Psicoanalisi contro n. 29 – Fuori i barbari!

febbraio , 1987

«Arpagone: Al ladro! Al ladro! All’omicida! Giustizia, giusto cielo. Sono rovinato, assassinato, mi hanno pugnalato alla gola, mi hanno rubato i miei soldi. Chi sarà stato? Dov’è andato? Dov’è? Dove si nasconde? Come lo ritroverò? Da che parte devo correre e dove non devo andare? È mica là? O qui? Chi è la! Alto là! Rendimi il mio denaro furfante…» (Moliére, L’avaro, atto IV, scena VII).

Arpagone acquista nella commedia di Moliére, a questo punto, una dignità tragica: quel danaro è tutta la sua vita, l’oggetto di un amore appassionato ed ardente. In quelle frasi accorate, disperate, esplode la terribile, perversa personalità di un avaro. Tutti i sentimenti, quando sono esaltati ed esasperati sino al parossismo, finiscono per dare una sensazione di grandezza; ciò è forse male: bisognerebbe avere il coraggio di ammirare l’abilità dell’autore, o dell’attore che in quel momento sulla scena rappresenta con efficacia la disperazione di un vecchio ed essere nello stesso tempo consapevoli che dietro c’è qualcosa di ben poco dignitoso. Questo amore ignobile per il danaro si esprime con parole intense; ma quel vecchio è spregevole e lo è stato per tutta la vita; spregevoli sono sempre stati i suoi sentimenti e il suo ottuso rifiuto di comprendere gli altri. Eppure, nostro malgrado, ci appassioniamo a vedere quel personaggio che giganteggia sulla scena con il suo delirante amore per una cassetta piena d’oro; lo seguiamo mentre si trasforma in un uomo accasciato, divenuto un cencio floscio, solo dei panni su di un uomo che non è più niente perché ha perduto la sola cosa che per lui vale: il suo danaro; ci siamo appena riempiti di pietà che eccolo, però, tornare a risorgere grande e perverso.

Viviamo in un mondo in cui il bene si nasconde e la sopraffazione, il delitto, la distruzione si accaniscono sia contro le più piccole e ignorate esistenze degli animali sia contro l’umanità intera. Pascoli si commuove per una rondine; «l’uccisero: cadde tra spini/ ella aveva nel becco un insetto/ la cena de’ suoi rondinini…» (X Agosto). Questa è per lui la metafora della sorte di suo padre, ucciso sulla via del ritorno verso casa. C’è pietà per la rondine e per i rondinini, nel cuore del poeta, ripiegato sul suo dolore; ma non c’è neppure il sospetto di una compassione per il «verme», che forse, dopo una giornata felice, si aspettava una notte serena, sotto quel cielo di stelle. Anche i poeti, affranti davanti al dolore universale, ignorano gli aspetti più nascosti del male se riguarda un mondo che non capiscono: un formicaio o un bugno di vespe.

Quando l’artista riesce ad esprimersi, i sentimenti che comunica diventano carichi di tutti i significati possibili, egli diventa la voce di ciò che non ha in sé la capacità di dire. L’abilità dell’artista trascende anche i sentimenti meno nobili e comunica emozioni per valori che la morale non approva. La disperazione di Arpagone diviene metro per l’umanità intera e non importa più che l’oggetto ne sia il danaro vile, «sporco» come si diceva una volta, causa di mali, guerre e morte. Nel caso specifico agisce forse il fatto che tutti ci sentiamo partecipi della sofferenza per qualcosa che indirettamente o direttamente è fondamentale per tutti gli uomini. Lo sappiamo: sfruttiamo, tradiamo, uccidiamo persino, per danaro, possiamo quindi ben comprendere Arpagone che piange quando lo ha perduto. Arpagone è l’essere umano in cui è più facile identificarsi di quanto non lo sia la mosca, che si dibatte nella tela del ragno, in assoluto forse più dignitosa, che però non ha ancora trovato chi ne celebri il tragico destino.

