Psicoanalisi contro n. 0 – Il mistero della psicoanalisi

febbraio , 1984

Psicoanalisi è il nome:

  1. di un procedimento per l’indagine di processi mentali che sono pressoché inaccessibili per altra via;
  2. di un metodo terapeutico fondato su tale indagine per il trattamento di disturbi nevrotici;
  3. di una serie di concezioni psicologiche acquisite per questa via e che gradualmente convergono in una nuova disciplina scientifica.

(S. Freud, Due voci di enciclopedia, 1922, da Opere, ed. Boringhieri)

Sigmund Freud è stato l’inventore della psicoanalisi.

Questa è una definizione riduttiva ed è una affermazione che non mi piace; allora, chi è stato Sigmund Freud? Sigmund Freud è stato uno scienziato che ha raccolto, talvolta raccattato qua e là, informazioni, nozioni e stimoli tentando con tutto ciò di costruire un discorso organico. È stato capace di grandi intuizioni e ha saputo osservare la realtà che gli stava intorno così da ricavarne alcuni concetti generali utili per intervenire sulla realtà stessa.

Sigmund Freud è stato un filosofo, che ha cercato di chiarire e sistematizzare ciò che le sue fantasie e le sue osservazioni empiriche gli venivano suggerendo: ha dato una visione dell’uomo e quindi ha anche dato una visione del mondo.
Se un uomo si interessa del mondo e cerca di interpretarlo non fa altro che dare una definizione di uomo e se tenta di capire l’uomo non fa altro che proporre un’ipotesi di mondo.

Sigmund Freud è stato un buon organizzatore di esperienze altrui: ha preso qualcosa dalle affermazioni dei ricercatori del suo tempo, qualcos’altro ha ricavato dal pensiero dei filosofi a lui più o meno contemporanei, ha orecchiato ciò che gli artisti andavano dicendo, inserendo il tutto nelle serrate maglie di un pensiero coerente. Sigmund Freud è stato un genio che ha raccolto le esigenze di un’epoca, che ha contribuito a chiarire le intuizioni di millenni di filosofia, di arte e di scienza ed è riuscito a raccontare l’uomo all’uomo in modo che questi si ritrovasse.
Ha descritto molte angosce profonde dell’umanità ed ha costretto gli uomini a prenderne coscienza.
Non ha né esaltato né abbassato l’uomo, gli ha dato strumenti, forse un po’ rozzi, per orientarsi nel cammino. Lo sguardo di Freud è stato acuto e penetrante; intimidito, però, da ciò che vedeva.
Nelle mani di Freud, Edipo, forse, non è più un eroe, ma ha la possibilità di scrollarsi di dosso secoli di ipocrisia. Edipo è in attesa…
S. Freud è stato l’inventore della psicoanalisi.

2. La psicoanalisi sorse nel periodo in cui il capitalismo si compiaceva di se stesso. Il capitalismo aveva già avuto evoluzioni e involuzioni, aveva superato crisi: riadattandosi e riadattando.
Cercava una concretezza e questa concretezza sperava di trovarla nella scienza, contemporaneamente la scienza voleva trovare la propria dignità fondandosi sulla morale.

Ogni società ha la sua scienza e la sua morale; ma non è mai del tutto coerente con se stessa, sebbene si sforzi di sembrarlo.

Ogni società conosce due tipi di disagio profondo: il primo è quello che deriva dalle sue contraddizioni, dal conflitto tra il dare e l’avere, tra chi ha di più e chi ha di meno; il secondo è il disagio provocato da coloro che disturbano, contestandoli, i valori fondamentali su cui la società stessa tenta, se pur traballando, di reggersi.

