Psicoanalisi contro n. 51 – L’isola felice

marzo , 1989

Un’affermazione ricorrente nella storia della nostra filosofia, tanto da aver acquisito quasi la caratteristica di un adagio, sostiene che: «Pensare è giudicare». In questa accezione «giudicare» non significa necessariamente approvare o condannare in senso propriamente giuridico, ma si riferisce alla capacità di giudizio insita nell’uomo, intesa come capacità di appropriarsi delle percezioni che vengono dall’esterno e dall’interno di sé, coordinandole in un pensiero o ragionamento organico e significativo. La logora frase sopra riportata denuncia però un’altra convinzione: che il pensiero non può sottrarsi allo sdoppiamento che lo fa essere contemporaneamente oggetto pensato e soggetto pensante. Il pensiero che pensa il pensiero non ha caratteristiche di assoluta immobilità, che sarebbe assurda, ma si trasforma dinamicamente in giudizio sul pensiero pensato, in tentativo di comprenderne il significato. Per l’uomo non è possibile pensare soltanto, proprio come non è possibile non pensare. I violenti e i vigliacchi alla domanda: «A cosa stai pensando?» rispondono spesso: «A niente.» Bisogna riconoscere che questa domanda è più violenta e vigliacca della stessa risposta, perché esprime talora l’aggressione ad una situazione di riflessione intima. Purtroppo gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti in genere, proprio come gli innamorati, indulgono eccessivamente al piacere di rivolgere questa infelice domanda. Talvolta lo faccio anch’io, e mi capita di pentirmene, soprattutto quando mi rendo conto di averlo fatto per superare la noia di un silenzio prolungato o per scuotere sadicamente la persona tesa ed imbarazzata che mi sta di fronte.
Non voglio dire che non si debba mai domandare a qualcuno che cosa stia pensando, ma dico che bisognerebbe sempre farlo con estrema delicatezza e consapevoli che si corre il rischio di irrompere bruscamente nel mondo intimo dell’altro. Mi si potrebbe obiettare che la psicoanalisi è sempre una brutale intrusione nell’intimità altrui. Anche se ciò è vero, non basta però a giustificare sempre e comunque il terapeuta. La malagrazia non solo è distruttiva, ma non è mai terapeutica. Vi sono pazienti che hanno in serbo una frase di risposta, cattiva ma efficace, che castra irrimediabilmente il terapeuta malaccorto: «Stavo pensando – replicano pronti – che mi avresti domandato proprio questo». Così le posizioni vengono ribaltate: adesso è l’analista che non sa cosa dire, dopo che ha visto smascherato il suo piccolo trucco. A questo punto, il paziente ha tutto il potere dalla sua, anche se non era vero che si stesse aspettando proprio in quel momento quella precisa domanda. E’ vera però anche la mia prima considerazione, che cioè la risposta: «Non sto pensando a niente» rivela vigliaccheria, menzogna e ottusità. Nessuno può – finché vive – fare a meno di pensare, nemmeno per un istante. Ogni azione o momento di quiete sono accompagnati da inarrestabili pensieri, tanto che taluni sentono questa necessità come una condanna: «Sono stanco di pensare – si dice spesso – vorrei rilassarmi un momento, ma sento che i pensieri ugualmente si affollano, si accavallano».
Talvolta sono così stipati i pensieri nella mente e il loro turbinare è così vorticoso che qualcuno cerca di scagliarli all’esterno; è ciò che succede quando si sentono le cosiddette «voci»: frasi di insulto, ordini imperiosi, echi di avvenimenti sgradevoli, l’ossessiva ripetizione di un nome, magari del proprio. La ridda di pensieri si trasforma in sabba infernale. La frase più sciocca che viene detta da parte di chi sta intorno è allora: «Cerca di non pensare». Esortazione stupida come quella che consiglia, a chi è molto teso e trepidante, di rilassarsi! Non serve a niente un tal genere di consigli, se non è accompagnato da un aiuto concreto. Si può aiutare qualcuno a «non pensare» aiutandolo a distrarsi, e pensare a qualcos’altro, si può persino consigliargli tecniche o stratagemmi che lo aiutino a rallentare il turbinio dei pensieri, comunque consapevoli che è impossibile non pensare.
La sensazione di «vuoto mentale» è un non senso: casomai si sta pensando al vuoto; riempito però di frammenti, di immagini, come un pulviscolo: briciole di pensieri. Non è detto però che siamo obbligati a rispondere a chi ci interroga, rivelando quello che stiamo pensando; spesso è giusto ribellarsi ad una simile intrusione. Quando ero giovane e convinto di essere molto più furbo, robusto e disinvolto di quanto non fossi in realtà, mi ero imposto di rispondere sempre, a chi me lo domandasse, dicendo esattamente quale fosse il contenuto dei miei pensieri; ma non mi ci volle molto ad accorgermi, oltre che dell’improduttività, anche della pericolosità di una tale scelta. Non era utile a me, che mi scoprivo e mi sentivo frustrato, né all’altro col quale iniziavano magari inutili e sterili polemiche interminabili. Bisogna insomma avere il coraggio e l’onestà di riconoscere che si sta sempre pensando a qualcosa di abbastanza preciso e tuttavia rispettare l’intimità di questo pensiero in sé e negli altri.
Si pensa sempre, ma è bene lasciarsi andare il meno possibile alla confusione di pensieri troppo sgangherati; è invece utile però trovare la capacità di rilassare la mente lasciando i pensieri fluire, percependoli come pensieri che hanno un contenuto, che debbono essere armonicamente coordinati, fino a trovare un loro significato.

