Psicoanalisi contro n. 3 – In arte: psicoanalisi

maggio , 1984

La scienza freudiana, nell’intenzione del suo fondatore, dovrebbe essere una scienza obiettiva. L’entroterra culturale è quello, un po’ arido, della concezione positivista. Ogni scienza si dirige verso qualche cosa nel tentativo di chiarirlo e, spesso, di fondarlo: ogni scienza, quindi, si muove entro una costellazione di fenomeni, cioè enti che si manifestano. Questi enti si manifestano e si organizzano in costellazioni di oggetti che sono, appunto, gli oggetti di quelle singole scienze. Ho detto che la scienza si dirige verso; ma una direzione presuppone una meta: per la scienza la meta è il fenomeno. Manifestarsi non vuole dire essere creato; ciò che si manifesta deve avere in sé la possibilità di essere capito, cioè di splendere, «fainomai», ma per risplendere bisogna essere accesi, e chi accende gli oggetti della scienza? Il disvelamento che la scienza fa del proprio mondo si realizza attraverso una relazione continua; l’oggetto non è mai inerte; l’uomo è inserito in un divenire ed il suo voler dire ed il suo voler capire coincidono. Ma il capire è sempre anche capire l’altro da sé e il dire si fonda sul la possibilità del dialogo. Dialogo fatto di parole, di sensazioni e di fantasie. Lo scienziato deve accettare questo: gli oggetti della sua ricerca non gli sono schiavi; gli si possono ribellare. L’oggetto della ricerca freudiana, la psiche dell’uomo, è particolarmente capriccioso e ribelle. Gli oggetti delle altre scienze possono essere più facilmente passivizzati; il loro linguaggio, spesso, non è ascoltato dal ricercatore, il quale mette in atto una ottusa violenza chiamandola obiettività. L’obiettività delle scienze obiettive significa semplicemente voler far dire agli oggetti ciò che lo sperimentatore vuole, a tutti i costi, che gli oggetti dicano. Così lo sperimentatore assume un atteggiamento inerte, che è anche detto atteggiamento neutrale. Le stelle e le piccole cavie nei laboratori si ribellano, tentano di comunicare: ma la truce impassibilità dell’osservatore non ascolta; le stelle e le cavie sono specchi che devono riflettere i suoi pensieri e le sue convinzioni. Lo scienziato che si ritiene obiettivo non è altro che un perfetto imbecille, che registra dati su dati: ma che ha già in mente la risposta. Per costui la scienza non è una avventura, i fenomeni non hanno un linguaggio; o meglio, rimane in piedi la vecchia ingenuità galileiana, per cui la natura si esprime attraverso il linguaggio matematico. Io non credo che la natura si esprima attraverso il linguaggio della matematica. L’uomo si è inventato una matematica ed ha imposto alla natura di parlare secondo questo linguaggio. La matematica è un utile mezzo di comunicazione purché non venga imposto: allora diventa una gabbia che imprigiona e spesso ridicolizza molte analisi scientifiche. La natura e Dio possono, tutt’al più, giocare con la matematica perché è da gran tempo che hanno scoperto che è un’opinione. Ad un certo punto la matematica è esplosa, ed ha prodotto tante altre matematiche, quale di questi linguaggi matematici parlerebbe, allora, la natura? Quello della matematica euclideo-galileiana, quelli delle altre matematiche o ancora altri linguaggi? Sigmund Freud, scienziato positivista, non accetta la ribellione del suo oggetto; ma, per fortuna, il suo oggetto si può egualmente ribellare; e si ribella perché l’oggetto di osservazione di Sigmund Freud è lo stesso Sigmund, piccolo e adulto, a Vienna, in Francia e in Inghilterra. L’inconscio si ribella al suo scopritore e detta le leggi; ma, a loro volta, queste leggi sono un’invenzione del ribelle. Allora: dov’è un fondamentoIl fondamento sta nella ribellione. La scienza diviene scienza quando accetta che il suo oggetto le si ribelli e dica altre cose, parli altri linguaggi sconosciuti, insegni nuovi linguaggi. Il linguaggio dell’inconscio coincide solo in parte con il linguaggio della coscienza. Il linguaggio si fonda sul conscio e il conscio si fonda sull’inconscio; l’inconscio si fonda sulla ribellione.

2.