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Sebbene la sua disperazione sia meno degna di ogni altra di partecipare del sentimento del sacro, pure Arpagone è considerato un grande personaggio, come un eroe tragico. Difficilmente però gli avari, fuori dalla scena, riescono a raggiungere le sfere della grandezza. Intorno a noi vivono decine di Arpagone i quali consumano le loro piccole vite lesinando agli altri e contrabbandando la loro meschinità per giustizia. Non bisogna mai credere alla giustificazione dell’avaro che sostiene di comportarsi con gli altri come con se stesso. Sarebbe una stupida indulgenza che nasconderebbe una ancora più stupida miopia: l’avaro non è mai avaro con se stesso, lo è sempre soltanto con gli altri. Se rinuncia a viaggi, a libri, a piaceri lo fa solo perché il suo più grande piacere sta proprio nel non dare, e a questo mondo, se non si paga, non si ha niente, né il buon vino, né le belle automobili né i mobili antichi. Ci sono avari che lesinano a se stessi anche quando non c’è nulla da spendere, anzi, quando qualcosa viene loro donato lo centellinano, ne mettono in serbo la più gran parte e proprio qui sta la loro soddisfazione: nel trarre il massimo rendimento da ciò che non è costato, nel far rendere cento ciò che per il donatore vale dieci. Il dono, inoltre, deve avere anche la funzione di colmare parte della vita dell’avaro. Benché l’avaro sogghigni di piacere perché sa di non aver rubato, egli è in realtà l’unico vero ladro; perché cerca di non dare mai, sperando sempre di ricevere qualcosa in più del previsto: quel di più è il furto di cui gode e che sa non essere punibile. Gli avari si appropriano delle cose minime: i buoni sconto nella cassetta delle lettere, o l’omaggio da quattro soldi nella busta di plastica; solo raramente compiono veri e propri furti perché non accettano di correre il rischio; i veri avari vogliono anche essere certi di non dover pagare lo scotto; non si espongono, ma se non li trattenesse la paura ruberebbero anche il Colosseo e la Tour Eiffel. Poiché sono vili si limitano a sfruttare per anni lo stesso cappotto rivoltato e lo stesso maglioncino fuori moda trovati tra le cose smesse dall’amico. La somma di tutti questi piccoli gesti furtivi appaga gli avari.

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Gli avari in genere, come ho detto, si ritengono giusti, ma non lo sono: l’ingiustizia, anzi, li caratterizza; una ingiustizia ancora più profonda, perché mascherata da equità. Gli avari spesso restituiscono ciò che hanno chiesto in prestito; ma sono i primi a mettere la quota in una colletta, purché ciò avvenga sotto gli occhi degli altri. L’avaro, quando è al bar con gli amici, si trova sempre un passo più lontano dalla cassa, come per distrazione, e se proprio viene costretto ad affrontare il problema di dover pagare, si accorge di aver dimenticato il portafogli o di avere solo banconote di grosso taglio. Un avaro difficilmente tenta grandi truffe: debbono allora subentrare altri fattori che contraddicono la pura avarizia. Il vero avaro non ha mai le sigarette; gli mancano sempre le cento lire; guarda nel piatto del commensale, timoroso che la porzione dell’altro sia più abbondante della sua e, al ristorante, è dilaniato: se il conto sarà pagato alla romana, un piatto carissimo, da lui scelto, potrebbe avvantaggiarlo rispetto a quelli che avranno scelto piatti meno cari, ma farebbe salire il totale; se sceglierà invece un piatto meno caro la cifra scenderà, ma in proporzione egli sarà in svantaggio; la sola speranza gli appare quella di ordinare per ultimo: «a conti fatti» sarà forse meno drammatico scegliere. Esortazioni alla parsimonia vengono dagli avari che provano piacere nel turbare il godimento che gli altri provano nello spendere ciò che lui non spenderebbe.
L’avaro accumula, ma non troppo. Chi ha veramente succhiato il latte dell’avarizia fin dal seno materno, sarà sempre cauto nell’accumulare ricchezza, perché questa lo esporrebbe a rischi, perché sarebbe faticoso gestirla; meglio un piccolo benessere, facile a mimetizzarsi, carpito lentamente agli altri e quindi più prezioso. È più importante la sicurezza del possesso che non la sua grandezza. L’avaro non dà mai per primo: fa sempre il calcolo; sa di dover restituire quello che gli danno quasi in egual misura e si convince di rendere il giusto trovando le ragioni per dare invece un po’ di meno. Teme di ricevere per l’angoscia di dover ricambiare, temendo di dover restituire troppo. Talvolta l’avaro compie, all’improvviso, un gesto di generosità: ne ha un bisogno psichico, per rassicurarsi di esserne capace. Ci sono veri e propri deliri persecutori tipici dell’avaro: tutti lo espropriano, non riesce più ad ottenere nulla, tutti gli sono nemici, entrano in lui, si appropriano della sua stessa persona. Il desiderio sano di dare si è capovolto nella fantasia patologica di essere una volta per tutte espropriato fino in fondo, posseduto totalmente. Per difendersi da questa follia il piccolo, meschino, attento e giusto avaro esplode allora in un gesto isolato di generosità, strabilia tutti con un dono, magari preziosissimo, di cui sarà il primo ad essere soddisfatto. È però fondamentale dirgli grazie, perché, in caso contrario, si rischia di perdere per sempre la sua amicizia; potrebbe non perdonare mai più una simile omissione. Quel ringraziamento è la conferma che il suo gesto è stato generoso e liberatorio, efficace a disperdere i fantasmi che lo perseguitano: il ringraziamento vale per lui molto di più del dono che ha fatto.