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Ripensando a quanto sostenuto finora, mi sembra che l’assioma: «Pensare è giudicare» significhi sempre prendere una posizione ben precisa, in quanto pretende, in ultima analisi – contrariamente a quanto ho prima affermato – di condannare o di assolvere. Si coordina e si dà senso ai pensieri anche attraverso parametri di valore; forse si potrebbe dire che esistono soltanto giudizi di valore.
Un mio antico insegnante di filosofia distingueva giudizi di valore da giudizi di fatto; oggi io considero questa una distinzione graziosa, ma puramente fantastica. Secondo lui dire: «Socrate è buono», significa dare un giudizio di valore; mentre dire: «Quest’automobile è verde», esprime un giudizio di fatto. In prima approssimazione sarebbe un procedimento accettabile; ma cosa ci assicura che l’espressione: «Socrate è buono», non sia un giudizio di fatto e viceversa non sia un giudizio di valore la dichiarazione che l’automobile è verde? Non ci sarebbe dunque possibilità di coloritura emotiva, di partecipazione, di qualità nel definire il colore di un oggetto? Il verde di per sé non esiste; ma per ciascuno ci sarà un colore verde che sarà bello o brutto, che darà piacere o dispiacere, che si accetterà o si rifiuterà; ed ecco che l’idea di un giudizio di fatto che non accolga in sé elementi di valore non regge più. Decidere che tutti i giudizi siano di valore è però un giudizio di valore o di fatto?

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Non voglio assolutamente sostenere che, per l’uomo, la verità sia impossibile da determinare, semplicemente voglio dire che, per l’uomo, la verità è sempre colorata di affettività, legata a giudizi di valore: questo è vero e mi piace che sia vero, questo è falso e poiché non mi piace sono contento che sia falso. È inutile andare oltre. Pensare è sempre giudicare, cioè assolvere o condannare. Tutti gli esseri umani agiscono in questo modo più o meno consapevolmente: possono accettarlo o rifiutarlo, ma se ascoltano i loro pensieri si accorgeranno che sempre procedono attraverso un meccanismo di accettazione o di rifiuto che non li fa mai essere neutrali nei confronti di se stessi e del mondo; come non sono neutri i loro pensieri, le loro parole e le loro azioni. Nessun essere umano può equipararsi ad uno specchio e neppure il più asettico tra gli psicoanalisti, il quale renderà comunque al suo paziente un’immagine distorta dalle proprie emozioni, dai propri giudizi di valore e di fatto. Ogni terapeuta deve essere molto attento a non voler ingannare, pur sapendo che sarà sempre un po’ strumento di distorsione. Solo nella sincera determinazione di lottare per tenere sé e i pazienti lontani dalla deliberata menzogna starà la sua possibile onestà di uomo e di terapeuta.

