26 – Settembre ‘86

settembre , 1986

La grande fatica

L’impegno che fa di qualcuno un uomo pubblico impone a quella persona di affrontare il problema se accettare o meno di proporsi come figura edificante. La cosa riguarda meno coloro che si impegnano nella politica, dal momento che il senso comune ha, per così dire, «introiettato» che la menzogna faccia parte di un gioco molto duro che, realisticamente, non si può pensare di affrontare con troppa sincerità. Così che il ruolo edificante dei politici si può limitare a scansare con astuzia e cautela le eventualità del pubblico scandalo.
Ancora più universalmente, è accettato che il buon credente faccia «ciò che il prete dice», ma non «quello che il prete fa»; perciò l’inadeguatezza di molti ministri di culto rispetto alla grandezza delle norme morali che vanno predicando, viene perdonata, in nome di un’umanità comprensibilmente debole. Non pare neppure che la figura del terapeuta ponga particolari problemi di edificazione, a meno che sfiori i confini dell’illegalità, quando il clinico è coinvolto in un gioco di baronie, più o meno lecito, che, se non si può assimilare ad un reato, pure getta ombre di sospetto e di sfiducia sull’uomo e sul professionista. Gli insegnanti, a qualsiasi livello esercitino la loro attività, sono, invece, in qualche modo costretti ad offrire, oltre all’insegnamento, anche un esempio di moralità; le famiglie sono infatti inesorabili verso le debolezze di coloro cui è affidato il compito di educatori e, spesso, gli stessi allievi, quando sono in grado di farlo, esigono da chi sta sulla cattedra, che sappia incarnare quel modello ideale che, in qualche modo, è delineato nella loro opinione con sorprendente precisione.
Quasi sempre la migliore virtù di una persona edificante è quella di rassicurare gli altri che gli umani desideri e le umane debolezze non la riguardano, muovendosi il suo agire sui sentieri dell’abnegazione e dell’altrui bene, a detrimento del proprio.
Paradossale è il caso di un Maestro che si dichiari pubblicamente restio a voler costituire per i suoi discepoli un esempio edificante. Se poi questo Maestro è anche un terapeuta, la cosa si fa più grave, coinvolgendo persone la cui scelta può essere stata condizionata da necessità urgenti.
Ma se un Maestro sceglie di essere un uomo concreto e non un astratto esempio, egli ha il diritto, oltre che il dovere, di farlo. I discepoli troveranno certo più duro accettare di seguirne gli insegnamenti, ma gioverà loro senz’altro di più che non inseguire un simbolo. Se le idee sono, certo, più grandi degli uomini che le incarnano, giova sapere quale sia la reale dimensione degli uomini in questione. È perciò necessario che discepoli e Maestro affrontino insieme la grande fatica di riconoscere che la perfezione dell’insegnamento non si misura sull’imperfezione dell’insegnante e del discente. Questa imperfezione, resa consapevole, può essere non solo l’unica base solida di una filosofia dell’esistenza liberamente accettata, ma anche di una scienza che si prefigga di fornire gli strumenti utili a prendersi cura dell’altro. Su questi presupposti, paziente e terapeuta potranno lavorare insieme, senza infingimenti, come chi sa di lavorare e lottare perché la riuscita dell’altro è la vittoria per sé. L’egoismo, l’ansia di raggiungere la felicità per sé stessi, muovono indistintamente tutti gli uomini; forse il solo modo di evitare che queste motivazioni stritolino gli altri è quello di renderle esplicite, perché, una volta dichiarate, si trovano anch’esse in gioco, messe lealmente a disposizione di tutti quelli che, insieme, affrontano la partita.