno di non sapere abbastanza? Penso che questo sia un dilemma non risolvibile: la fede è un mistero però serve a colmare l’ansia del mistero. La fede che diventa credenza distrugge il mistero, eppure senza il mistero si inaridirebbe. Se l’essere umano è vittima di così tante ambiguità, perché si ostina a voler cercare, agire e lottare? Esistono persone che vincono i premi Nobel o che pascolano greggi di poche dozzine di pecore, donne che cucinano male e sono disordinate, preti che officiano in chiese troppo belle per le loro piccole menti; sono uomini e donne vigliacchi che vivono ogni giorno senza percepire il mistero che li avvolge.

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Non basta ricevere l’alloro dal re di Svezia, non basta essere investite dell’antica dignità delle madri, non basta essere illuminati dalla trascendente sacralità del sacerdozio: troppi di questi esseri umani vivono soltanto immersi nel quotidiano. Immersi nella «chiacchiera», come diceva Heidegger, che stordisce. Heidegger, filosofo vigliacco e geniale, era spaventato dalla trascendenza, ma affascinato dal desiderio di parlare del mistero; si fermò sulle soglie come del resto ha fatto quasi tutto il pensiero occidentale, confondendo l’essere con il tempo per la paura di doverlo confrontare con il non essere. Tutti ormai sappiamo che il tempo non è altro che il travestimento del non essere, o che l’essere non è forse che il travestimento del tempo. Per me è importante soprattutto capire la banalità del quotidiano inteso come la presunzione di conoscere fino in fondo la propria scienza, impersonare acriticamente il proprio ruolo di madre, identificarsi totalmente nel proprio ufficio sacerdotale. Queste dovrebbero essere scelte di vita capaci di dare a ciascuno il coraggio di porsi di fronte all’essere e al non essere. Nella realtà, spesso i premi Nobel sono persone meschine, le madri creature vinte, i preti inutili. È importante che ci sia chi non si anneghi nella banalità del quotidiano, ma scelga di fare di ogni giorno una allegra o triste piccola poesia. Una persona che fa analisi con me mi ha detto: «Quando si ama qualcuno, bisogna essere capaci di farlo reinnamorare ogni mattina.» Io soggiungo: bisogna re-innamorarsi ogni mattina. Quando si ama non si fatica a cogliere davvero il mistero. Solo così forse ci si libera dalla paura. Ciascuno di noi ha avuto, almeno per un giorno, a che fare con il mistero. Con che cosa lo abbiamo colmato? La storia che segue è quella di un ragazzo rimasto vittima del suo mistero. Chi vuole ci rifletta su; è una storia semplice, terribile e tenerissima. Io so che si impazzisce quando non si riesce a colmare il vuoto del mistero. Purtroppo la follia esiste!

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C’era una volta un ragazzino del ginnasio, che faceva molta fatica a studiare perché diceva di non riuscire a ricordare nulla e che alla sera diventava tristissimo, quando il sole, in città o in campagna scendeva all’orizzonte, disegnando ombre lunghe sui muri delle case, ombre che lo assalivano. Il padre era medico, un uomo sufficientemente onesto per dare ascolto ai propri pazienti, e la madre era impegnatissima in una frenesia di attività assistenziali e benefiche. Questi due genitori si accorsero del disagio del figlio: il padre lo condusse da un suo collega «neurologo», il quale sentenziò che il ragazzo non aveva nulla, ma solo attraversava un periodo di inquietudine tipico della sua età; consigliò però qualche colloquio con uno psicologo. Lo accompagnarono da me. Il padre aveva l’aria sussiegosa, la madre appariva garrula, entrambi ossequiosi e garbati, come chi accompagna il figlioletto nel suo primo giorno di scuola. Ebbi solo un colloquio con quel ragazzo e credo di non avergli fatto una buona impressione, poiché la madre il giorno successivo mi telefonò per dirmi che il figlio non aveva nessuna intenzione di continuare ad incontrarmi. Io rimasi perplesso e un po’ dispiaciuto: non me lo sarei aspettato; mi domandai cosa non avessi colto in quella persona giovane e apparentemente ingenua o cosa avessi detto per allontanarlo, senza trovare risposta soddisfacente. Mi era parso mite e sereno nel parlarmi di sé, mi sembrò divenire solo un po’ altero quando mi accennò alla sua profonda religiosità, di cattolico praticante e convinto. L’affermazione mi aveva impressionato in modo particolare ed avevo serbato con estrema nitidezza il ricordo di un momento preciso del nostro colloquio; dopo una pausa, che mi era sembrata interminabile, mi aveva chiesto: «Lei che è uno psicoanalista probabilmente pensa che la mia fede sia un’illusione e che io sia un po’ matto». Molto sinceramente gli avevo risposto di no.