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L’essenza dell’avarizia è sempre la mediocrità, perciò l’avaro che è riuscito ad accumulare grandi fortune lo ha fatto perché in lui hanno agito pulsioni diverse dall’avarizia; altrimenti sarebbe rimasto attento a non accumulare troppo. Quando la ricchezza lo circonda, l’avaro quasi le si sottrae, timoroso e vergognoso di quei gesti criminali o coraggiosi che lo hanno portato a possedere molto. Egli vive au-tonomamente dalla sua ricchezza e se l’avarizia torna ad essere la sua caratteristica predominante, potrà lentamente lasciare che i suoi averi svaniscano, senza essere più in grado di ricostituirli, felice quasi di vederli sfumare. Questo si verifica in modo particolare in coloro che, nati ricchi, hanno scelto l’avarizia. Estranei alla loro ricchezza, non la percepiscono, attenti ai più piccoli ammanchi quotidiani, guardinghi verso gli amici, diffidenti verso i più deboli. Ossessionati dalla preoccupazione di dare troppo, vivono nel timore che gli altri sfruttino quel poco che mettono a disposizione. Godono quando la loro vita appare mediocre e priva di attrattive agli occhi altrui, ma l’angoscia e la disperazione li dominano nel profondo. Questo genere di piccola e meschina avarizia è l’unica vera avarizia; essa esprime uno degli aspetti più terribili della condizione umana; perché la vita è il bene che viene inevitabilmente speso ogni giorno e mai risarcito. L’avaro teme la morte perché non tollera di spendere la vita. Ognuno di noi ha sperimentato situazioni in cui ha percepito la propria «piccola-infinita» avarizia. Sono momenti inevitabili; ma per me i più brutti da affrontare: io mi sento allora completamente solo. Anche Eros mi si nasconde.