Il concetto di transfert è ormai consueto, talmente consueto che è addirittura liso. Transfert, per troppi, psicoanalisti e non, sta a significare rapporto tra due persone. Questo, per un verso, è vero: non esiste un rapporto che non abbia in sé elementi trasferenziali. È però diventato un concetto inutile da quando si è sostituito a quello, puro e semplice, di rapporto. Perché chiamare con un’altra parola un concetto che aveva già trovato la sua forma di espressione chiara? Penso che sia più corretto che il termine transfert stia a designare un tipo particolare di rapporto; ed è importante che ogni scienziato analista isoli questo concetto, sforzandosi di delimitarne in modo chiaro i confini.Il transfert è, prima di tutto, il trasferimento di un desiderio da un oggetto ad un altro; poi si può ancora dire che il desiderio legato al primo oggetto è inconscio e si manifesta, consciamente, su di un secondo oggetto; quando riguarda relazioni tra persone consiste nel provare desideri, emozioni in genere, riferendoli ad una persona attuale e presente, che sta per un’altra che in passato ha suscitato quei desideri e quelle emozioni. Riferiamoci ora alla situazione psicoanalitica. Il paziente attualizza, sulla figura del terapeuta, tutta una serie di desideri, di sentimenti, di fantasie e anche di giochi simbolici, che, nell’infanzia si riferivano ad una o più figure per lui significative. Il transfert, quindi, attualizzerebbe un momento della storia di ciascuno di noi: l’infanzia. Perché nell’analisi viene favorito il transfert? Per due ragioni: la prima è al servizio dell’analista, per il quale è un valido strumento di indagine; l’analista vede in atto quelle dinamiche emozionali che un tempo sono state virulente ed hanno prodotto il comportamento attuale. La seconda ragione è al servizio delle resistenze dell’analizzato, il quale vuole sentire l’analista come quella persona del passato, così da sentirsi giustificato nel tentativo di nascondere ancora quelle antiche emozioni. Solo con se stesso, forse, ora riuscirebbe ad ammettere di aver provato quegli antichi sentimenti; ma, se pur incosciamente, a se stesso dice: «Di fronte a questa persona, così simile a quell’altra, come osare ammettere ciò che, da anni e con fatica, ho trattenuto e negato?» Ma la resistenza non è mai completa. Come sono deboli gli esseri umani! Sempre, vogliono e non vogliono. Perciò si scoprono, dicono e non dicono; e in quel poco che dicono palesano anche tutto il non detto.

3.

Così si riattiva la nevrosi: quelle prime situazioni traumatiche, che tante volte hanno avuto occasione di ripresentarsi, sotto i colpi della vita successiva, fino a causare un comportamento malato, si ripresentano ora allo stato originario. Nuovamente, il paziente rivive il rapporto con il padre e con la madre: quei rapporti, quei traumi, quelle angosce, quel non detto. Ecco lì, sdraiata sul lettino dell’analista, la nevrosi di transfert: l’antica nevrosi infantile, che tante volte si è ripresentata in età adulta, ora rivive, nel rapporto con il terapeuta che, a questo punto, deve essere pronto a curarla. Ma come la cura? Smascherandola, raccontando al paziente ciò che il paziente è e ciò che è stato, senza saperlo: «Tu avresti voluto dire; tu avresti voluto fare; tu hai pensato questo e quello; tu … ». L’analista racconta una storia in cui il paziente può ritrovarsi o può non ritrovarsi; ma quanto di questa storia è invenzione? Il transfert ha ora, due possibili esiti: può essere un transfert positivo, se l’analista viene vissuto come una figura per cui nel passato, si sono provati sentimenti di amore e tenerezza, un’antica voglia di baci e di carezze; oppure può ingenerarsi un transfert negativo e allora si attualizza l’odio, la rabbia, la furia, il risentimento contro le figure di allora. Che senso ha tutto questo? Che senso hanno le distinzioni tra i vari tipi di transfert? Nevrosi di transfert, transfert positivo, transfert negativo; senza parlare poi del controtransfert, che a sua volta potrebbe dividersi in controtransfert positivo e controtransfert negativo; poiché anche l’analista può vivere il proprio paziente come una figura del passato e riattualizzare antichi amori ed antichi odi. Queste sono tutte specificazioni e suddivisioni che sono utili, sebbene un po’ pleonastiche. Guai, però, a considerarle catalogazioni esatte ed esaurienti dei vari possibili transfert; sono tutt’al più modi di raccontare storie diverse che hanno radici remote.

