Psicoanalisi contro n. 41 – A ragionar d’amore

marzo , 1988

Se il tempo non fosse un’invenzione umana, potremmo dire che l’uomo è apparso sulla terra tantissimo tempo fa. «Che cosa c’era prima del tempo?» Si domandano gli adolescenti quando incominciano a sentirsi filosofi. All’ansia dei giovani hanno tentato di rispondere scienziati, filosofi, teologi ed artisti, nelle diverse lingue, antiche e moderne; ma non hanno trovato risposte soddisfacenti ad un interrogativo che ancora pare non avere soluzione, per gli adolescenti, che posson così continuare a filosofeggiare.
L’uomo, appena cessa di essere solo un cucciolo, si riempie la bocca di un’altra parola, dai contorni misteriosi: «infinito». Infinito è ciò che non finisce mai, contrapposto a qualcosa che si conclude. Qual è il senso dell’infinito? Sapienti e presuntuosi hanno, da sempre, tentato di rispondere ed hanno coperto di parole tavolette, incunaboli e libri. Il tempo è percepibile solo attraverso il ritmo, attraverso la «successione delle fasi di uno svolgimento o di uno sviluppo» (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, 1971). Il ritmo è anche suono, quindi anche tempo è suono. Il tempo che coincide col ritmo è qualcosa di diverso da quello entro cui scivola il trascorrere della vita umana?
La vita umana è scandita da ritmi: il divenire delle stagioni, il roteare delle sfere celesti, il pulsare delle onde del mare, il battito del cuore. Tutto ritorna continuamente ad un punto da cui ricomincia. Questa sembra un’affermazione auto-evidente, eppure non è così: nulla infatti ritorna mai davvero al punto di partenza; non tanto perché tutto fluisce: «panta rèi» ; ma per una ragione più profonda: ogni pulsazione è in realtà irripetibile. Nessun musicista riuscirà mai ad eseguire due terzine esattamente nello stesso lasso di tempo, e nemmeno ci riusciranno gli strumenti più precisi e sofisticati. Ogni palpito dell’essere è sempre irripetibile, chiuso, prigioniero del tempo e dello spazio, di quell’unico istante. Il ritmo è quindi sempre un’approssimazione, forse addirittura un’illusione, che sfugge al tempo, e viceversa. Il ritmo, che è una fantasia improbabile, è però immaginato dalla mente come un distendersi in uno spazio. Anche il tempo è pensato in rapporto ad uno spazio. Ritmo, tempo, spazio, eternità ed infinito si sovrappongono: l’infinito è un ritmo che non ha fine, l’eternità è una melodia che non giungerà mai alla cadenza conclusiva e non ha avuto preludio. Nessuna ouverture è davvero un’apertura; ma è sempre il proseguimento di qualcosa. Siamo sempre a metà del tempo e dello spazio, circondati da un ritmo impossibile, assolutamente incapaci di rispondere alle domande più antiche: «Cosa c’era prima del tempo e dello spazio? Che cosa sono eternità ed infinito? » Domande alle quali nessun sapiente ha ancora trovato risposta e alle quali gli adolescenti continueranno a cercare di rispondere da soli.

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Ritorno all’affermazione iniziale: tantissimo tempo fa l’uomo è apparso sulla faccia della terra, o meglio, l’uomo ha detto a se stesso di esserci in quanto uomo. E’ difficile stabilire se dapprima vi sia stata una percezione confusa del proprio essere nel mondo, o se, invece, l’uomo si sia improvvisamente come destato da un sonno ed abbia avuto la consapevolezza di sé. Certamente vi è stato un istante nel mezzo del tempo, tantissimo tempo fa, in cui l’uomo ha detto: «Io sono e so di esistere.»