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Dopo questa mia esortazione alla moderatezza vorrei ora proseguire il mio discorso.
E’ molto faticoso vivere in un mondo che continuamente giudica, soprattutto quando si è soli ed isolati. Molti si difendono affermando che a loro non importa nulla di ciò che il mondo dice, ma, pur ammettendo che vi possano essere eccezioni, io debbo riconoscere che, per lo più, ci si sente sempre a disagio, per questo continuo essere sottoposti al giudizio. Vi possono essere due principali atteggiamenti di risposta: il primo, è emblematicamente rappresentato dalla frase: «A me non importa di quello che gli altri dicono». Costoro pur affermando di fregarsene degli altri, di fatto poi vivono perennemente intenti a nascondere qualche aspetto della loro vita per evitare il giudizio, giungendo anche a opprimere i famigliari con tiritere del tipo: «A me non importa, ma fate attenzione, lo dico per voi, chissà cosa potrebbe dire la gente se lo venisse a sapere…» Ne consegue spesso un continuo tentativo di nascondersi e nascondere la propria vita agli occhi degli altri che porta a costruire castelli di menzogne anche sulle cose più inoffensive: una malattia o un insuccesso scolastico o sportivo.
Il secondo atteggiamento è invece di chi ostenta esibizionisticamente ogni dettaglio della propria vita e di quella dei famigliari, esponendosi alla curiosità generale, provocando ad ogni costo i commenti e i giudizi. Questo meccanismo esibizionistico, se è sostenuto da personalità abbastanza forti, finisce per dare una certa tranquillità (non per nulla io ho fatto una scelta di comportamento di questo genere: come tutti ho paura di essere giudicato, ma preferisco affrontare il giudizio esibendomi e cercando talvolta di essere sincero). Nessuno però di questi due atteggiamenti di risposta è completamente sano: entrambi disturbano l’equilibrio individuale e del gruppo sociale. Io invito sempre a scegliere l’atteggiamento che ritengo socialmente meno dannoso e più divertente nella situazione in cui viene attuato.

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Mi sono accorto di aver parlato come se ci fosse solo l’ipotesi del giudizio degli altri e senza considerare che ciascuno di noi, io per primo, assumiamo a nostra volta l’atteggiamento giudicatorio, se non sempre almeno molto spesso. Questi giudizi si intrecciano e si aggrovigliano, ma, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non si annullano mai a vicenda: tutti viviamo oppressi dal giudizio altrui e tutti opprimiamo gli altri col nostro giudizio. Alcune persone, anche per ragioni esistenziali indipendenti dal problema del giudizio, scelgono di raggrupparsi in una vita comunitaria di studio e di lavoro in cui si tenta di elaborare una teoria che interpreti il mondo.
Io, alcuni anni or sono, stanco delle pur geniali soluzioni offerte dalla psicoanalisi freudiana, ho avuto l’ardire di pensare qualcosa di diverso. Figlio spirituale di due analisti e un super-visore freudiani, ho detto: basta, rifiuto Freud e la sua cultura, non mi piace il suo sigaro, mi dà fastidio la sua incapacità di capire l’arte e la musica in particolar modo. Mi sono disgustato di quel genio dimezzato e stanco, castrato e frivolo. So che senza di lui non ci sarei stato io, ma senza quelli come me egli stesso sarebbe stato capito solo in parte e solo in parte amato.

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Amo Freud, ma so che egli è stato solo un esponente di una piccola e presuntuosa cultura mitteleuropea, borghese e provinciale, che non ha nulla a che vedere con una classicità di cui il germanesimo ha tentato solo una parodia, empia nel suo tentativo di appropriarsi di una tradizione culturale che è soprattutto mediterranea. Del resto persino la pronuncia del greco fatta dalla scuola tedesca è sbagliata, proprio perché ha nulla di alemanno la musicalità cantata della lingua parlata dagli Elleni. Una musicalità che i tedeschi hanno recuperato solo col divino Mozart: do mi sol si do re do, una lingua che salva chi la capisce, che perde chi non la sa capire.