Ogni società si difende in due modi: attraverso le abitudini che divengono istinti e attraverso la repressione violenta. La tradizione, io dico, non è mai repressione. Troppo spesso la tradizione è stata confusa con l’abitudine e i principi della tradizione con la violenza della repressione. Io amo la tradizione e le tradizioni, perché sono il mio e il nostro passato ed entrano nei miei e nei nostri sogni. La tradizione ci struttura e ci costruisce. Altri prima di me si sono amati, hanno lottato, sono morti, illudendosi di non morire. Io ripeto alcuni dei loro gesti, ripeto i loro sogni e le loro canzoni. Io sono anche gli altri; non soltanto quegli altri che vivono con me qui ed ora, ma anche quelli che sono stati prima di me e che hanno tentato di essere felici, inventando gesti per divertirsi, per amarsi e per odiarsi. La tradizione è lo splendore del mondo; l’abitudine è il suo squallore. La violenza della repressione è la morte dell’intelligenza. Quando la tradizione si fa abitudine, consuetudine, chiacchiera, si annida nella stupidità di coloro che giocano a carte perché non sanno stare insieme a parlare tra di loro, che vanno alla partita di calcio per vomitare volgarità e digerire il pranzo della domenica, che vanno a messa per una piccola paura dell’inferno.

Vivere la tradizione è continuamente riconquistare la poesia del passato e la tenerezza e la disperazione di coloro che sono vissuti prima di me. L’abitudine, soprattutto quando diventa chiacchiera ed istinto è la banalità del presente che si radica in qualche stereotipo. Alla fine dell’ottocento un tipo di scienza, né migliore né peggiore di quelle del passato, volle, definendo l’istinto, diventare istinto.

Ciò accadde perché la scienza ebbe paura di se stessa; ebbe paura della verità, ma soprattutto dei propri dubbi.
È difficile accettare la possibilità di un’invenzione che può diventare verità, ma che può anche non diventarlo. In quegli anni il mondo occidentale volle essere certo nelle sue scelte, sperando di essersi dato un assetto definitivo, che poteva soltanto migliorare guidato dalla ragione e dalla scienza. Mentre il «progresso» diventava immagine e musica, sgambettando tra il gradevole spumeggiare del «ballo excelsior», la «bella epoca» spandeva la sua luce attraverso paralumi scintillanti di perline retti da donne di bronzo quasi nude contorte in uno spasimo sensuale.

La medicina insegnava ad individuare e a scoprire le vere cause delle malattie e la tecnologia inventava macchine per costruire macchine, che avrebbero costruito altre macchine, all’infinito. Ma se si mette un processo all’infinito, né all’indietro, né in avanti non si può trovare Dio, ma soltanto un serpente che ingoia la propria coda credendo ragionevolmente di interpretare l’eternità.
L’epoca era bella; ma le sofferenze erano cocenti, lo sfruttamento e la miseria incrinavano l’autocompiacimento di quegli anni ed i potenti si esercitavano per la guerra.

Lo sfruttamento c’è sempre stato, così padroni avidi, così servi stupidi, così la connivenza dei prelati, così la stupidità della scienza, tutto è sempre stato, ma tutto è anche sempre nuovo.
La fine del mondo non verrà quando sofisticate tecniche belliche faranno esplodere questo chicco di sabbia nell’universo, ma quando gli esseri umani si convinceranno di ripetere sempre la stessa storia. La psicoanalisi sorse in uno dei tanti momenti di contraddizione e fu scoperta insieme con le piume, il taylorismo e le cosce delle donne mentre le campagne si contorcevano nell’antica miseria e la città diventavano terribili.

Gloria delle città
terribili, quando a vespro
s’arrestano le miriadi
possenti dei cavalli
che per tutto il giorno
fremettero nelle vaste
macchine mai stanchi,
e s’accendono i bianchi
globi come pendule lune
tra le attonite file
dei platani lungh’esse
le case mostruose
dalle cento e cento occhiaie,
e i carri su le rotaie
stridono carichi di scoria
umana scintillando d’una luce più bella
che la luce degli astri,
e ne’ cieli rossastri
grandeggiano solitarie
le cupole e le torri!…..
(G. D’Annunzio Laudi, Maia, Le città terribili)

Il fumo delle ciminiere, il sudiciume delle strade, la miseria dei miseri offendevano il buon gusto. L’industria produceva e produce sporcizia e stupidità, questo è vero; ed è anche vero che Elena è diventata la grassa puttana del bordello di un porto. La mitologia racconta che, un tempo, Elena di Menelao, fosse un’antica dea madre: nell’ombra sgangherata del lupanare al porto ritrova il suo rapporto con la terra e il suo dominio sul fallo, di un fallo che sa di orina e non è profumato di ambrosia… ma questa è la storia del fallo, cioè un’altra storia.

