52 – Aprile ‘89

aprile , 1989

Il pittore e ceramista spagnolo: Joan Mirò (1893-1983) ha acquistato nel nostro secolo una certa fama, pur essendo stato un artista sempre alla retroguardia. La sua produzione è ovvia, scontata, banale e, spesso, volgare, con qualche trovatina qua e là del tutto priva di interesse, che manca quasi sempre di fantasia e di coraggio. Subito dopo i primi passi post-impressionisti, caratterizzati anche questi da un disegno sciatto e un simbolismo inefficace, il suo è stato uno stupido cubismo d’accatto o un fauvismo per niente fauve.
Quello che soprattutto manca di nerbo nella successiva pittura di Mirò è proprio il segno: vermiciattoli mollicci, svirgolature inerti, ghirigori che non vanno da nessuna parte come si vede già a partire dall’insulso Carnevale d’Arlecchino del 1924.
L’arte di tutta la sua vita non portò Mirò da nessuna parte: sempre brancolante in modo ambiguo tra una tecnica e l’altra (collages, masoniti, ceramiche, etc.), e padrone di nessuna.
Come al solito, quando non si capisce niente, si tira fuori l’inconscio. La nostra personale esperienza ci ha ormai messo sull’avviso e troviamo di questo fatto ogni volta nuove conferme: quanto più gli artisti di cui si parla si esprimono con linguaggi narcisistici ed inefficaci, tanto più critica e pubblico fanno ricorso alle giustificazioni che attingono a una supposta realtà inconscia. L’inconscio di Mirò è ovviamente presente, ma in questo caso bisognerebbe avere l’onestà di ammettere che si tratta di una presenza insignificante. Questa mostra organizzata all’ Accademia Spagnola di Roma, che resterà aperta fino al 4 giugno, porta il titolo I Mirò di Mirò perché è costituita di opere: oli, disegni e ceramiche, per la maggior parte inedite, che il pittore conservò e che sono per lo più non firmate e coprono un arco di tempo che coincide grosso modo con gli ultimi vent’anni di vita del loro autore (ma ben poche sono datate). Proprio in questa sede balza evidente come al segno di Mirò manchino forza e luce, come non sappia indicare e neppure accennare alcunché; paiono succedersi solo piccoli e svogliati fogli d’album, ripieni di scarabocchi infantili. Le linee perdono ogni tentativo di dirigersi da qualche parte, si frammentano, si complicano di interpunzioni, asterischi, iati; e i colori si smarriscono, circoscritti da un nero opprimente per la sua insistenza, opprime restano sospesi come macchie slabbrate; e del bambino, ogni tanto, si vede lo sforzo di ricordare e riprodurre qualcosa che davvero ha visto, ma che né il cervello né la mano riescono a restituire. Mirò pare abbia dichiarato a più riprese di preferire l’indeterminato, l’incompiuto e l’anonimato, ma questo non basta a nostro avviso a giustificare il guazzabuglio di questa mostra, che non segue alcun criterio, né artistico, né cronologico e neppure filologico. Il visitatore ha l’impressione di rivedete sempre la stessa opera ed esce con una gran confusione in testa. Un’esposizione di opere d’arte non può essere affrontata col criterio del bazar, bisogna che chi la cura, pur nel rispetto massimo dello spirito dell’artista, suggerisca qualcosa e magari inviti alla discussione. Comunque è pur sempre meglio un pittore tradito che affossato come questo Mirò.