3 – Maggio ‘84

maggio , 1984

La buona cucina non è detto che debba essere l’unico ingrediente di una serata al ristorante, certo ne è l’ingrediente fondamentale. Giocano ambiguamente sul concetto di «atmosfera» una serie di ristoranti e ristoratori che finiscono poi col non offrire né il fumo né l’arrosto, ma solo conti salati! In un ambiente gradevole, diremmo addirittura di buon gusto (per un ristorante) viene perpetrato a Roma, al numero 31 di Via degli Uffici del Vicario, uno dei delitti più efferati contro la buona cucina. È, questo 31 al Vicario, un locale assai apprezzato da una certa «romabene» fatta di ambasciatori, burocrati, uomini e donne della politica, cafoncelli in pelliccia e camorristi in gessato. In sala si sente sussurrare di viaggi alle Seychelles, si riportano voci dai vicini corridoi parlamentari, nessuno si preoccupa, ovviamente di quello che mangia, e molti hanno l’aria degli «habitués». Anche noi, dopo i primi assaggi abbiamo preferito ignorare quello che portavamo alla bocca o che riempiva le etichettatissime bottiglie: ecco perché le orecchie hanno potuto ascoltare attente il sommesso parlottio altrui. Al bar il suono di una chitarra e il canto del chitarrista addolciva la tristezza di una serata che neppure il distratto Valentino, barman dai passati fasti, riusciva a rendere accettabile.
Un ristorante ancora più irritante del precedente è quello di Rossana e Matteo, Ai Tre Scalini, in Via dei Santi Quattro, al numero 30.
Qui la pretesa è di giocare la carta della buona cucina: il localino è piccolo e tristarello: con brutte sedie, brutti tavoli, servizio gentilmente volgare.

Tutto all’imbarazzante insegna di una pseudo-finezza borghese, che si esprime solo nel far che sia tutto minimo: a cominciare dalle porzioni che vi trovate nel piatto, proseguendo con le minuscole ciotoline che contengono salsine dal leggero variare cromatico e dall’assenza scrupolosa di sapore. Abbiamo assaggiato: fegato di merluzzo in salsa verde, tagliolini alle vongole veraci rosa carico, cotti bene, un’intensamente colorata zuppa di astice e granchi, che in contrasto coll’arancione del brodetto aveva sapore e fibrosità del fieno. I secondi sono stati: spigola al forno ripiena cui era accostata una variegata salsetta verde-oro (la gigantesca testa del pesce riempiva il piatto e un po’ di polpa era reperibile sotto le larghe branchie); poi una granseola in bella mostra nel suo barocco guscio bianco e rosso, immersa nella sua rosea salsina, un ultimo spruzzo di colore discreto sull’insalata di stagione e ci siamo alzati per non ritrovare la dispettosa salsina anche sui profitéroles o sulle fragole, in appropriata variazione di colori. Un buon Riesling Italico del Collio, di Marco Felluga, 1983, ci ha portati meno mesti al momento del conto, alto, ma con discrezione.