Anche le piccole case borghesi che si coprivano di carte da parati azzurre e violette, con pagode e musmé, covavano nell’ombra le loro oscenità e i loro conflitti. Padre, madre, figlio o figlia: ecco desideri innominabili, una camera vietata, rumori nella notte, le mani che frugano tra le gambe; le gambe di chi? Non importa.
«Io ce l’ho, tu non ce l’hai». L’invidia. E alcuni miserabili tumultuavano per invidia, perché volevano anche loro le musmé sulla carta alle pareti.

3. L’economia, scienza precisa e matematica, fonda le sue teorie sui bisogni dell’uomo. I bisogni, che sono il fondamento, caldi e disorientanti, soggiacciono, però, alle leggi di mercato. I bisogni e i desideri coincidono e i desideri animano i sogni; quindi le leggi di mercato si fondano sui sogni. Tutto questo Sigmund Freud finge di non saperlo; ma altri, ben lo sanno.
L’industria non vorrebbe reggersi né sui sogni né sulle cosce delle donne, almeno così dicono gli uomini che, vestiti da uomini discutono nei consigli di amministrazione. L’industria si regge sull’accaparramento delle materie prime, su leggi economiche di mercato ben precise e sulla volontà di lavorare di tutti: del padrone e dell’operaio.

Le leggi di mercato, però, dominano tutto, sogni e prodotti industriali. Gli artisti come Sigmund Freud non vorrebbero fosse così. Anche gli scienziati nei laboratori, ne vorrebbero essere al di fuori; ma i saggi sono consapevoli che non è possibile. Tutto è merce, perché tutto si può vendere: anche i prodotti dello spirito? Certamente, anche perché, lo spirito, forse, non esiste. Lo spirito coincide con l’ingegno umano, e l’ingegno umano deve, appunto, ingegnarsi. Ingegnarsi vuol dire buttare sul mercato prodotti sempre nuovi e quindi più vendibili. L’ingegno umano deve essere difeso, protetto e salvaguardato. Perciò deve essere protetta, difesa e salvaguardata la libera iniziativa.

La libera iniziativa è il sale della terra, ma la libera iniziativa deve essere difesa anche dalle multinazionali. Gli inventori vogliono che i loro «brevetti» vengano protetti, gli artisti vogliono che le loro opere, cioè le loro invenzioni, siano difese. Ciò è giusto, o meglio è indispensabile che sia così. Ma, se Freud ha inventato la psicoanalisi, e se la psicoanalisi è una tecnica utile a raggiungere uno scopo, questa invenzione chi la difende? Quale società dei brevetti, quale società degli autori ed editori potrà difendere l’invenzione di Sigmund Freud ?

4. Bisogna, prima di tutto, definire la psicoanalisi; ma Freud non ne è in grado, non ne sono in grado i suoi amici, non ne sono in grado coloro che hanno fondato la prima società di psicoanalisi. Allora bisogna depositare un marchio, il marchio da depositare è una parola, questa parola è «psicoanalisi». Così vogliono le leggi di mercato; la scienza non può estraniarsi da queste leggi, seppure ciò dia fastidio agli scienziati. Anche le dinamiche inconsce sono inserite in un meccanismo di produzione; anche il complesso di castrazione ha un suo prezzo in denaro, poiché costa scoprirlo e costa farselo scoprire.