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Parlare dell’avarizia rende indispensabile affrontare il problema del danaro e del suo valore reale e simbolico. Il valore del danaro è, anche simbolicamente, riferito all’oro. Oro, danaro, quale dei due è simbolo dell’altro? La direzione simbolica non è univoca, ma equivoca, o meglio, circolare. Una immagine, un gesto sono sempre simboli di qualche cosa d’altro che, a sua volta, è simbolo della prima immagine o del primo gesto, entrambi poi si rapportano simbolicamente a una terza immagine, a un terzo elemento. L’oro, nell’inconscio del singolo ed in quello sociale, rappresenta il danaro, ma a sua volta quest’ultimo riporta all’oro. L’oro è l’elemento positivo, il valore unito alla bellezza che si manifesta splendendo. L’età dell’oro è un’epoca vagheggiata dell’antichità in cui tutti erano felici. L’anima perfetta è d’oro: «Siate dunque fratelli, quanti vi trovate in questa città; così diremo poi, continuando nel nostro racconto. Ma il Dio, mentre vi plasmava, oro infuse i quanti di voi sono adatti al governo. Per tale ragione costoro sono particolarmente pregiati.» (Platone Repubblica). D’oro sino i capelli della persona amata. L’oro è l’unico metallo degno di venire a contatto con la sacra particola nell’Eucarestia. Le parole sante e definitive sono scritte a lettere d’oro. Ma per «quel metallo» quante piccole e grandi viltà, quanti omicidi e quante guerre. Sui pezzi d’oro sono incisi i volti degli imperatori e i simboli delle repubbliche. L’oro dà il potere, ma anche il potere di sfruttare. Con l’oro si può comprare tutto: i piaceri della vita e la vita stessa, sottraendo gli uni e talvolta l’altra, a chi è più debole. L’oro, quando si nasconde dietro al danaro, diviene «vile» e permette ai vili la sopraffazione. L’oro diventa sudicio perché è imbrattato di sangue e di sofferenze. Di fatto la carta moneta è davvero molto sporca; non la si può lavare e assorbe dalle mani tutto il sudiciume; eppure bisogna conservarle, quelle banconote infette, trattarle con cura perché non si distruggano, tenersele vicine: in tasca o sul cuore. Un tempo almeno i danari avevano a che fare con l’argento che serbava un pallido simbolo dell’aureo splendore. L’oro si può dunque infangare; il solo valore assoluto resta il sole, che alimenta la vita, simbolo mai contaminato: il bene e la salvezza. Sarastro porta sul petto uno splendido talismano d’oro che rappresenta il sole: la positività assoluta.

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L’oro e il danaro, nell’inconscio singolo e sociale, danno valore simbolico alle feci, agli escrementi in genere. Lo scambio tra oro ed escrementi nella fantasia popolare è continuo. L’elemento però su cui si costruisce il sogno o la leggenda non è indifferente: il significato del sogno o del racconto cambia se viene basato sull’oro oppure se invece si basa sulle feci. Gli escrementi sono ciò che deve essere espulso e realmente le feci allontanano da noi quello che non serve più per il nutrimento, materia caricata di microbi e parassiti, sostanza divenuta tossica. I bambini sono affascinati dalle feci, perché sono intrisi di fantasie sado-masochistiche, che torneranno poi in alcune modalità della sessualità adulta. Io non credo alla leggenda psicoanalitica secondo la quale il bambino sentirebbe i propri escrementi come qualcosa di prezioso da offrire in dono. Io credo piuttosto che porti in dono l’obbedienza a chi si cura di lui e vuole che egli si liberi. Il dono è liberarsi dal male; le feci sono nel corpo ma debbono uscirne: il messaggio che perviene al bambino dall’inconscio sociale è questo. Le feci sono il male: prima ancora di averne l’esperienza il bambino già lo sa. Piange, quando il ventre gli duole; sorride e si rilassa quando si è liberato. Il disgusto per le feci sarà insegnato sì dall’educazione, ma anche viene trasmesso geneticamente, prima di ogni rimprovero e di qualunque sorriso. Il bene, il male, l’amore e l’odio sono sentimenti innati che l’educazione non farà altro che riempire di contenuti. Anche questi contenuti sono in parte insegnati e in parte trasmessi geneticamente. L’attrazione per il bene e la felicità, la fuga dal male e dalla sofferenza non sono neppure meccanismi istintivi: sono l’essenza stessa della vita.