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Non molto tempo fa una giovane donna mi disse che voleva mandarmi suo marito che stava molto male; aveva chiesto consiglio ai due suoceri separati, abitanti alle estremità opposte della penisola, ed entrambi le avevano fatto presente che il figlio mi aveva già incontrato in precedenza. A detta della donna il marito non aveva però dato segni di ricordarsi di me, quando gli aveva proposto un incontro. Il cognome non mi diceva niente ed io chissà perché insistetti nel voler sapere il nome di battesimo: era un nome talmente bizzarro che non potei fare a meno di ricordarmi di quel ragazzino la cui voce mi aveva espresso con decisione la sua fede; divenni desideroso di incontrarlo di nuovo. Quello che rividi fu però un uomo distrutto, gonfiato dagli psicofarmaci, senza capelli, che aveva al fianco una povera donna disperata e angosciata. Dal canto suo, l’uomo si mostrava baldanzoso, grasso e maleodorante di sudore. Cominciò a parlarmi con alterigia e disprezzo; mi spiegò come avessero tentato a lungo di curarlo da un malessere profondo e crescente. Mi parlò di persecuzioni da parte di forze misteriose, che non avrebbe potuto descrivermi, perché non avrei capito. Seguì la solita giaculatoria di presenze misteriose, di spiriti, di Dio che entrava in lui attraverso spiriti che lo dominavano, lo guidavano e lo consigliavano. Egli era costretto a passare lunghi periodi chiuso in camera, costretto ad ascoltare queste prescrizioni e queste voci. Si sentiva invaso da presenze benigne e anche maligne, che Dio gli aveva inviato come espiazione di una colpa gravissima. Per questo non servivano le pratiche religiose e neppure l’aiuto del suo padre confessore al quale pure si era affidato con tanta fiducia. Ora aveva imparato ad allearsi con uno spirito; ma era ostacolato dalla moglie cattivissima, che lo costringeva a prendere medicine e gli avvelenava i cibi con chissà quali droghe; così che era costretto a lunghi e complicati rituali prima di poter mangiare.
Non poteva più fare neppure l’amore con la moglie, era sicuro che il loro figlio non fosse suo, ma di chissà quale amante, uomo o spirito malvagio. Rimaneva lunghe ore alla finestra a guardare fuori e a pregare. La prima domanda che gli rivolsi fu assolutamente sciocca: «Pregare chi?» Mi rispose: «Dio, e chi altro vuole che preghi?» Diventai rosso fino alla radice dei capelli.

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La moglie mi fece il resoconto di un calvario terribile. I primi sintomi erano comparsi subito dopo il matrimonio, con il marito che l’accusava e passava lunghe notti senza dormire; mi disse anche di alcuni tentativi di suicidio che forse erano più semplicemente gesti clamorosamente teatrali; seguì la frequentazione di ambienti di drogati; il ricorso ai consigli di un monaco. Così per anni, tra spiriti buoni e cattivi, auto-accuse, invocazioni di Dio. Giornate passate alla finestra a guardare il cielo, giorno e notte; l’ossessione di cibi avvelenati; frasi sconnesse riferite al passato, al padre e alla madre, al fratello. Una storia di sofferenze quale io spesso sento narrare da chi arriva al mio studio. Si cercò dapprima di tenere sotto controllo la situazione ricorrendo ad ogni tipo di farmaco. Poi pian piano il resto della famiglia si era disinteressato di lui e ora restava solo quella moglie ancora giovane, ma disfatta, aggrappata ad un brandello di un grande amore. Lavorammo insieme per un tempo abbastanza lungo ed egli incominciò a stare meglio; ma i pensieri deliranti non passavano; non volle più parlarmene ed un giorno affermò di essere guarito. La moglie venne disperata da me a pregarmi di non abbandonarlo. Riprese a lavorare e ritornò a frequentare la chiesa. Interruppe i nostri incontri, ridusse gli psicofarmaci. Un giorno mi domandò se ero credente; risposi di sì; egli sussultò. Quella era una risposta giusta ed io non arrossii fino alla punta dei capelli.

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Delirio religioso? Delirio mistico? Psichiatri all’antica avrebbero detto schizofrenia e prescritto butirrofenoni, anti-parkinsoniani e poi anche una cura anti-depressiva. Non ho voluto andare oltre. Non ho avuto il coraggio di prenderlo per mano e di portarlo ancora avanti, perché: dove l’avrei condotto? Aveva ritrovato la chiesa per follia o per salute? Io penso per salute. Ma quando allora, giovinetto, mi domandò se io lo considerassi pazzo per la sua fede così convinta del soprannaturale, del vino che diventa sangue, del pane che si fa carne, fede nell’inferno e nel paradiso, cosa dovevo pensare? Ancora: quando mi aveva risposto con tanta naturalezza alla domanda su chi fosse l’oggetto delle sue preghiere: «Dio naturalmente! » Era la risposta di un sano o di un pazzo? Mi torna in mente la domanda che sempre mi fa infuriare per quanto è imbecille: Giovanna D’Arco quando sentiva le voci era santa o era schizofrenica? Le sue erano allucinazioni o davvero sentiva le voci dell’al di là? Forse mi infurio perché sono domande alle quali non so rispondere. È fin troppo facile dire che si è sani fin quando si crede in verità di fede, per quanto strane e lontane da ciò che è l’esperienza ordinaria, ma che possono comunque trovare il loro posto nelle credenze della collettività, e che la pazzia comincia invece quando le credenze travalicano questi limiti per diventare personali. Dov’è il punto di demarcazione? Quando Dio è una presenza alla quale è lecito rapportarsi e quando invece è il frutto di un delirio?
Un tempo pensavo fosse molto facile giudicare. Quando si è cattivi, rabbiosi e si esclude il mondo, pur parlando di Dio, allora si è pazzi. Sul mio cammino ho incontrato molti di questi. Io sono forse credente allo stesso modo di quelli che vengono a riferirmi i loro deliri mistici? Se io fossi non credente, dovrei cercare di persuadere all’ateismo chi si rivolge a me? Come credente devo convincere alla fede? Questa è la domanda che voglio porre a conclusione di queste righe: qual’è il giusto atteggiamento dello psicoanalista?