Molti credendo di muovere una critica alla psicoanalisi delle origini, e anche del presente l’hanno accusata di essere una religione, con un pontefice, dei vescovi che talvolta si radunano in Concili ed emettono scomuniche. La psicoanalisi, felicissima, si è assoggettata a questo modo di essere vista; il triregno pontificio, la porpora dei cardinali, il violetto dei vescovi che con il loro pastorale guidano le greggi degli uomini le conferiscono una grande dignità. Si è parlato di psicoanalisi ortodossa e di psicoanalisi non ortodosse, gli eretici pullularono e pullulano, il tutto ha un sapore di antico; si cerca astutamente di inserire queste lotte nella dignità di una tradizione antica: vi è una chiesa ufficiale e vi è un concilio di vescovi, e vi sono sacerdoti «ortodossi»; tutti gli altri sono al di fuori. Sono i «selvaggi» e la chiesa può mandare i propri missionari tra le foreste, pronti anche a dare la vita: il verbo è scritto e il verbo deve illuminare tutte le anime. Intorno all’invenzione freudiana si è strutturata una organizzazione che ha uno statuto, leggi e dirigenti; si è chiamata società di psicoanalisi. Un nome che cerca il riverbero dei bagliori della religione; ma che deve fare anche i conti con le leggi di mercato. La psicoanalisi, quindi, deve avere un «marchio di fabbrica», altrimenti in base a cosa ci si divide i profitti? Se la psicoanalisi è un prodotto dell’intelletto deve riscuotere i propri diritti d’autore, e questo è giusto. Ma la psicoanalisi si è ormai diramata in tante psicoanalisi, in tante chiese non ortodosse; certo, rimane salda l’unica vera chiesa, ma anche le altre pretendono di essere partecipi della verità.

La psicoanalisi, quella inventata dal medico viennese Sigmund Freud, deve difendersi e acutamente ha escogitato uno stratagemma. Non so chi abbia inventato per primo questa furba trovata, se la Società Internazionale di Psicoanalisi o una casa produttrice di cosmetici, ma non importa: io racconto ugualmente questo aneddoto.
Molti anni or sono, una casa di prodotti di bellezza ne inventò uno, quanto mai banale e poverello; ma che venne tosto a dominare in tutte le stanze da bagno. Quel prodotto aveva un nome e la sua diffusione fu così capillare che, comunemente, tutti gli altri prodotti presto sfornati, con minime varianti, da altre ditte vennero comunque dalla gente sempre chiamati col nome di quel primo prodotto. Allora la pubblicità, astutamente, inventò uno slogan, che è uno dei più begli slogan pubblicitari che siano mai stati inventati. Lo slogan è questo: «Se non è Roberts non è borotalco». Ma poiché quel prodotto è diventato sinonimo di tutti i prodotti dello stesso genere, ovviamente tutti interpretano lo slogan nel significato che il vero e unico è il prodotto di quella prima casa che ha quel nome. E tutti gli altri? Tutti gli altri non solo sono false imitazioni, ma, proprio non sono «borotalco». È questa la sottigliezza: non sono falsi; proprio non sono; sono altro, ma sono talmente altro che sono completamente un’altra cosa. Non è vero nei fatti, ma che importa? L’importante è aver trovato un messaggio efficace. E, per un verso, da un punto di vista strettamente logico e giuridico la casa produttrice di quel primo prodotto ha perfettamente ragione. Così fanno quegli psicoanalisti che operano usando i principi del grande Sigmund Freud. Spesso coloro i quali hanno intrapreso una terapia con un terapeuta non freudiano si sentono dire dagli psicoanalisti che hanno il marchio Sigmund Freud: «voi non fate psicoanalisi». Questa è un’affermazione quanto mai astuta, che causa disorientamento, perché, ormai la parola psicoanalisi, serve a designare una serie molto varia e complessa di trattamenti psicoterapeutici, che a rigore, effettivamente non dovrebbero essere chiamati psicoanalisi, perché il termine psicoanalisi è un marchio che appartiene propriamente all’invenzione di Sigmund Freud. Qui si gioca però sull’ambiguità di una parola, che per un altro verso, ha acquistato nella storia dell’uso linguistico un altro significato: non indica soltanto più quella corrente, ma, ormai, sta per tutte quelle tecniche le quali si rifanno a un principio comune. Perciò quando uno psicoanalista che usa l’invenzione freudiana, dice agli altri terapeuti: «Voi non siete psicoanalisti», e dice a coloro che faticosamente e dolorosamente sopportano il ruolo di pazienti: «Voi non state facendo psicoanalisi», ha giuridicamente e formalmente ragione. È ovvio che quello che interessa è il messaggio pubblicitario, efficace e intelligente: «Voi state facendo niente, perché la psicoanalisi è solo quella, tutto il resto non è». L’angoscia che ne segue può essere lieve o intensa, ma comunque non può non sorgere, ma questo è giusto, questa è la lotta in una società che usa i «marchi di fabbrica».