Esistere e sapere di esistere è pero troppo poco: non è mai bastata a nessuno la sola consapevolezza dell’esistenza. E’ necessario sapere che cosa sia quest’esistenza; ma per definire l’esistenza bisogna definire l’uomo, poiché è l’uomo che definisce l’esistenza. L’esistenza è ciò che l’uomo dice che l’esistenza sia. L’esistere precede il pensare? Credo di no; però l’esistenza è nulla, se non ha chiaroscuri. Non si può sapere di esistere, se non si danno a questo esistere alcune caratteristiche che lo individualizzino: una figura bianca su di uno sfondo altrettanto bianco non è distinguibile, perciò l’uomo, che tanti anni fa ha incominciato ad esistere, perché si è accorto di esistere, deve avere detto non soltanto: «Io sono.» Ma anche: «Io sono questo; queste e non quelle sono le mie caratteristiche.» Ciò che il buon senso e la psicologia spicciola situano in momenti successivi del divenire dell’esistenza dell’uomo nel mondo, io penso che, invece, siano scoppiati all’improvviso, insieme, come in un big-bang dell’anima. Molto saggiamente, Antonio Rosmini diceva che il bambino non domanda mai all’adulto se quella cosa esiste, ma che cosa quella cosa è. Questo avviene perché egli sa già cosa voglia dire esistere, oppure perché non lo sa ancora? In parte lo sa, in parte non lo sa ancora e in parte non lo saprà mai. Io penso che il bambino sempre abbia in sé alcune risposte alle domande che pone: l’inconscio sociale del gruppo in cui è nato gli ha fornito quelle risposte, insieme con la con-sapevolezza di esistere; ma le origini di quel sapere sono molto lontane. I sapienti hanno cercato di dare una definizione dell’uomo che lo caratterizzasse, che lo distinguesse da tutti gli altri esistenti. L’uomo si percepisce come una forma e si sente immerso in un divenire di forme che fluiscono nello spazio e nel tempo, secondo un ritmo, improbabile ed impreciso, però avvertibile come tale. Le risposte alla domanda: «Qual’è l’essenza dell’uomo?» sono state tantissime. Ho cercato di riflettere sulla possibilità di ricondurle ad una sola, senza però riuscirci; forse per la mia incapacità, forse per la mia paura di sentirmi, in quanto uomo, imprigionato da una definizione. Le definizioni di uomo in cui mi sono im-battuto, nella mia lunga storia, sono difficilmente sovrapponibili le une alle altre, hanno però una caratteristica in comune: quella di non essere mai soddisfacenti. Tutt’al più riescono a dire qualcosa non di ciò che l’uomo è, ma di ciò che vuole essere; e poiché i desideri sono tanti, le definizioni di uomo sono altrettante. L’uomo esiste poiché sa di esistere ed è consapevole di questa esistenza, anche se non la sa definire. E’ vero che non si può andare oltre la consapevolezza dell’esistenza; ma la consapevolezza dell’esistenza non è altro che la forma bianca su di uno sfondo bianco! Non è quindi possibile all’uomo percepire se stesso come semplice essere. Si affollano molte definizioni; ciascuno ne ha scelte, più o meno consciamente, alcune e vive attribuendo a se stesso e agli altri quelle caratteristiche. Noi sappiamo di essere e sappiamo anche ciò che possediamo, almeno in parte; ma quale sia il senso dell’uomo non lo sappiamo. E’ inutile, allora, andare alla ricerca dell’essenza dell’uomo! Non si può però ignorare l’esigenza di chi, come gli adolescenti, continua a porsi le stesse domande. Dobbiamo allora sforzarci di trovare una definizione, che ci caratterizzi come forma distinta dalle altre forme che ci stanno intorno; pur essendo consapevoli che tutto è racchiuso in una forma troppo grande per essere compresa.