4.

Il transfert è un concetto preciso che, ripeto, è importante isolare entro il rapporto analitico, delimitandone i confini ed usandolo con attenzione. Catalogare ossessivamente i transfert è un’ingenuità: il transfert è il transfert e basta. Si possono raccontare i vari tipi di transfert sapendo però che essi sono, se non infiniti, comunque moltissimi. Indubbiamente accadrà che un sentimento avrà il sopravvento sull’altro; ma se io amo una persona, ciò nonostante, anche la odio, i momenti di odio sono indivisibili da quelli dell’amore. Se io mi rapporto al mio analista, e se egli per me è anche una figura dei passato, lo amerò e lo odierò, come ho amato e odiato in passato. È banale supporre che questo amore e questo odio si presentino così, nettamente separati: transfert positivo, transfert negativo, etc.. Credere che ciò sia possibile, impoverisce l’analisi e irrigidisce anche l’intervento terapeutico. Il paziente ama e odia contemporaneamente, aggredisce e si sottomette, tenta di sedurre e vuole essere sedotto, accusa e recrimina. Questa è la storia dell’analisi, questa è la storia di un rapporto. Il transfert non deve coincidere con la totalità del rapporto analitico, terapeutico; il transfert è un elemento, isolabile e circoscrivibile. In ogni rapporto umano sono presenti elementi di transfert, questa non è certo una mia scoperta. Ogni volta che incontriamo una persona che ha per noi un significato, quella persona è anche la replica di una persona del nostro passato, l’amiamo e la odiamo anche perché il nostro passato, che è dentro di noi, ci porta a ricondurre ogni immagine ad immagini precedenti,, ogni persona ad altre persone. Questa è una tra le bellezze della vita: noi non siamo mai soli nel nostro presente, altrimenti il presente sarebbe una disperazione. Il presente è un istante indefinibile, che viene distrutto nel momento stesso in cui nasce, sempre sfuggente verso il futuro e ancora sfumante nel passato. Eppure il presente non può che essere presente; il passato non ha senso, il futuro è una fandonia. Ognuno di noi, quando immagina la propria vita, se la raffigura, talvolta, come una strada, delimitata da argini e alberi, una via lunga che si perde davanti e dietro di noi. Il passato è però un concetto contraddittorio, realmente non esiste, esiste solo il ricordo di un passato. Il futuro, anche, non è se non la fantasia di un domani che, oggi, ci immaginiamo possibile. Resterebbe la certa prigionia del mio presente, la mia solitudine, se non ci fosse questa immensa ricchezza di passato e di futuro che in ogni momento mi colma e mi completa. Un solo punto non può servire di riferimento; io, nel mio presente, sono incomprensibile anche a me stesso. Poiché io sono il mio presente, il presente non può servire al mio orientamento, né io posso da solo dargli un senso. Gli altri, distendendosi, nel passato e nel futuro, coincidendo in parte, ma non del tutto, con me, spezzano la prigionia della mia solitudine. Se io fossi immobile nel mio presente, non arriverei a percepire neppure me stesso, non avrei coscienza di me, verrei distrutto dall’istante.

5.