5. A questo punto, sorge la domanda: «A parte le astuzie dei cosiddetti «freudiani», che cosa è quella cosa che, comunemente, viene chiamata psicoanalisi? Esiste un denominatore comune che unisce tutte le varie correnti?» Indubbiamente, anche coloro che non usano il marchio Sigmund Freud hanno messo in atto le loro astuzie: si servono della parola «psicoanalisi» per indicare le loro teorie nella speranza di nobilitarle usando un termine che, seppure ambiguamente, richiama pur sempre il nome del geniale scienziato austriaco.

Allora non soltanto il linguaggio comune commette l’errore di chiamare tutti gli psicoterapeuti di un certo tipo psicoanalisti, ma anche costoro amano farsi chiamare psicoanalisti perché questa è una parola che ha ormai acquistato una dignità.
Ho usato l’orribile espressione: «di un certo tipo», ma tant’è, non me ne veniva un’altra, e mi scuso. Ora quindi mi chiedo, che cos’è «questo certo tipo»? La risposta non può che essere banale, troppe cose intelligenti sono state dette sulle psicoanalisi e troppi comportamenti furbi sono stati escogitati, sotto tutto ciò non può che esserci una realtà molto semplice, limpida e chiara, per fortuna: oggi si chiamano psicoanalisti tutti coloro che lavorano basandosi sul presupposto che esista l’inconscio. Questa, forse, è una banalità che va oltre la banalità e che rischia di essere una sciocchezza, eppure è una verità. Allora, se è una verità, non è una sciocchezza; ed io sono convinto che non sia neppure una banalità, ma soltanto un fondamento. Da sempre i filosofi e i poeti, e la gente comune, credono nell’inconscio; però, pensare di strutturarlo, di indagarlo, di scoprirlo, cioè di renderlo almeno in parte non più inconscio, è il compito che parte della psicologia, e non soltanto quella freudiana, tenta di fare. Sigmund Freud è un genio, ma è, probabilmente, primus inter pares, pari a lui non sono certo tutti, ma solo alcuni: e la storia della scienza continua…

6. La psicoanalisi e lo psicoanalista sono entità misteriose, ma potenti. Ecco perché talvolta sono oggetto di attacchi furibondi, un po’ ridicoli e spesso anacronistici. È difficile trovare un principio unificatore o un fondamento comune in questa congerie così articolata di teorie e concetti, tecniche ed affermazioni, in accordo tra di loro e più spesso tra di loro in contrasto. Le teorie dette psicoanalitiche sfumano l’una nell’altra, pur opponendosi si confondono con altre teorie che vengono da molto lontano. Prima ho detto che vi è un unico fondamento elementare e semplice: l’inconscio.
Le psicoanalisi, quindi, dicono che esiste l’inconscio, ma in questa stessa affermazione si contraddicono. Dicono un non senso, cioè pronunciando l’inconscio dicono ciò che non si può dire, perché l’inconscio dalla parola cosciente non è neppure pronunciabile.
L’inconscio è una parola che non ha nulla dietro di sé, o meglio: non ha nulla di dicibile; eppure ha senso che esistano le psicoanalisi soltanto se esiste l’inconscio e se l’inconscio è pronunciabile.

