53 – Maggio ‘89

maggio , 1989

Eutanasia

La parola che di per sé significherebbe soltanto «buona morte» oppure «morte a fin di bene», fa sempre meno paura in un mondo che conosce la realtà quotidiana di morti violente e senza nessuna giustificazione.
Quello che però ancora ci spaventa della morte ci induce a discutere sul concetto: a discettare su quando e come sia lecito ricorrere alla pratica dell’eutanasia. Le possibilità di sofferenza per l’essere umano sono tante e così atroci che non c’è persona che riesca a trattenere il moto di pietà che si traduce nell’espressione: «Pur che questa sofferenza finisca».

Così che sembrerebbe accettabile che a una sofferenza ineliminabile si possa porre termine con un gesto definitivo che procurando la morte niente lo liberi dalla certezza del dolore.
L’unica incongruenza è che, in ultima analisi, questo è il ragionamento che viene fatto da chi a quella morte comunque sopravvive.

La buona morte diventa una soluzione per chi, da vivo, ne valuta l’opportunità. Né sembrerebbe sufficiente sciogliere il nodo gordiano decidendo che il suicidio, se mai, è l’unica applicazione coerente del principio di eutanasia.

È evidente a chiunque infatti che l’aspirante suicida non tanto desideri la morte quanto desideri invece che cessino le ragioni della sua insofferenza per la vita.
Religione, diritto e morale hanno cercato, come doveroso, di darci linee di principio generali, sulle quali basare la legittimità o l’illegittimità dell’eutanasia; e di principi generali c’è vero bisogno in un mondo che va sempre più scegliendo opportunisticamente e occasionalmente; ma il principio non sempre è traducibile in una prassi.

Se la coscienza individuale, eluse le direttive di principio, si trova perciò ad operare la scelta, abbia almeno la consapevolezza che la sua decisione non è tanto in funzione dell’altro (sofferente o insofferente del peso di una vita); quanto è in funzione della propria capacità o incapacità di sostenere il peso di un’altra vita.

Chi muore viene sottratto al gioco delle responsabilità; chi sopravvive deve perciò assumersi tutta la responsabilità di una decisione irrevocabile.