51 – Marzo ‘89

marzo , 1989

L’Enoteca 313 di via Cavour ha un grandissimo pregio: quello di essere davvero un’enoteca. In genere, a Roma, si fregiano indebitamente di questo titolo locali in cui vengono malamente serviti pochi vinacci scadenti, offrendo come accompagnamento formaggi rinsecchiti e prosciutti rancidi. Invece, lì, a due passi dai Fori Imperiali, alla fine della caotica via Cavour, esercita intensamente la sua attività un gruppo di ragazzi, in tutto simili ai loro clienti per gusti, cultura ed estrazione sociale, così che si crea un clima abbastanza simpatico, quando non si eccede nell’esibizione di un sinistrese ormai decisamente fuori moda. L’ultima volta che ci sono passati, i due Farfalloni erano molto riconoscibili, circondati dal solito gruppo di amici. Senza più speranza di anonimato, scrivevano, assaggiavano e discutevano; sicuri del fatto loro, poiché si erano premuniti, con alcune visite clandestine, durante le quali – in incognito – avevano potuto farsi un’opinione già abbastanza precisa e il loro giudizio non poteva essere più influenzato di tanto dalle sollecitudini del momento. La lista dei vini è realmente encomiabile, spazia dal nord al sud d’Italia con scelta ampia e non banale: la gradevole Ribolla gialla, la Malvasia di Lipari, il raffinato Arneis, il Recioto passito, il Brachetto d’Acqui, profumato di rosa, un eccezionale Sfursat che tra i vini della Valtellina da noi prediletti e il sommo, fatto con uve appena appassite, aromaticissimo, vellutato ed elegantissimo nei suoi 14,5°. Questi nettari sono serviti nelle migliori condizioni di conservazione e temperatura.
Sulla carta dei piatti ci sarebbe invece qualcosa da ridire; anche se riconosciamo un tentativo di offrire cose gradevoli: affettati di selvaggina e formaggi misti di buona qualità, qualche preparazione a caldo, come il filetto o il fegato di cinghiale e la crema di zucca. Poiché invitano a bere si possono anche tollerare la trota affumicata al rafano e gli scontati crostini di paté un po’ asciutti. Le fette di torta alla frutta o di ricotta e le mousse al cioccolato sono quasi sempre fresche e fragranti. Quello che proprio è da considerarsi imperdonabile è però la grande predominanza delle insalate soprattutto con mais, avocado e cuore di palma, condite di vinaigrettes viscide di maionese o eccessivamente acidule, che, oltre ad essere poco appetibili di per sé, per di più non reggono l’accoppiamento con il vino di qualunque colore, tipo e gradazione, neppure con le varie acetelle, pichete piemontesi o nostralini liguri e possono essere innaffiate soltanto con l’acqua minerale. Un altro appunto riguarda i prezzi che non sono molto bassi e che se sono in parte giustificati dalla qualità dei vini, non lo sono certo per la qualità delle pietanze. Vogliamo anche sottolineare il disagio che può provocare il provare certe esperienze: come quella che abbiamo patito l’ultimo otto marzo, quando ci siamo visti circondati da gruppi di donne sommerse di mimose come carri funebri, accompagnate da maschietti col loro bravo rametto all’occhiello, compunti come se realmente stessero accompagnando all’estrema dimora un caro estinto. Uomini e donne parlavano e parlavano (dicevano anche cose giuste) di violenze e di stupri, senza rendersi conto che stavano brandendo contro di noi affumicati e puzzolenti candelotti fumogeni: sigari e sigarette che ci toglievano il respiro. E’ veramente intollerabile che si debba cadere vittime di siffatti stupratori e stupratrici, che credono di vincere la loro impotenza imponendo con tanta violenza quei nocivi surrogati fallici in qualunque luogo e in qualunque ora del giorno e della notte.

Il Quadrifoglio di via del Boschetto è un ristorantino pretenzioso con pochi tavoli, un limitatissimo menù e un servizio gentile, ma non ineccepibile professionalmente; tra i pochi pregi ha quello di rimanere aperto fino ad ora tarda. Descrivendo i piatti che abbiamo provato ci rendiamo conto di riferire in realtà su tutto quello che di disponibile c’era in cucina. Appena seduti, ci siamo rinfrancati con un buon bianco della casa leggermente frizzante e «sulla vena»; tra i piatti d’apertura abbiamo potuto valutare la banalità di un’insalata dello chef ai cuori di palma, fresca e niente più. I due primi sono stati un risotto primavera insipido e linguine ai gamberetti non proprio eccellenti. Nel salmone al dragoncello eccedeva l’aceto, era profumatissima 1′erbetta, ma proprio non si percepiva il gusto del salmone; mentre nelle mazzancolle alla livornese, i pur sodi crostacei annegavano in un liquido dolciastro e rosseggiante. Tra i piatti di carne le scaloppine al Calvados erano un dolce alla panna e le lombatine alla Sassi una scialba parodia di questa classica ricetta. Tutte o quasi le verdure di contorno venivano dal surgelatore.
Forse meno tristi abbiamo trovato i semplici dolci: la créme brulée e la torta di mele, di casalinga bonarietà. In confron-to alla scelta dei piatti, risultava meno limitata, nel suo piccolo, la carta dei vini; noi abbiamo apprezzato un Orvieto Barberani e un Fiano di Mastroberardino tra i bianchi e un rosso Montepulciano d’Abruzzo di poche pretese. Da quanto sopra si evince che non valeva proprio la pena di pagare un conto così elevato come quello presentatoci.