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Nella ricerca del proprio significato, l’uomo percepisce con disagio che una sua caratteristica peculiare è la limitatezza. Tutti gli esseri dell’universo sono, forse, limitati. Non siamo però certi che gli altri esseri percepiscano la loro limitatezza allo stesso modo, e neppure sappiamo bene il significato dell’espressione: «altri esseri». Gli enti sono tanti, diversi fra loro e, che siano limitati, è una nostra opi-nione di uomini, che proiettano altrove la loro propria scomoda consapevolezza. Io mi sento limitato non soltanto perché circoscritto in uno spazio ed in un tempo, ma perché so di non potere tutto. I desideri sono tanti: solo alcuni si realizzano e inoltre quasi mai appieno. Molte persone mi hanno raccontato una identica esperienza: quando da bambini o adolescenti si immergevano in fantasie sessuali, sentivano il loro corpo ricco di sensazioni calde ed intensissime; al confronto delle quali la successiva realtà di un rapporto sessuale completo, con un partner di cui avevano potuto stringere il corpo tra le braccia, sentire l’odore e il calore, era stata troppo deludente. Tanto che si erano posti una domanda terribile: «Tutto qui?» Avevano immaginato quel contatto più bello e infinitamente più ric-co… Ecco allora l’insorgere, spesso, di patologie anche gravi, legate a quella delusione: frigidità, impotenza, rifugio nella masturbazione coatta. Un’insoddisfazione di fondo che, lentamente, talvolta si era poi estesa agli altri aspetti della vita. Sensazione di inutilità e noia: il piacere immaginato era stato troppo grande e quello realmente provato troppo piccolo. Una madre mi raccontò, molto preoccupata, di aver visto, un giorno, il suo bambino pensieroso e triste; interrogato sui motivi di quella tristezza, era scoppiato a piangere e, in lacrime e con rabbia, le aveva detto: «Dio è cattivo: perché non ci ha messo gli occhi anche di dietro.» La disperazione di quel bambino nasceva da una sensazione di limitatezza. Quanti e quali altri doni ancora avrebbe dovuto elargirgli Dio, per appagarlo? Forse, per accontentarlo, avrebbe dovuto renderlo simile a sé.
Il corpo umano è troppo limitato e, anche quando funziona alla perfezione, costringe comunque la persona, le impone alcuni comportamenti e gliene impedisce altri: lo sguardo è sempre troppo poco acuto, l’orecchio troppo debole, i muscoli troppo flaccidi, il respiro troppo breve, si corre e non si vola, e, se si volasse… Il corpo è fragile, continuamente aggredito da agenti patogeni, esterni ed interni, che spesso lo sopraffanno. «Vorrei ancora mangiare un po’ di questo cibo così buono e bere altro di questo vino profumato.» mi disse, una sera, un amico. Il cibo era delizioso e il vino pregiato; stavamo bene insieme e avremmo voluto continuare ancora ed ancora; ma il corpo era disgustato sebbene lo spirito non fosse ancora soddisfatto. O forse era la mente ad essere disgustata. Più probabilmente era solo un conflitto tra piaceri. Anche il pensiero dell’uomo è limitato: riesce a fantasticare molto, ma non arriva mai a sfruttare tutte le possibilità della fantasia. Gli uomini non riescono neppure ad immaginare cosa sia l’onnipotenza, allo stesso modo in cui non riescono a concepire l’infinito e l’eternità. L’uomo non solo non riesce a realizzare, fino in fondo, tutte le fantasie o i desideri piacevoli, ma trova dentro di sé una quantità di voglie che spesso sono tra loro in contrasto, e in questi casi la sua limitatezza è ancora più evidente e più pesante. Inutilmente Orazio invita: «Modus in rebus». Saper raggiungere un equilibrio, non desiderando mai l’eccesso è l’unica possibile felicità per l’uomo, ma è sempre mescolata con l’insoddisfazione e l’infelicità. Sapersi accontentare è saggio; ma dove sta il giusto punto in cui porre il limite?