C’è mai stato un momento in cui l’altro o gli altri hanno significato solo se stessi? O invece hanno sempre ricevuto il significato da qualcuno che è stato prima di loro? Se ciascuno fosse solo la rappresentazione di qualcun’altro che lo ha preceduto, e così via, all’infinito, io sarei prigioniero della mia fantasia; un solipsismo delirante mi porterebbe a ruotare su me stesso. Io sarei la fantasia di me stesso e tutti coloro che mi circondano non sarebbero che proiezioni di me a me. Ciò potrebbe essere, ed in parte è. In questo senso alcuni hanno voluto interpretare il mondo e gli uomini. Certo, è un gesto di fede pensare il contrario. Io posso pensare che gli altri siano mie fantasie, o fantocci, solo se sono ben convinto che non sia così; posso fantasticare che il mondo sia una mia proiezione, solo se sono certo che esso esista realmente, fuori di me. Se il mondo fosse una mia proiezione non lo saprei; ma perché non lo saprei? Il mondo potrebbe essere una mia proiezione ed io potrei saperlo, mi dico. Ma il mondo sarebbe proiezione di che cosa? Di me stesso, mi rispondo. Ma io non sono altro che il punto in cui si incontrano le proiezioni degli altri. Io sono lo specchio dei mondo; se il mondo non si potesse specchiare in me, io non saprei che il mondo esiste e non esisterei neppure io, che ho bisogno di un mondo in cui specchiarmi. L’immagine degli specchi è scintillante e gradevolmente poetica, ma, forse, inesatta. Lo specchio è una superficie rigida che riflette, cioè respinge; invece, tutto ciò che è al mondo ha la caratteristica di assorbire. Anche gli specchi, quindi assorbono. Assorbire vuol dire essere costruiti da ciò che sta intorno, essere compenetrati. Allora, concludo io, gli specchi non esistono. Certo, gli specchi non esistono; esiste soltanto l’idea di specchio, che serve a costruire un mondo pieno di immagini che si respingono vicendevolmente, l’una nell’altra, fino a raggiungere l’infinito, un infinito improbabile e grottesco. Le cose del mondo, si costruiscono, tutte, perché entrano in relazione le une con le altre; l’uomo costruisce gli oggetti del mondo e questi si costruiscono anche dentro di lui, ne escono e ne rientrano. L’uomo, nel suo esistere, riconosce; riconoscere vuol dire percepire, amare, odiare; riconoscere vuol anche dire dare un nome: prima bisogna riconoscere, poi si può dare il nome, che diviene cifra di questo riconoscimento. Il riconoscimento è amore e odio. Dietro a tutti e dietro a tutto sta Eros. Eros, desiderio perché amore, amore perché desiderio di…

6.

Una volta, una persona mi raccontò questo episodio: «Una sera, passeggiavo sulla spiaggia, in riva al mare: non c’era nessuno ed io ero assorto nei miei pensieri. Ad un tratto, quasi sorgesse dalle prime ombre della sera, vidi un ragazzo seduto, immobile e pensieroso. Il ragazzo mi guardò, io gli sorrisi, lui mi sorrise. Era molto più giovane di me. Sentii un improvviso desiderio di sedergli accanto; lo feci, il ragazzo non si stupì. Continuava a guardarmi, non capivo se era infastidito o contento. Incominciai a parlargli, lui mi rispondeva, pacato, con una voce che mi sembrava di riconoscere. Parlammo, o meglio: parlai a lungo. Ad un certo punto, il ragazzo disse: «E tardi, debbo andare». Mi appoggiò una mano sulla spalla e si alzò, si allontanò scomparendo nel buio. Ormai era notte: solo allora mi resi conto di aver parlato per tutto quel tempo con me stesso. Quel ragazzo ero io, quando avevo quell’età, ne ero sicuro. Ne sono sicuro. Avevo ritrovato il me stesso di quegli anni, non era stata una allucinazione. Ora sono convinto di aver parlato con il me di una volta. Chissà se quel ragazzo se n’è accorto. Era così dolce. Il giorno successivo, nel chiasso luminoso e multicolore di quel paesetto di mare, lo cercai, per un po’; poi sentii quanto ero stupido e non lo cercai più». Quello è stato un transfert. I transfert sono tanti. La seduta psicoanalitica ne privilegia alcuni. La psicoanalisi ha messo a punto un rituale perché alcuni e precisi tipi di transfert venissero evidenziati: il transfert con le figure genitoriali, o, comunque, con figure di una certa autorevolezza. Per la positura particolare assunta dal paziente, queste sono, per lo più, figure dell’infanzia. Così puntualmente accade: il rituale favorisce la rappresentazione. Su questo copione, però, Freud, un po’ arbitrariamente, ha operato una generalizzazione: le esperienze fondamentali sono quelle infantili, tanto è vero che i fantasmi che vengono proiettati sul terapeuta sono, principalmente, quelli dei genitori: e per lo più è il fantasma paterno che si impossessa della figura del terapeuta. Freud ha preparato una scena ed ha creato le condizioni affinché l’esito fosse quello prestabilito; poi ha creduto di trovare sperimentalmente che quelle fossero le figure fondamentali. In altre situazioni, con altri rituali, in altri ambienti, le figure che ci sorgono di dentro, e che si incarnano nelle persone che ci circondano, sono altre. Sono figure di ieri o dell’infanzia; ma hanno altri ruoli e altri significati. È pur vero che, nella nostra cultura, per ognuno di noi, padre e madre hanno un’importanza particolare, non solo per quello che hanno detto e fatto, ma per quello che simboleggiano in quanto padre e in quanto madre e per il valore che quei simboli hanno per noi. L’analista deve, però, essere consapevole che la situazione dell’analisi e la positura che impone, esasperano ed esaltano quei tipo di transfert e non altri. Forse, in una terapia di gruppo, altri transfert si evidenziano: le persone che stanno intorno sono tante, più giovani e più vecchie, maschi e femmine, ognuno vede negli altri tante persone del proprio passato, il terapeuta è il padre o la madre, il fratello maggiore. Ma le fantasie sono più ricche anche di quante ne possano suscitare le poche persone di un gruppo; la vita è più articolata. È importante, sempre, che l’analista sappia quali sono i ruoli che lui sta vivendo, momento per momento, per i suoi pazienti; non deve però pensare che siano, in assoluto, i ruoli fondamentali. Attraverso il riattualizzarsi di un atteggiamento nevrotico, non si riattualizza, necessariamente, il significato più profondo della nevrosi del paziente, ma uno dei suoi aspetti, talvolta, neppure il più significativo. Ora, l’osservazione, prima, e l’analisi, poi, del transfert, sono ancora utili? L’applicazione del principio dei transfert continua ad avere una sua validità tecnica se è assolutamente isolata, circoscritta nello spazio e nel tempo. L’analista, però, deve inseguire, insieme con il paziente, tutti i transfert che il paziente mette in atto, parlando. Egli parla della sua vita e dei suoi sogni. Il transfert non deve essere confuso con il rapporto. Il transfert è una delle modalità del rapporto; è presente sempre, ma bisogna sempre isolarlo: ciò è difficilissimo, ma questo è uno dei compiti dell’analisi. Lavorare sui modi e sul linguaggio del transfert del paziente è fondamentale; ma il transfert quanto incomincia?

