3 – Maggio ‘84

maggio , 1984

A Roma, in primavera, si moltiplicano le occasioni di sentire musica da concerto eseguita nelle chiese, dove la mancanza di mezzi non ha ancora permesso che trionfi il cattivo gusto pontificio che porta ad ascoltare in S. Pietro i cantori della cappella Sistina, oltraggiati da moderne amplificazioni, che li castrano, insieme con il loro uditorio.

Ci siamo emozionati ad ascoltare, con il corpo e non solo con le orecchie, il concerto a S. Ignazio di lunedì 30 aprile. In programma musiche accomunate dal cognome Mozart dei loro autori: padre e figlio. Un bizzarro effetto acustico rendeva talora ambiguo l’impasto delle sonorità, creando anche dissonanze non previste: ma la musica era palpabile, più viva, anche se meno precisa all’udito, che nelle sale da concerto. Dal fondo della chiesa ci ha dapprima avvolto l’impasto armonico della Kirchensonate in do, eseguita con austera precisione; poi opera di quel Mozart che ha avuto il nome di Leopoldo, padre del grande Volfango, il mottetto Parasti mensam, un brano di buona fattura artigianale in cui l’orecchio attento non poteva non percepire l’astrale distanza dalla musica del figlio. Una piacevolissima sorpresa è stata la Missa Pastoritia, attribuita soltanto a Volfango Amedeo.

Che sia opera sua abbiamo seri dubbi; ma è un piccolo gioiello che, in alcuni punti, ricorda un Mozart maturo che voglia fare il verso a se stesso bambino: taglio delle melodie, l’orchestrazione e l’uso della vocalità la fanno associare al singspiel Bastien und Bastienne. Nell’esecuzione di questa messa tutti gli interpreti hanno dato al loro meglio: I solisti del teatro dell’opera di Monaco, il coro e l’orchestra di Augusta e il direttore Wolgang Ress hanno costruito con meravigliosa concordia un edificio in cui i fiati collaboravano a creare con gli archi armonie semplici e perfette, senza che mai gli uni sopraffacessero gli altri; i solisti (migliori le voci maschili di quelle femminili), precisi e un po’ timidi, esponevano melodie ammaliatrici, la direzione univa ad essi il coro, in un totale quanto mai gradevole. Il pubblico, per lo più di non competenti, come si evinceva dai numerosi applausi al momento sbagliato, è rimasto attonito in transumano silenzio, rapito ad ascoltare una delle pagine più belle in assoluto della storia della musica: il Laudate Dominum, per soprano e coro; qui il soprano ha trovato accenti che hanno toccato il sublime.

Il maestoso e talvolta un po’ ammiccante (chissa perché?) Te Deum ha concluso fra applausi fragorosi un bel concerto.