27 – Dicembre ‘86

dicembre , 1986

Due parole sono di prammatica sul ripristinato Teatro della Cometa, sorto a nuova vita dopo l’incendio del 1969, rifatto con cura e buon gusto, negli stessi piccoli, ma armonici spazi, del palazzo Pecci-Blunt, proprio ai piedi dell’Ara Coeli. Il primo spettacolo di questa nuova e speriamo lunghissima vita teatrale è stato La Santa sulla scopa, di Luigi Magni, testo gradevole, simpatico, ironico, in alcuni punti decisamente umoristico, con qualche momento di tristezza e di autentica commozione, per di più presentato in veste quanto mai adatta alla circostanza: ben confezionato e persino un po’ patinato. La storia è tutta giocata tra fantasia e realtà, proprio come si addice ad una vicenda di streghe. Nella Roma barocca, la strega Silvestra e la suora Apollonia, in odore di santità, si incontrano nel carcere dove vegliano in attesa dell’alba in cui la prima dovrà bruciare sul rogo. Silvestra, che è una vera strega, è anche umana, tenera ed ironica; la santa monaca è stralunata, presuntuosa e sadomasochista. In un gradevole dialetto romanesco, peraltro abbastanza addomesticato, le due intrecciano dialoghi spassosissimi. Sulla sfondo si percepisce Roma, magica come sempre, mezza vera e mezza falsa, favolosa e pezzente, ma con un fascino irresistibile.
Bene si inseriscono in questa atmosfera magico-realistica le belle canzoni di Bruno Lauzi.
Abbiamo detto che lo spettacolo è ben confezionato e «patinato», ma Luigi Magni, che è anche il regista, tiene sempre sotto controllo ogni gesto, valutandone tutti i possibili effetti, riuscendo a dominare anche la policroma, fastosa orgia di forme e colori delle scene e dei costumi di Lucia Mirisola, assecondato dalla cura dei movimenti coreografici di Mirella Aguiaro. Valeria D’Obici, nelle vesti della monaca Apollonia è assolutamente impareggiabile; fisicamente rilevante, capace di una mimica irresistibile, dal ritmo sempre preciso, con un repertorio quasi infinito di cangianti sfumature. Invece Maria Rosaria Omaggio è di una bellezza eccessiva, ma è immobile come una statua, dice le sue battute con troppa lentezza, come se leggesse versi di Trilussa ad una recita di beneficenza.
Riesce però ad essere brava solo quando canta con la sua voce sensualissima le canzoni dedicate a Roma.
Dopo questo ottimo spettacolo, fa particolarmente piacere trovare fuori dal teatro questa Roma fascinosa, «mezza vera e mezza falsa», più bella a tarda notte, perché si sono diradate persino le automobili.