7.

Se io amo oppure odio in questa persona anche un’altra, ciò avviene perché io amavo, oppure odiavo, la persona che, allora, era in rapporto con me. Chi era per me? Era un’altra persona ancora, o almeno aveva elementi di un’altra persona; è troppo facile dire: e così via, all’infinito. Il linguaggio del transfert è un linguaggio preciso; la precisione si dirama in una articolazione fittissima. Non è possibile seguire tutti questi intricati meandri, però è possibile cogliere il senso e ricostruire davanti al paziente un teatrino. Un teatrino di cui anche il paziente è marionetta. Questo fa il bambino quando gioca con i pupazzi o con quello splendido giocattolo, forse il più bello di cui possa disporre: il teatrino delle marionette. Il bambino gioca, rappresenta e duplica il mondo in una scena di cartapesta e di sete sgargianti, armature di stagnola e alberi, purtroppo, di plastica. Ecco è questa la duplicazione. Finalmente mi si è infranto lo specchio, dietro lo specchio, un teatrino. Questo è il più bel giocattolo che io abbia avuto. Questo è forse l’unico giocattolo da regalarsi ai bambini; gli altri giocattoli è bello che i bambini se li trovino o che se li fabbrichino da soli. Ma io, forse, dico così perché non sono più bambino. E non sono neppure un mercante di balocchi. Come il bambino non deve soltanto, e per fortuna non si accontenta, toccare gambe e braccia di legno e sorridere a volti di terracotta dipinta, ma deve anche toccare il proprio corpo, il corpo degli altri e gli altri oggetti; così il teatrino deve restare un gioco ben isolato, deve anche poter essere messo un po’ da parte.

8.