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«La vita e troppo breve. – mi disse, con angoscia, qualche giorno fa, una persona, torcendosi le mani – E’ molto tempo che faccio analisi, appena adesso sto intravedendo un po’ di luce, mi pare di stare meglio, con me stesso e con gli altri. I sintomi per cui avevo iniziato la cura sono spariti tutti, però non mi passa quest’idea fissa che ho fin dall’infanzia: la vita è troppo breve! Dovrò ancora lavorare, lo sento, per migliorare il mio modo di stare nel mondo, e, forse, quando sarò quasi contento di me, dovrò dire addio per sempre alla vita. Non tollero l’idea che altri vivranno dopo di me; non sopporto che qualcuno potrà godere ancora del mare, quando io non potrò più; soprattutto perché avrò potuto goderne per così poco tempo! Ottanta, cento anni sono troppo pochi: invidio gli antichi patriarchi di cui parla la Bibbia, che vivevano centinaia di anni; anche se sono certo che, giunti al termine della loro lun-ghissima esistenza, hanno desiderato ugualmente di avere ancora un po’ di tempo davanti a loro.» Lo stetti ad ascoltare in silenzio, mentre in mente mi tornavano i versi conosciuti quando ero ancora bambino: «lo so che è l’ora, lo so che è tardi / ma un poco ancora lascia che guardi / …». Pascoli provava gli stessi sentimenti nel sentire i rintocchi che venivano da un campanile e L’ora di Barga ha espresso per me e per tanti altri il rimpianto per tutto quello che dobbiamo lasciare. Continuava anche lo sfogo dell’uomo davanti a me: «Non mi basta pensare che forse ci sarà un’altra vita, e non solo perché non ne sono sicuro, ma perché io è questa vita che voglio, la voglio più lunga di quanto sia possibile, vorrei goderne di più: i miei progetti non possono mai essere di respiro abbastanza ampio, non tollero così tanti limiti!» Mi guardò con sfida e soggiunse: «Nessuna psicoanalisi riuscirà mai a guarirmi di questo male.» Gli replicai convinto: «E nessuna filosofia, purtroppo!»

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Ho più volte detto quanto sia limitata per l’uomo la possibilità di possedere la verità: raggiungere il vero è un desiderio sempre inappagato. Non sto però solo parlando del Vero, con la lettera maiuscola, parlo anche della possibilità di capire, almeno in parte, ciò che ci circonda: l’insieme dei fenomeni naturali, fisici, quelli della stessa psiche umana. Le nostre conoscenze sono imprecise e continuamente contraddette; più cerchiamo di sistematizzarle, più i sistemi si intricano e alcune certezze che prima sembravano faticosamente conquistate scompaiono. Lo stesso quotidiano accadere delle cose è colto con fatica dalla mente che non riesce a capire appieno il meccanismo dei comportamenti individuali, sociali e politici. In situazioni di disagio psichico accentuato, c’è chi giunge ad ipotizzare l’esistenza di personaggi potentissimi che in qualche palazzo lontano tengono in mano i pulsanti del potere assoluto: il divenire della storia si svolgerebbe secondo la loro volontà. Io ritengo che anche coloro che seggono sugli scranni più alti e che ufficialmente svolgono il ruolo di padroni dei destini dei popoli, di fatto, conoscano poco dell’insieme dei motivi che determinano la storia; forse conoscono a malapena qualcosa di più della gran parte degli uomini comuni. E’ difficile comprendere la vita di tutti i giorni, perché ogni momento di essa si inserisce in un disegno più ampio, storico e sociale. Se si riuscisse a capire il divenire della storia si riuscirebbe a capire anche la ragion d’essere dell’Assoluto, che non è soltanto una fantastica romanticheria. Anche l’umana capacità di imparare è grandemente limitata: quante sono le cose che ciascuno di noi dovrebbe o vorrebbe sapere? Eppure del mondo ricco e variopinto in cui viviamo non siamo riusciti ad imparare che pochissimo. Anche le pseudo verità scientifiche e le meravigliose opere dell’arte sono da ognuno di noi conosciute soltanto in piccola parte; moltissimo ci sfugge e non lo conosceremo mai. Io compero tanti libri saturi di sapienza, di poesia, di pensieri affascinanti e profondi, li studio con attenzione; mi è accaduto di esaltarmi o innamorarmi di loro leggendoli, eppure quanto del loro contenuto è perduto? Certo troppo: forse qualcosa ogni tanto riaffiora a distanza, ma è sempre poco quello che resta. C’è l’urgenza di imparare sempre qualcos’altro senza mai avere il tempo di fermarsi abbastanza su nessuna delle cose imparate. Forse bisognerebbe avere il coraggio di scegliere un unico libro e vivere con esso: analizzarlo, accarezzarlo, conoscere davvero quello che è scritto nelle sue pagine. Ma questa è una mia fantasia un po’ sciocca e forse deri-va dalle troppe frustrazioni causatemi dalla consapevolezza della mia grande ignoranza. Non siamo capaci di muoverci adeguatamente neppure nel piccolo cumulo di approssimazioni che costituiscono la materia delle nostre scienze.