Chi va per le fronde di Franz Xaver Kroetz, è un capitolo della rassegna «Tradimenti brechtiani», la nuova drammaturgia tedesca tra il 1956 e il 1986, in programma in questi mesi al Teatro Colosseo di via Capo d’Africa 5, con la collaborazione di molte istituzioni e inserito nella produzione della stagione teatrale del Beat ‘72.
Non sappiamo bene perché gli organizzatori ritengano questo teatro un tradimento di Bertolt Brecht, ma poco ci importa chiarirlo. Sta di fatto che Kroetz è un autore che nel suo paese sta registrando un certo successo. Questo suo testo ha caratteristiche di marcato iper-realismo. La storia è quella di Otto e Marta: il primo è un volgare ed antipatico operaio, maschio con le caratteristiche un po’ stereotipe del personaggio della commedia femminista: tirannico e infantile allo stesso tempo, monotonamente insistito nel suo alternare la strafottenza alla debolezza. La seconda è Marta, donna sola, non più giovane e non bella, con tutte le caratteristiche della commerciante: concreta, avara ed astuta, che, però, per amore di Otto, diventa talvolta ingenua e persino tenera. Il negozio di cui si occupa è una «tripperia», cioè una sorta di macelleria specializzata in interiora e frattaglie, il che da ovvie tinte sanguigne all’ambiente generale. Otto è dapprima geloso del cane di lei, poi non regge il confronto con le trippe, per cui se ne va come è venuto, e a Marta restano solo le pagine del suo diario.
Questo è iper-realismo, per cui la iper-noia dello spettatore è davanti ad una iper-realtà e non già alla realtà pura e semplice che, per fortuna, è sempre un po’ più divertente, anche nelle situazioni più volutamente desolanti come quelle che l’autore vuole rappresentare.
Il linguaggio, poverissimo di vocaboli (non sappiamo però se ciò sia dovuto alla traduzione di Peter Kammerer e Graziella Galvani), rende ancor più penosi da seguire i ripetitivi dialoghi.
La scena e i costumi di Carlo Savi sono punte di accurata meticolosità iper-realista, per le forme, i colori, gli spazi e gli ambienti, con particolari esasperati (l’acqua che esce davvero dal rubinetto, la pioggia che scroscia, il vassoio delle trippe nel frigidaire).
Molto bravi Remo Girone e Graziella Galvani nei due ruoli: non hanno cercato di andare oltre il testo, magari violentandolo per vivacizzarlo, cosa che comunque non sarebbe stata possibile.
Bene hanno quindi fatto a scegliere di calarsi fino in fondo nella penosa monotonia di uno squallido rapporto d’amore, in una cittadina di provincia tedesca, tra parolacce, gesti volgari e odore di trippe.
Hanno anche scelto una dizione scorretta, con forti inflessioni «cispadane», sgradevole ma efficace. I movimenti scenici, suggeriti dalla buona regia di Flavio Ambrosini, erano accurati e intelligenti. Qua e là si udivano sprazzi di canzoni di Wolf Bierman, che avevano la funzione di stacco tra un momento e l’altro della narrazione.
Ci dispiace che uno spettacolo culturalmente molto interessante risultasse, almeno la sera in cui c’eravamo noi, disertato dal pubblico: noi invitiamo chi ha interesse per,la cultura e le sue manifestazioni più attuali a seguire questa rassegna di testi e autori di grande interesse.

I Farfalloni seguono e apprezzano Marco Maltauro fin dagli anni della Accademia d’arte drammatica; ci ha lasciati però perplessi questo suo gesto, per metà coraggioso e per metà ribaldo, di scrivere per sé il testo Me & My Shadow: gli è infatti uscito dalle mani un guazzabuglio spocchioso, antiteatrale e incomprensibile. Inconsistente è la vicenda di Giovanni, chiuso nella sua stanza in compagnia del poster di Frank Sinatra, sordo al richiamo di Fiamma, innamorato ectoplasma, che gli parla del suo compleanno e di un professore che gli ha scritto tante lettere, prima di morire. Vestito come il vetusto idolo della gigantografia, il giovane Maltauro snocciola tiritere ondeggianti tra D’Annunzio, De André e Kerouac, esibendosi in una pretesa poeticità sfacciatamente narcisistica. L’attore è in gamba, ma l’autore gli si accanisce contro, massacrandone le velleità.
Molto brava Almerica Schiavo nei panni della donna presente solo perché evocata da un pensiero che anche la respinge.
Bravissimi i dieci componenti della «Swing Time» nell’eseguire le musiche più note del repertorio dell’idolo di Las Vegas; solo non si capisce – o forse si capisce troppo che è per allentare la noia – perché ogni tanto entri in scena, corredata di coppie di fidanzatini che ballano.
La regista Rita Tamburi ha fatto del suo meglio per coordinare il tutto, ma non è riuscita a brillare su quel nero totale, spezzato solo dai tre bianchi gradinoni di Adolfo Mazza.
Continuiamo ad apprezzare l’attore Maltauro cui consigliamo lo studio approfondito di un testo come L’amore delle tre melarance di Carlo Gozzi.