Cosa osserva l’analista? Le emozioni allo stato puro? Ma le emozioni allo stato puro non esistono, le emozioni si legano, sempre, a qualche cosa, che a sua volta è legato a qualcos’altro. Allora, la psicoanalisi è una scienza impossibile. Di ciò sono pienamente convinto: la psicoanalisi è una scienza impossibile, perché è la prima scienza che potrebbe liberarsi dal vecchio, stantio ed ammuffito concetto di scienza; potrebbe diventare la prima vera scienza: cioè una scienza che osserva e sperimenta; ma in cui l’osservatore e l’oggetto osservato sono, a loro volta, ricompresi in un campo di osservazione. Chi sarà, in questo caso, l’osservatore? L’osservatore sarà lo stesso di prima, osservato a sua volta dall’oggetto dell’osservazione; per di più, in questo scambio continuo, l’osservatore non solo osservatore e l’oggetto osservato non solo oggetto, non osservano mai direttamente solo ciò che stanno osservando, ma osservano anche altro: ciò che hanno osservato prima, tanto tempo fa, oppure ieri. Così lentamente si formano alcuni accordi. Questi accordi costruiscono l’armonia del mondo. L’armonia in cui deve essere inserita ogni singola persona che trova il suo posto in un’armonia universale. Armonia o disarmonia? L’empirica metafisica di Pitagora era empirica perché si arrampicava su di una corda tesa, pizzicata e vibrante. Era una metafisica perché parlava di un’armonia che si fondava su se stessa e quindi non aveva i canoni per stabilire che proprio quella e non altra fosse l’armonia. Il meccanismo del transfert, se ben compreso, rende la psicoanalisi una scienza sui generis. Proprio perché è una scienza sui generis, la psicoanalisi può diventare una scienza. Ogni scienza deve essere sui generis. Non ci può essere uniformità di metodo, perché gli oggetti sono diversi; o meglio; lo stesso oggetto viene osservato, dalle varie scienze, secondo modalità diverse. Uniformare le scienze, forse, è compito della metafisica; ma ogni scienza a sua volta è sempre una metafisica. Una metafisica che si scontra con altre metafisiche. Allora: le scienze dovranno sempre procedere autonomamente l’una dall’altra, narcisisticamente chiuse nelle loro verità che, proprio perché così autistiche, sono sempre più simili alla menzogna? Senza dubbio, ci deve essere qualcosa che leghi tra di loro le scienze; ma non può essere una scienza. Non può essere neppure la scienza delle scienze.Il transfert, meccanismo tipico della psiche dell’uomo, ben evidenziato dalla teoria freudiana, è stato un concetto, che, per un po’, ha illuso la psicoanalisi di essere una scienza come le altre. Ma poi, come ho cercato di dire, il transfert stesso ha distrutto questa illusione.

9.

Freud stesso, ad un certo punto della sua ricerca, ha provato disagio per il concetto di transfert, lo ha sentito inevitabile ed allora lo ha legato alla coazione a ripetere; ma la coazione a ripetere è al servizio di un meccanismo distruttivo. Allora ecco i consigli al terapeuta, affinché isoli, con attenzione e cura, il transfert e la nevrosi di transfert. Cosa vuoi dire: isolarla con cura? Il transfert è sfuggito di mano al suo teorizzatore. Non ha alcun senso collegarlo alla coazione a ripetere o a qualunque altro meccanismo distruttivo. Il bisogno di sentire che, nel rapporto che abbiamo con la persona che è ora presente, qui, davanti a noi, si è insinuata anche la presenza di altre figure, è un meccanismo ineliminabile e rigorosamente vitale. Come ho già detto, è il presente che si dilata e trova, davanti e dietro di sé, due punti di riferimento. Il tentativo ostinato, di Sigmund Freud, di fondare una scienza obiettiva, simile alle altre scienze, ha, in parte, fatto avvizzire tra le sue stesse mani la sua scoperta. Nonostante tutto, però, la forza propulsiva, interna all’atteggiamento psicoanalitico, non è andata del tutto perduta. La psicoanalisi è una scienza che, fin da subito, si è compromessa; non ha cercato il paravento di facili sperimentalismi: ha realmente voluto capire, ha affondato lo sguardo dentro, oltre le apparenze. Purtroppo, non s’è accorta subito che anche le apparenze non sono soltanto apparenze; ma sono, a loro volta, fantasie, profonde e lontane. Le apparenze, che la psicoanalisi chiamò razionalizzazioni, non razionalizzano un bel niente: la ragione sta nel fondo come in superficie. Tra tutti i concetti enunciati dallo scienziato viennese, quello più sbagliato (uso questa espressione, così terra terra) è il concetto di Es. L’Es è la metafisicizzazione della ricchezza emozionale e fantastica dell’essere umano. Una metafisicizzazione che è, però, anche una demonizzazione. Qualcuno ha voluto vedere nell’Es il luogo dell’irrazionalità. Ma, razionalità e irrazionalità son due termini che la cultura ha voluto chiamare, di volta in volta, uno bene e l’altro male. Se il bene sia la ragione oppure l’irrazionalità, non è stato mai dimostrato chiaramente da nessuno. Il bene è il bene e il male è il male; oltre non si deve andare. Successivamente, il bene e il male vengono descritti e vengono indicate le norme utili a perseguire l’uno e a fuggire l’altro. Ragione e irrazionalità, il caos pulsionale e la lucidità della logica cosciente, non sono che l’uomo nella sua interezza intriso di bene e di male, di giustizia e di ingiustizia, di odio e di amore. Dietro le apparenze non c’é nulla,. perché la parvenza è già dietro.