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Anche il corpo umano si realizza e si esprime come simbolo: non a caso gli organi del piacere sessuale – non della procreazione – sono strettamente vicini a quelli dell’evacuazione. Certo, tutto il corpo è sessualizzato. Una parte sola però ne custodisce il simbolo. Per questo, il piacere di evacuare è intenso in tutti, tanto che qualcuno, anche in età adulta, trattiene le feci per sentire più intensamente il piacere di svuotarsi. Gli escrementi stimolano la parte del corpo in cui la sacra sessualità si annida, splendente come l’oro e come il sole. Questa è una fantasia, s’intende, una simbolizzazione; però ha contribuito a strutturare il corpo, permettendo ai malvagi di ritenere sporca la sessualità.
Il piacere anale, soprattutto, è condannato dalla nostra cultura, ma nessuno vi può rinunciare.
Gli aneddoti, le barzellette, gli scherzi ed i giochi di parole sulla «merda» servono a trasferire il piacere che procurerebbe il contatto di un altro corpo, il contatto degli organi sessuali dell’altro con quelle parti del proprio corpo connesse alla funzione di espellere, e alle feci.
L’allegro turpiloquio di Mozart esprime anche il suo bisogno di scherzare con il male.
Nessuno riesce a vivere serenamente la sessualità, senza contraddire l’erotismo: questo dicono simbolicamente gli escrementi dell’uomo. C’è ancora una ultima ed importante difesa: la fantasia del parto anale, propria di tutti. L’inconscio sa che a procreare non è soltanto la donna; fantasticamente, bambini e bambine pensano di poter partorire con l’ano. Solo più tardi, quando sarà sopraggiunta la reciproca lotta tra i sessi per la vicendevole espropriazione, interverrà la confusione tra generazione e gestazione e l’inconscio si arricchirà di simbologie meschine e vigliacche. Dalle nostre viscere non può solo uscire il male, ciò che deve essere espulso, deve uscire anche la vita. E’ questa convinzione e non solo l’originaria fantasia sado-masochistica che induce il bambino ad interessarsi delle proprie feci. Egli fruga nello sterco anche alla ricerca della vita.

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Spesso gli avari sono profondamente sudici, per quelli che sono i canoni della cultura in cui sono stati allevati. Ma non si tratta di un sudiciume evidente, clamoroso; perché essi temono sempre il clamore, che compromette e costringe a dare, ad esporsi ed a rischiare. Gli avari sono piccoli sudici, che mangiano le caccole estratte dalle narici, che godono nel sentire l’odore rancido e vagamente cadaverico del loro corpo grasso e sudato che inizia il processo di putrefazione perché è poco lavato; assaporano l’odore acre e dolciastro dei capelli sporchi, annusano con gusto l’aria che esce dai loro intestini. Può anche essere, questa aberrazione, riscontrabile in persone che non siano avare, però lo è in tutti gli avari. C’è anche la possibilità che si instauri una formazione reattiva e quindi che alcuni avari siano caratterizzati da una esasperazione igienista, che, seppure rara, quando c’è, è chiaramente riconoscibile. L’igienismo di queste persone non si manifesta con il comportamento un po’ bizzarro, impertinente e lascivo di coloro che si lavano e si strigliano per altre ragioni più o meno consce. Questi avari igienisti sono meticolosi, ossessivi e hanno soprattutto un estremo ribrezzo del sudiciume altrui, chiusi nel levigato nitore del loro corpo, che non ha neppure più odore, per la preoccupazione di non dare nulla di sé. Costoro hanno i vestiti sempre in ordine, detestano le sgualciture e gli abiti spiegazzati, non tollerano la minima macchia, le loro scarpe sono sempre lucidissime, malgrado sia segno di cafoneria. Una volta si diceva che solo le scarpe maschili scintillanti di coppale delle tenute da sera dovevano essere lustre, per riflettere le luci dei doppieri e i gioielli delle belle dame; chissà perché i gioielli delle donne brutte non dovrebbero brillare. Resta il fatto che io sono d’accordo che è di cattivo gusto avere le scarpe troppo lucide, se non sono quelle da sera. Le scarpe sono rivelatrici della personalità di un essere umano, maschio oppure femmina che sia, molto più di quanto non lo siano i test imbecilli come il Rorschach. Gli scienziati hanno inventato i test perché non sanno vedere e ascoltare, preferiscono siglare, far conti e alla fine, al posto di un essere umano, si trovano davanti un diagramma, che sta all’uomo reale come una pillola proteica sta al «boeuf bourguignonne».
La pulizia degli avari è avara anche di pulizia; l’igiene è qualche cosa di entusiasmante, di allegro, di profumato; è un prepararsi ad un rapporto d’amore. Tenerissimo è il racconto che si fa di alcune ragazze del secolo scorso, che si preparavano con cura, prima di andare a letto: si detergevano, si cospargevano il corpo di balsami e profumi, si ravvivavano lentamente i capelli, tenendo sulle spalle una mantelletta di pizzo. Si guardavano allo specchio sperando di vedervi comparire il principe azzurro, restando a lungo sedute al loro tavolino di toeletta, coperto di una tovaglietta ricamata azzurra o bianca, o magari violetta – però mai di colori vivaci – riempita all’inverosimile di tante boccette di cristallo cangiante, piene di profumate alchimie. Poi andavano a letto, sole, sognando quel principe azzurro che non era comparso nello specchio. Frustrazioni, certo, però quanta dolcezza in quelle attese. Violenza di genitori brutali, padri gelosi e madri castratrici: ora vi siete ribellate, signorine, ma col risultato di essere diventate piccole avvizzite donnette avare.