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Talvolta quindi certe persone scelgono di radunarsi, sotto la guida di un maestro (geniale o idiota) e il mondo si affretta a scaraventare giudizi su questi gruppi; in tribunali e tribune televisive costoro vengono bollati, il loro comportamento stigmatizzato e messo in burla, gli individui emarginati dal contesto sociale. Nessuno o quasi si preoccupa di confrontarsi o di mettere in discussione le proprie scelte con quelle di questi gruppi, tanto che l’emarginazione viene addirittura accettata ed accentuata dai gruppi stessi che si rannicchiano nella loro ortodossia, gelosi dei principi che ritengono di avere trovato, prigionieri talvolta di uno sciocco esoterismo. Io, insieme con quelli che hanno fatto la mia stessa scelta di vita e di lavoro, cerco di evitare questo rifugio nel narcisismo e nel sado-masochismo, andando alla ricerca del confronto e della discussione, e anche della lotta. Ma so quanto sia difficile mantenere con coerenza questa scelta e quanto sia più facile la via dell’auto-emarginazione. Il tentativo di emarginare me e la mia scuola è ancora in atto, da parte dei media e della convenzione culturale dominante. Spero che saremo capaci di rispondere, stringendo e rinsaldando tra noi le fila, ma non in un ripiegamento che escluda e ci autoescluda, bensì in uno sforzo di proiezione verso l’esterno, affrontando il giudizio sul campo e portando lì la legittimità del nostro giudizio e la parità di dignità.

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La storia e la cultura hanno offerto nei secoli la giustificazione dei ghetti. Il ghetto per antonomasia è divenuto quello che designa nelle città il quartiere abitato dagli Ebrei. Gli Ebrei che per secoli vi sono stati costretti, sono a loro volta convinti di essere i depositari della legge divina, prescelti in quanto i soli puri. Ma chi ha dato loro la certezza: forse quel Jahvè di cui non è dato neppure pronunciare il nome? Il ghetto esprime in modo chiaro questa doppia valenza del giudizio su di sé e il mondo: gli ebrei sono ghettizzati perché si proclamano puri e per salvaguardare questa purezza si rinchiudono in un microcosmo che li preservi dal contatto con tutto quello che puro non può essere. Gli Ebrei sono però riusciti, e la storia lo dimostra, nel bene e nel male, a fare di questa doppia scelta un punto di forza, da cui parte il loro costante tentativo di confrontarsi con il mondo. Ebrei, cristiani e musulmani si richiamano allo stesso Dio, impronunciabile, irraggiungibile, ma profondamente vicino agli uomini; un Dio così vero che, a volte, è riuscito a sconfiggere persino la concreta sensualità degli dèi greci.

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Concludendo: bisogna evitare ad ogni costo di fare la scelta di quelli che si rintanano nei loro ghetti per sfuggire il giudizio. Bisogna scegliere di ribellarsi e di uscire dal ghetto. Lo so che così facendo si perde la purezza, so che spesso il ghetto ha rappresentato la salvezza di tradizioni e culture che, rifugiandovisi, hanno preservato le loro caratteristiche specifiche, sfuggendo alla massificazione nullificante. Io però non sono disposto a rinchiudermi nel recinto, quando suona la campana e a rinunciare all’aperta luminosità del cielo senza confini.
All’aperto, in spazi liberi, voglio affrontare il giudizio del mondo e rivendicare il mio diritto di giudicare a mia volta. Se non ci riuscirò, allora, forse, fuggirò anch’io in un’isola felice, dove giovani bellissimi vivono nudi, nutrendosi di pesci e di frutta, vendendo l’amore per quattro soldi, incuranti del fatto che il giudizio del mondo condanni la prostituzione; appagati dal sole e dalla loro bellezza.