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Da sempre, l’uomo parla della propria ragione, esaltandola. Prima se l’è inventata, l’ha definita, poi ha creduto di possederla. Anch’io ho detto a me stesso: adesso fingo che la ragione esista. La ragione sarebbe quello strumento che permette all’uomo di capire, manipolare e dominare il mondo; inoltre dovrebbe essere la matrice del progresso. E’ molto difficile oggi credere nel progresso; è più facile rendersi conto che le cose cambiano, ma credere che realmente la vita dell’uomo migliori è forse un po’ ingenuo. Il «secolo dei lumi» ha creduto intensamente nella possibilità del progresso, basta seguire la luce del ragionamento, senza lasciarsi suggestionare da superstizioni o da preconcetti e il progresso sarà inevitabile. Gli illuministi non parlavano della infinita ragione divina, ma della semplice e claudicante ragione umana. Nonostante la sua limitatezza – dicevano – la ragione può permettere all’uomo di estendere indefinitamente il proprio controllo sulle cose. L’infinita ragione di Dio è tra-scendente e non interessa l’uomo. Invece la ragione umana, che pure non è infinita, può infinitamente guidare il progresso dell’umanità attraverso la storia. Nell’epoca successiva ai «lumi», Dio si è nuovamente presentato in atto: spirito infinito, razionalità assoluta, espressa nello splendore della natura, raccontata dai filosofi, realizzata nelle imprese dell’uomo. L’humus della filosofia, dell’arte e della fantasia popolare del romanticismo ha nutrito di sé l’esaltazione che l’epoca seguente, del positivismo, ha fatto della ragione, identificata con la scienza. La verità è diventata raggiungibile per l’uomo positivista che ha scoperto i segreti della materia e le stesse leggi che governano il divenire di tutta la realtà. Si è detto basta alle ciance metafisiche, e si è aperta la strada a esperimenti, laboratori, misurazioni; convincendosi così che l’uomo, grazie alla ricerca razional-scientifica, avrebbe potuto estendere il proprio dominio al di là di ogni immaginabile limite. Parallelamente – chissà perché – si è voluto eliminare il concetto di Dio, sostituendolo con quello di meccanicismo universale. In questa prospettiva, l’uomo ha pensato di poter migliorare anche le sue qualità psico-fisiche, divenendo sempre più intelligente, sempre più forte, sempre più grande, capace di capire ogni cosa e di conquistare qualunque obiettivo. L’uomo si è abituato a considerare se stesso alla stregua di tutte le altre manifestazioni naturali: come la natura cedeva alla comprensione e al dominio della scienza, così l’in-dividuo e la società divenivano sempre più chiari per l’uomo stesso, in grado di controllare sempre meglio il proprio organismo e l’ambiente naturale e sociale. Il limite costituito dal momento storico era diventato superabile, in un momento successivo, dall’uomo capace di raggiungere all’infinito nuovi traguardi, un limite quindi che non pesava più. A dispetto degli antichi padri illuministi, l’Ottocento aveva così fondato la religione della scienza.