Vi è un secondo postulato nella e nelle psicoanalisi: «bisogna far diventare conscio ciò che prima era inconscio». Perché fin dai primi tempi delle psicoanalisi arcaiche i teorici hanno detto che «bisogna far diventare conscio l’inconscio»? Perché molte formazioni inconsce disturbano la vita cosciente, sotto forma di sintomi. La patologia psichica ha come sua causa qualcosa che avviene lontano dalla coscienza, nelle profondità dell’inconscio. La medicina, in generale, ha sempre ritenuto importante la diagnostica, ma una diagnosi deve reggersi su una ricerca eziologica. La scienza medica si chiede il perché delle cose e non si limita a descrivere i fenomeni così come avvengono. Queste sono affermazioni antiche. La psicologia in generale, la psicoanalisi in particolare, pensano di essere un’arte medica, il loro iddio protettore è Asclepio. Ma la domanda che adesso si pone è questa: se l’inconscio diviene conscio, si conosce la causa del disagio, ma che si fa dopo? Le risposte possono essere molte ma due sono le più importanti. La prima dice che la presa di coscienza vissuta con tutto il suo carico di emotività ha una funzione catartica, perciò attraverso la sofferenza purificante si giunge alla guarigione; la seconda dice che è possibile mettere in atto tecniche che ristrutturino il campo dell’inconscio in modo che queste formazioni patogene non producano più sintomi patologici.

Ma l’inconscio può diventare conscio? Io penso di sì, perché, altrimenti, non sarebbe inconscio. Soltanto ciò che è conscio non può divenire conscio, non ha senso infatti proporsi di far diventare conscio ciò che è già tale. Ha invece senso che si desideri far diventare conscio quello che è inconscio, e questo vale anche al di là delle ragioni strettamente terapeutiche:

«nati non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza».
(Dante, Divina Commedia, Inferno XXVI)

Non solo è importante la conoscenza della virtù, ma è anche importante sapere che la conoscenza è virtù; conoscere ciò che non è cosciente vuol dire conoscere ciò che non si conosce. Nell’inconscio vi è un’intrinseca tensione che lo spinge a voler diventare conscio, insieme con forze altrettanto tenaci che tentano di far sì che ciò che è inconscio rimanga tale. Questa duplice esigenza è presente anche nella sfera cosciente. Ma la coscienza vuole ciò per ragioni conscie o inconscie?

Ma, se l’inconscio è inconscio, chi ha detto all’uomo che l’inconscio esiste? La risposta più semplice sarebbe: quell’energia inconscia, quella forza tensionale che vuole che ciò che è inconscio divenga conscio, talvolta, si ribella ed esplode improvvisamente, nella coscienza. Ma quando diviene cosciente non è più inconscio, quindi la coscienza non può conoscere che l’inconscio già diventato conscio; perciò l’inconscio sarà sempre inconscio. Come si può allora percepire la realtà dell’inconscio, e, soprattutto, come si è potuto pensare che esistesse l’inconscio? Un primo aspetto dell’inconscio è che l’inconscio è memoria. Non è certo la memoria fredda e inerte di una collezione di dati. È una memoria in continuo ribollimento. D’altronde la coscienza non coglie che una minima parte di ciò che è in sé e attorno a sé; come il cosiddetto corpo non esplica che alcune funzioni in dipendenza dalla volontà e tutto il resto avviene in lui involontariamente e inconsapevolmente. Così ciò che entra nella coscienza non è che una piccola parte di quello che accade dentro e intorno alla persona. La consapevolezza della coscienza, è una consapevolezza inconsapevole, perché le vere motivazioni che fanno esplodere nella coscienza i meccanismi inconsci, sono ignoti: quindi, anche la coscienza, come l’inconscio, ha un che di assurdo e inconcepibile.

La coscienza è uno schermo su cui sono proiettate alcune immagini che non si sa da dove vengano e chi le abbia formate; non si sa dove andranno e non si sa perché muovano in questa o in quell’altra direzione.