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Qualcuno potrà accusarmi di descrivere il mondo usando piuttosto termini poetici, più o meno efficaci, che non espressioni tecniche o scientifiche, questo è il mio orgoglio e il mio vanto: io penso di essere uno scienziato più o meno in gamba eppure sono convinto che diagrammi e statistiche in psicologia sono una truffa. Conosco una persona laureata in psicologia all’Università di Roma che, dopo non aver imparato assolutamente niente si è permessa di andare in giro con bigliettini su cui era stampato dott. Tal dei Tali, psicologo: per consulenze e sedute psicoterapeutiche telefonare al numero … Sparse i suoi bigliettini in ogni tipo di pubblico esercizio: ristoranti, jeanserie e persino in farmacie gestite da persone eccessivamente compiacenti. Costui sa di non sapere nulla, era ed è un brigante: può darsi che stia ad ascoltare i suoi «pazienti» con affetto e con tenerezza, può darsi che sia persino utile in un mondo in cui è così difficile trovare qualcuno che ascolti chi ha bisogno di parlare e che è tristemente disposto a pagare per fingere di avere un amico preoccupato per lui. Nondimeno resta un brigante perché non ha mai avuto il coraggio di dichiarare quale è la sua ipotesi scientifica. Ogni scienziato ha il dovere di dichiarare su quale concetto di scienza basa il suo agire nel mondo, su quale concetto di salute basa la sua cura. Non importa se gli altri non sempre sono in grado di capire; ma quello che non è ammissibile è che si pensi di poter truffare soltanto perché si può trarre vantaggio dalla situazione di uno stato impazzito, che ti dichiara dottore in una materia di cui dotto non sei affatto. Però più disonesto e pericoloso è quello scienziato che soltanto crede nella statistica e nei diagrammi, perché gli sfuggirà sempre la realtà del mondo, biologico, fisico e umano. Il mondo non è e non sarà mai riducibile ad uno schema. Questo vale per ogni scienza umana, ma se, per qualche ramo della scienza, diagrammi e statistiche possono costituire elementi utili all’orientamento, in campo psicologico questo non è possibile. Finché la psicologia non si libererà di uno sperimentalismo d’accatto, malamente preso a prestito da altre scienze, sarà sempre dominio dei barbari e a me, iroso e ingenuo, viene da gridare come Giulio II: «Fuori i barbari!» Per questo rimango saldo nei miei studi, nelle mie ricerche, nel mio linguaggio poetico, che si rivolge ad esseri umani. Io mi rifiuto di essere capito solo dagli «esperti», lo parlo dell’uomo, dei suoi problemi, dei suoi vizi, delle sue virtù, delle sue angosce e delle sue allegrie. Voglio essere capito, amato, contestato e insultato, rifiutato o accettato da altri uomini e donne come me, invischiali nel difficile compito di capire e di capirsi.
Io ritengo che sia utile e importante curare; ma chi mi dirà cosa è la guarigione? La guarigione è lotta, la guarigione è non temere il compromesso, calarsi fino in fondo e allo stesso tempo rifiutare. Guarigione è non darsi tregua. Guarire vuol dire anche accettare di essere odiati perché si è avuto il coraggio di amare.