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Nelle stesse epoche dell’illuminismo, idealismo e positivismo è giunta dall’oriente a noi una nuova concezione dell’uomo, secondo la quale egli è l’espressione particolare di un tutto di cui fa parte: un assoluto che trascende sia la materia, sia lo spirito. In questa ottica, l’umana limitatezza non è un problema: basta non volersi sforzare di superarla ad ogni costo con i mezzi della ragione. Nell’uomo esistono potenzialità ancora sconosciute, alle quali può fare ricorso: se ha creduto di poter comunicare il proprio pensiero soltanto con le parole, di leggere i sogni solo come elaborazione di desideri, ha ignorato per questo una gran quantità di forze che agiscono nell’anima e nella mente; energie non sfrut-tate, che possono permettergli persino di travalicare lo spazio e il tempo. Oggi e domani possono coincidere. La volontà può trarre dallo spirito forze tali che molti limiti possono crollare. Anche questo però, a mio avviso, è di nuovo un cadere nella individuazione, nel presente, nella voglia di potere.

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Probabilmente, la contrapposizione netta tra cultura occidentale ed orientale è una semplificazione eccessiva e quindi sciocca; è anche una forma di delirante razzismo affermare che mentre l’occidente si sarebbe fondato – fin dalla filosofia greca – sul ragionamento, sulla tecnologia e sul concetto di progresso, l’oriente invece avrebbe – da sempre – privilegiato la contemplazione e la confusione dell’uomo con «l’essere». Queste affermazioni banalizzanti sono comunque state molto utili a coloro i quali, in ogni tempo, hanno voluto portare in oriente, insieme con i lumi della ragione, un potere travestito da civiltà. Da quelle lontane terre può venire all’uomo occidentale quel più di anima che gli manca, quella capacità di ascoltare i sentimenti, di lasciarsi andare all’intuizione che sono prerogative indispensabili di una vita ricca e completa. Gli orientali però devono avere l’umiltà di imparare dall’occidente quanto siano utili la scienza basata sull’esperimento, la tecnologia e lo sfruttamento razionale delle risorse della natura. Molti orientali, per lo più laureati nelle università europee ed americane, hanno purtroppo rafforzato questa divisione, incrementando la favola di un’antica tradizione orientale e di una moderna efficienza occidentale. Lo hanno però fatto quasi sempre dal punto di vista e a vantaggio dell’occidente.
Io credo nella diversità delle culture, ma non credo nella contrapposizione oriente-occidente o nord-sud. Mi ribello all’idea che una statuetta di legno levigato, prodotta dalla geniale capacità di un artista africano, sia per me del tutto incomprensibile, anche se lo è di più di una scultura di un maestro del gotico. Neppure credo che il suono di strumenti che producono musiche basate su codici linguistici diversi da quelli su cui io stesso mi baso, debba necessariamente restarmi estraneo, anche se capisco con più facilità un quartetto di Reger. Soprattutto mi ribello a quella forma di razzismo capovolto, per cui quelle misconosciute opere d’arte sarebbero comunque sempre più profonde e migliori di quelle il cui linguaggio ci è più familiare. Troppe volte, dietro questo atteggiamento si nasconde l’affermazione inconscia che le opere di quelle lontane culture sono più semplici, più sciocche e più infantili dell’Orfeo di Monteverdi o del Palco di Renoir. Gli uomini debbono avere un denominatore comune, se no il razzismo avrebbe fondamenti biologici; se ci fosse tra le civiltà una diversità sostanziale, porterebbe con sé l’inferiorità di chi è percepito come diverso, perché solo nell’uguaglianza c’è la parità dei valori. Di fatto ogni uomo è un uomo e io mi sento di affermarlo pur non conoscendoli tutti.