10.

Eppure, come ho detto, la scienza freudiana si è compromessa; ha cercato, spudoratamente, la compromissione. Quelle vecchie teorie psicoanalitiche hanno scandalizzato, non tanto perché mettevano a fondamento di tutto la pulsione sessuale, o perché hanno svelato la sessualità infantile, osando parlare di perversioni, quanto hanno scandalizzato perché, una volta tanto, uno scienziato aveva avuto il coraggio di dire le cose come stavano secondo lui. «E se non fosse vero?» Dicevano i ben pensanti bacchettoni della scienza. «Ma dove sono gli esperimenti? Dove sono le quantificazioni? Dove sono i teoremi, le statistiche?» Freud, ingenuamente, cercò di soddisfare a queste esigenze: nel suo piccolo laboratorio in stile impero. La sua forza vera è, però, consistita nell’aver osato dire quel di più che sconcerta. Nell’aver cercato di capire interpretando gesti, leggendoli secondo chiavi non consuete. Freud può dire cose semplici; talvolta, io ritengo che dica cosa false; ma non è mai banale. Noi, che siamo così abituati a trovare i peccati di origine, possiamo, una volta tanto, parlare del merito di origine. Questo merito della spudoratezza, la psicologia dinamica, detta in arte «psicoanalisi», lo ha avuto da sempre, e non lo ha più perduto. Certo, la psicoanalisi è diventata, troppo spesso, preda di persone stupide e ignoranti. Costoro, nella loro stupidità, hanno creduto che fosse psicoanalitico dire sempre, di ogni argomento, esattamente il contrario di ciò che qualcuno si sarebbe aspettato. La loro ignoranza ha permesso che raffazzonassero, a destra e a manca, acriticamente, concetti di ogni genere: dalla mitologia, all’antropologia, etc. Piccoli nani: è inutile che vi arrampichiate sulle spalle del gigante, se voi siete ciechi, lui vedrà sempre più lontano di voi!

11.

Intanto, la psicologia sperimentale ha seguitato il suo cammino. Se nell’Ottocento poteva avere un suo significato, oggi, è del tutto anacronistica!Chi legge un trattato della cosiddetta psicologia sperimentale, quella psicologia, cioè, che si basa sugli esperimenti, sulle statistiche, sulla osservazione dopo avere errato per sentieri irti di cifre e di frasi convenzionali, si accorgerà alla fine, che la descrizione dell’uomo che ne risulta è assolutamente scialba e piatta, simile a quella del più distratto e gratuito degli osservatori disimpegnati. Non l’obiettività, ma il qualunquismo guida troppe ricerche psicologiche. Vengono introdotti concetti di valore, surrettiziamente e inconsapevolmente; il comportamento della maggioranza diviene il comportamento sano e la salute viene descritta, dogmaticamente, secondo i concetti morali che stavano già prima nella mente dello sperimentatore: questo uomo è sano perché si comporta in questo modo, comportarsi così vuol dire essere sani. Dov’è la salute? Dov’è la malattia?La psicologia non può imitare le altre scienze sperimentali, se non vuole diventare doppiamente stupida: perché costruisce, fondandoli dal nulla, i parametri che serviranno alla verifica della validità dei parametri stessi. Questo è il cerchio in cui roteano tutte le scienze, e la psicologia in modo particolare. Questo cerchio deve essere spezzato. Quando ciò avverrà saranno, forse, liberate tutte le scienze. Chissà se ci riuscirà la psicologia dinamica, in arte: psicoanalisi?