3 – Maggio ‘84

maggio , 1984

Dicevamo poco fa della misteriosa acustica delle chiese romane; ma, se la sorgente sonora sta nel presbiterio, o da quelle parti, come in genere avviene, la leggera confusione che si crea non è poi un gran difetto. Se invece si recita a tre quarti della navata, come è avvenuto per la rappresentazione della Passione che abbiamo assistito in S. Andrea della Valle la sera del venerdì santo, l’orecchio di chi ascolta è sottoposto ad uno sforzo davvero erculeo. All’inizio, il fatto di sentire così poco, ci ha disorientati; ma poi ci siamo sentiti coinvolti in una situazione teatrale e poetica di tale bellezza che ci siamo dimenticati della fatica uditiva. Uno spettacolo sacro, sacro fino in fondo: il testo medioevale in un dialetto abruzzese gradevole non sappiamo quanto addolcito, era recitato da personaggi vestiti con abiti contemporanei. I giudei, vestiti da mafiosi o da uomini di affari con la perfida tracotanza dei cattivi di sempre: il Cristo, interpretato da Pino De Matti, dolce e virile, sapeva unire l’umano e il divino anche sotto i colpi del plotone di esecuzione, versione storicamente connotata e plausibili del sacrificio; uno scuro Giuda sensuale e morboso incarnato da Giampiero Fortebraccio; Claudio Lizza ci ha dato un Giovanni trasognato e grazioso nella sua gracilità. Un eroe del quotidiano, professionalmente perfetto, era Pietro De Vico, nei panni ora del povero diavolo ora del povero cristo, in stracci e lustrini. Stupenda Pupella Maggio, una vecchia Madonna, tenera come un passerotto, che trova in quel corpo gracile la forza di un urlo così straziante da lasciare allibiti. Il regista, Antonio calende è davvero un mago della scena. Un accenno meritano le musiche di Germano Mazzocchetti, per fisarmonica e percussioni; musiche originali, dal sapore popolare e citazioni del melodramma italiano, tutto usato con gran sapienza teatrale e musicale; tra le altre una specie di leit motiv costituito dalla struggente melodia di «una volta c’era un re…», dalla Cenerentola di Rossigni, dove anche la presenza di quelle parole non dette ha avuto un forte significato evocatore. Quando il Gesù è morto sulla scena, una bambina accanto a noi si è messa a piangere, piano. Senza pudore confessiamo di esserci accorti, dopo, di avere fatto lo stesso.

Una gradevole sorpresa è stata per noi l’incontro al teatro Quirino con questa Cammuriata di Leopoldo Mastelloni, su testi e regia di Peppino Patroni Griffi. Eravamo prevenuti: ideologicamente ed esteticamente non amiamo i travestiti, soprattutto se televisivi. Ma Leopoldo Mastelloni non è un travestito sulla scena (la sui vita privata qui non ci interessa). È un attore, che sa interpretare molto bene anche parti di donna, come facevano anche gli attori della tragedia greca antica; si ca. pisce che sa recitare anche il ruolo del travestito, e quello del maschio, restando sempre e virilmente un ottimo artista. Non abbiamo sempre pensato che i maschi sanno capire le donne meglio di quanto esse sappiano capire se stesse e i maschi; Mastelloni è una prova vivente della nostra teoria: sempre maschio, mai checca, capisce il mondo e i suoi abitanti, li racconta: tragici, poetici, lussuriosi, allegri, maschi e femmine. Purtroppo il pubblico tenta con risate violente di costringerlo nella macchietta del travestito e lui, talvolta, cede, noi speriamo con fastidio, per strappare un applauso di più. I testi erano astuti, ma avrebbero potuto essere più efficaci: il dialetto napoletano si rivela ancora una volta lingua splendida. La colonna sonora è un po’ monotona e la regia manca di prospettiva. Il risultato è stato un bel lo spettacolo di Ma stelloni cui ha fatto da spalla uno smorto Patroni Griffi.

va talora ambiguo l’impasto delle sonorità, creando anche dissonanze non previste: ma la musica era palpabile, più viva, anche se meno precisa all’udito, che nelle sale da concerto. Dal fondo della chiesa ci ha dapprima avvolto l’impasto armonico della Kirchensonate in do, eseguita con austera precisione; poi opera di quel Mozart che ha avuto il nome di Leopoldo, padre del grande Volfango, il mottetto Parasti mensam, un brano di buona fattura artigianale in cui l’orecchio attento non poteva non percepire l’astrale distanza dalla musica del figlio. Una piacevolissima sorpresa è stata la Missa Pastoritia, attribuita soltanto a Volfango Amedeo. Che sia opera sua abbiamo seri dubbi; ma è un piccolo gioiello che, in alcuni punti, ricorda un Mozart maturo che voglia fare il verso a se stesso bambino: taglio delle melodie, l’orchestrazione e l’uso della vocalità la fanno associare al singspiel Bastien und Bastienne. Nell’esecuzione di questa messa tutti gli interpreti hanno dato al loro meglio: I solisti del teatro dell’opera di Monaco, il coro e l’orchestra di Augusta e il direttore Wolgang Ress hanno costruito con meravigliosa concordia un edificio in cui i fiati collaboravano a creare con gli archi armonie semplici e perfette, senza che mai gli uni sopraffacessero gli altri; i solisti (migliori le voci maschili di quelle femminili), precisi e un po’ timidi, esponevano melodie ammaliatrici, la direzione univa ad essi il coro, in un totale quanto mai gradevole. Il pubblico, per lo più di non competenti, come si evinceva dai numerosi applausi al momento sbagliato, è rimasto attonito in transumano silenzio, rapito ad ascoltare una delle pagine più belle in assoluto della storia della musica: il Laudate Dominum, per soprano e coro; qui il soprano ha trovato accenti che hanno toccato il sublime.

Il maestoso e talvolta un po’ ammiccante (chissa perché?) Te Deum ha concluso fra applausi fragorosi un bel concerto.