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Forse uno solo dei grandi pensatori orientali ha compreso quanto importante sia la lotta perché possano affermarsi i diritti di tutti gli uomini. Sante sono le tradizioni, le religioni e i costumi, ma Dio, comunque venga chiamato, vuole che le sue creature siano tutte rispettate e conoscano il reciproco rispetto; non con la guerra questo può essere ottenuto, ma con la pace. Con la non-violenza, che, quando non è grottesca e ricattatoria parodia, è molto più incisiva di ogni assurda, stupida e criminale, brutale violenza…
Ecco perché io, quando mi sono trovato ad affrontare il problema del disagio mentale ed ho cercato di prendermi cura di coloro che, per questo, soffrono, ho scelto la cosiddetta «psicoanalisi».
Questa è una forma di intervento che usa come strumento terapeutico la comprensione e il rispetto dell’altro, prima di tutto. Non sono contrario a nessun tipo di intervento, neppure agli psicofarmaci; ma sono contrario a qualunque terapia: di parole, gesti, chimico-farmaceutica, che aggredisca e basta, che manipoli soltanto, che operi cioé quella che è la vera violenza. L’unica strada della cura è la comprensione, e non va percorsa in solitudine, ma in compagnia dell’altro e di Eros.
Affermazione abbastanza utopistica, mi rendo conto, tanto che talvolta mi scoraggio; anche se, guardandomi indietro, posso constatare di essere riuscito a lavorare e a lottare finora proprio perché mi sono attenuto a questi principi. Ho paura, spesso, di quello che dico e, ancor di più, di quello che faccio; ho paura di ingannarmi e di ingannare. Senza dubbio, è una paura che nasconde uno smisurato desiderio di potere, il bisogno di affermare la mia verità. Io sento però che in me c’è anche quella paura semplice e diretta che, quando non inibisce l’agire e il pensare, diventa utilissima, perché rende cauti, circospetti e tiene a bada la tracotanza.

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L’uomo, ovunque, tenta di superare i limiti in cui è costretto; spesso ne avverte il peso con fastidio, con angoscia, con frustrazione. Soltanto l’allegria riesce a mitigare l’angoscia per la propria limitatezza.
Ho parlato d’allegria, che è una delle espressioni considerate meno importanti della felicita, perché penso che sia più specifica degli uomini che non la felicità, che mi pare che si addica di più agli dei; e si sa che gli dei sono invidiosi degli uomini felici; non lo sono invece di quelli allegri. Io però non ho mai davvero creduto all’invidia degli dei. Credo invece nell’invidia che l’uomo prova per gli altri uomini e in essa vedo la radice del male. L’invidioso non sarà mai allegro, perché sarà sempre insoddisfatto di ciò che ha, perché troppo pesantemente sente in ciò che è degli altri un limite al proprio possesso. L’allegria vera è strettamente legata alla salute; ma quante volte atteggiamenti sgangheratamente ilari, saltelli buffoneschi, volti rattrappiti in un perenne ghigno ridanciano, nascondono una profonda disperazione! E non solo nella retorica del clown triste! Per allegria si può certo compiere anche una capriola. Allegramente però si può passeggiare, accarezzare un oggetto o un essere vivente, mangiare, soli o in compagnia, lottare per raggiungere un obiettivo. L’allegria è come la tristezza: non sono sentimenti costanti, ma si alternano e spesso sfumano l’una nell’altra; questo loro fluttuare ed avvicendarsi e il loro stesso sovrapporsi non debbono essere causa di confusione: l’allegria è il fine, la tristezza talvolta, può essere il mezzo che ci permette di raggiungere la serenità, la consapevolezza e la salute. Solo la sofferenza deve sempre essere rifuggita. Io non credo nel sacrificio fine a se stesso.
Credo nella lotta, credo che lo sforzo possa anche essere doloroso, però so che deve avere come punto di arrivo il superamento della sofferenza, nostra ed altrui.
Il fine deve essere quello di star seduti con chi ci è vicino a ragionar d’amore.