7. Se così fosse l’uomo sarebbe diviso in tre parti: la coscienza, l’inconscio e il corpo. Queste tre parti debbono essere lasciate divise? Un tempo si divideva l’anima dal corpo, ora si è aggiunto un terzo elemento: l’inconscio, staccato dal corpo, perché fa parte della psiche, e staccato dalla coscienza perché non è conscio. Ma il corpo con tutte le funzioni, pulsioni e tensioni, non è una macchina guidata da un macchinista o un burattino mosso da un burattinaio chiamato psiche. Il corpo è anche psiche, come la psiche è corpo. Perché la persona è una anche se le sue funzioni sono molte: tutte quelle che è abituato a credere di avere e poi tutte le altre che l’uomo non conosce, non percepisce o non vuole percepire. L’inconscio è una formazione autonoma, sussidiaria al corpo e alla psiche o è un modo di essere di quell’unità inscindibile che è la persona? Ciò che noi siamo, sentiamo e vogliamo e ciò che siamo stati e abbiamo sentito e abbiamo voluto è in noi, vive nei nostri visceri e nei nostri pensieri. Ciò che chiamiamo coscienza ben poco sa di tutto questo divenire di tensioni, di fantasie e di desideri; la memoria dell’inconscio si radica nella storia di ognuno. La storia di ognuno è inserita nella storia di tutti, perciò l’inconscio travalica l’individuo e si annida nella storia degli altri. I miei ricordi sono anche ricordi degli altri, comunicati chissà come, forse, anche, geneticamente. Certo, con uno sguardo, con una voce, con una canzone, con una predica dimenticata.

L’inconscio esiste, e lo viviamo continuamente, immemori, in una vigile smemoratezza. Perciò l’inconscio non è anche memoria: è la memoria, divenuta storia di ognuno e di tutti.

Io ho raccontato l’inconscio secondo me; perché così voglio che sia e forse anche è.

8. La psicoanalisi è sorta come tecnica per lenire la sofferenza psichica. Lentamente e parallelamente alle indagini e agli interventi clinici, alcuni pensatori cercarono di fondare quelle tecniche psicoterapeutiche su basi filosofiche; questo è giusto e sacrosanto, non si può curare muovendosi a vanvera, con una tecnica autocentrica, che si autogiustifichi. È indispensabile avere un fine, e il fine è oltre la tecnica: senza un fine ci si muoverebbe a caso e anche la tecnica più accurata si trasformerebbe in empirico dilettantismo.
In un punto tecnica terapeutica e universalizzazione filosofica coincidono: la salute si raggiunge attraverso la consapevolezza. I conflitti inconsci smascherati perdono la loro virulenza: il sintomo frutto di un malato adattamento su compromessi inconsci si affloscia quando questi compromessi vengono svelati: questo dice la tecnica.
La verità conquistata, seppur dolorosamente, rende liberi dai condizionamenti più ottusi e vili, essere condizionati dalla verità, è liberatorio e salvifico: questo dice la filosofia.

L’uomo oltre la tecnica e la filosofia ha soltanto la sua piccola, breve vita: tutto il resto è mistero. L’inconscio richiama l’essere umano alla verità del mistero. Lo squallore di una meschina e meccanica presa di coscienza e la terribile ottusità di una verità oggettiva trovano il loro superamento nello splendore del mistero. L’inconscio rappresenta il mio e il nostro mistero. La presa di coscienza non lo distrugge ma lo arricchisce.

Il disorientamento patologico produce la nevrosi. L’esasperazione delle difese narcisiste e sadomasochiste produce la psicosi. Nevrosi e psicosi tormentano la breve vita dell’uomo. Il disorientamento è di tutti. Ma smarrirsi nel mistero è il senso della buona cura. Colui che cura e colui che è curato si debbono incontrare in questo gradevole smarrimento.
La malattia è frutto della colpa, perché spesso la malattia è una colpa ed ancor più colpevole è l’adagiarsi nella malattia.
Qual è la colpa che sta a fondamento della malattia? Questa colpa si manifesta attraverso la stupidità e la viltà. Guarire vuol dire diventare un po’ meno stupidi e vili. Ma allora la terapia consiste in un’ascesi morale? Non la terapia consiste in ciò, ma la salute. Cos’è allora la terapia? È una tecnica e un innamoramento. Ma l’amore non è descrivibile, affonda nel mistero:

«e naufragar m’è dolce in questo mare».
(G. Leopardi, Canti, L’Infinito).