Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, il principio del rispetto della vita, della libertà e della dignità dell’essere umano è entrato formalmente, per tutte le nazioni aderenti, a far parte del patrimonio della coscienza civica. Questo sebbene, dalla filosofia greca al cristianesimo, alla proclamazione dei principi di libertà, fraternità ed uguaglianza della rivoluzione francese, la storia dell’umanità abbia sempre avuto presente l’esigenza di esplicitare e codificare in qualche modo il rispetto che ogni uomo deve avere per tutti i suoi simili, tanto che quasi mai si sono riscontrate esplicite prese di posizione contrarie; è vero infatti che, quando la violazione è avvenuta ha dovuto cercare sempre pretesti ideologici che ne mascherassero l’ingiustizia. Altrettanto indiscutibilmente la storia ha però dimostrato quanto sia facile trovare tali pretesti, per cui ancora forti sono le probabilità che la Carta resti una enunciazione di principio sostanzialmente disattesa: pura e semplice affermazione retorica non accompagnata da una vera volontà di applicazione.
È importante quindi affermare ogni volta, concretamente e dettagliatamente quali sono questi tanto esaltati diritti universali dell’uomo.
Sviluppando il lavoro che nel corso di quest’anno si propone di prendere in esame i punti significativi e di trovare la ragion d’essere profonda della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo promulgata dall’ONU il 10 dicembre 1948, non si può prescindere dall’analisi di un concetto fondamentale, che una pericolosa e perversa deriva scientifica ha permesso che venisse usato dagli uomini contro gli altri uomini: il concetto di razza. Per questo voglio qui proporre una sintesi del mio contributo ad alcune voci del DIZIONARIO DELLA DIVERSITÀ, appena pubblicato da Liberai libri, da me curato, insieme con Guido Bolaffi e Tullio Tentori, e la collaborazione di esperti dei più diversi campi della scienza e della cultura, alla cui lettura – anche, ma non solo, con un’esplicita intenzione promozionale – rinvio chiunque voglia avere una visione più ampia delle molteplici prospettive da cui si possono osservare problemi come l’immigrazione, il razzismo e la xenofobia.
1. RAZZA (ingl. race; fr. race; ted Russe)
Il termine razza ha un’origine molto confusa e la sua etimologia non è chiara. Ben prima che questa parola entrasse nell’uso gli esseri umani hanno tentato di comprendere il significato delle differenze somatiche, psichiche e culturali che caratterizzano le varie popolazioni, in particolare se esistano caratteri costanti che persistono e contribuiscono a strutturare le diverse caratteristiche dei gruppi umani. Ben prima che si conoscessero le mutazioni genetiche e prima anche delle intuizioni darwiniane che tentavano, sia pur dall’esterno, di spiegare le differenze somatopsichiche, gli uomini di cultura, gli osservatori di tutte le società e di tutte le epoche, basandosi su differenze evidenti ed inconfutabili hanno tentato di cercare spiegazioni e di costruire classificazioni.
Se tutti gli abitanti della terra fossero rigorosamente simili nel fisico, nella lingua, nella religione, nella morale e nelle abitudini di vita, probabilmente la storia del concetto di razza sarebbe stata diversa. Ciò non vuol dire che non si sarebbero costruite teorie per fondare, se non oggettivamente, almeno astrattamente, la differenza dell’altro.
Prima della diversità c’è nell’uomo il desiderio della diversità, come prima della somiglianza ce n’è il desiderio. Questo però è un ingenuo gioco privo di logica, poiché ipotizza che gli uomini siano come non sono e su questo loro non essere non si potrebbe affermare alcunché, mentre invece si può affermare che il desiderio della diversità e della somiglianza sono caratteristiche universali dell’uomo. Non è detto che sia vero che la pulsione originaria sia quella aggressiva e distruttiva anziché quella del piacere e del desiderio, tuttavia non si può non prendere atto che in ogni essere umano ben presto si innesta un atteggiamento aggressivo nei confronti dell’altro, fatto di fantasie di espropriazione e di sopraffazione, che se pure hanno origini difensive, agiscono sul comportamento, condizionandolo. Il desiderio della diversità e quello della somiglianza e la paura di entrambe sono intrinseche alla natura individuale e sociale dell’uomo e lo spingono a considerare i propri simili diversi, e a connotare talvolta questa diversità come inferiorità. Si è tentato anche di fondare questa diversità oltre che su principi metafisici su criteri scientifici positivistici, classificando i gruppi umani secondo strutture biofisiche e psichiche stereotipe e rigide. Ancora nel primo Novecento, la scienza attraverso i suoi rappresentanti più autorevoli ha cercato di condannare alcuni gruppi ad un destino subalterno e di elevare altri ad una posizione di dominio. Nel tentativo di respingere una discriminazione così palesemente colorata di interessi ideologici, altri scienziati hanno cercato di mettere in discussione lo stesso concetto di razza; ma solo la biologia e la genetica hanno potuto in seguito dimostrare come le differenze somatopsichiche derivino anche da mutazioni interne al fenotipo, senza cause rintracciabili, chiarendo che esse sono realtà in continuo divenire e quindi gli individui e le società che ne sono il risultato sono frutto di interazioni così numerose ed oscure che non permettono di attribuire questa o quella caratteristica definitivamente a questo o quel popolo o individuo. Certo questi risultati non sono sufficienti a placare l’ansia di politici e moralisti permettendo loro di adagiarsi nell’affermazione di una indiscriminata ed assoluta uguaglianza rispetto a qualunque parametro si metta in discussione. Se è vero che le razze non sono espressione di differenze originarie, ma si fondano su strutture successive, può essere metodologicamente utile di volta in volta operare catalogazioni. L’inconscio sociale si struttura secondo modalità proprie nei contesti più differenti, per una serie di ragioni storiche quanto biologiche, ambientali quanto economiche: questo rende gli esseri umani universalmente tutti uguali nelle diversità delle particolarità contingenti. Un clinico e sperimentatore che sia seriamente fondato nella sua scienza psicologica, può oggi ben dire che tutti gli esseri umani sono psichicamente strutturati secondo gli stessi principi, e questa è una verità scientifica, prima ancora che ideologica o morale. Le strutture psichiche degli uomini sono uguali pur nella varietà delle vicende evolutive. Gli archetipi fondamentali si costituiscono storicamente, ma prima ancora c’è la sostanza dell’essere uomini, che è uguale per tutti, come si può sperimentalmente dimostrare.
È molto pericoloso quando i genetisti credono che le loro scoperte siano punti di arrivo, anziché problematici punti di partenza e lo stesso vale per gli antropologi, i sociologi e gli psicologi. L’uomo è una realtà eternamente in divenire, darne una definizione una volta per tutte che fissi sia le differenze sia le somiglianze è impossibile; importante resta il principio kantiano di usare l’umanità in sé e negli altri sempre come fine e mai come semplice mezzo.
2. RAZZISMO (ingi. racism; fr. racisme; ted. Rassismus)
Il rifiuto dell’altro, sia da parte del singolo, sia da parte del gruppo è un fenomeno registrato da sempre, basato sulla pretesa differenza delle caratteristiche psichiche, fisiche, morali e culturali di chi appartiene ad un’altra etnia, differenza che viene sempre valutata come inferiorità. Le ragioni su cui il razzismo si appoggia sono anche economiche, politiche, culturali e religiose. Ognuno ha nel proprio inconscio una o più rappresentazioni dell’altro, concepito spesso come diverso e quindi giudicato negativamente; queste rappresentazioni inconsce vengono poi proiettate su individui e gruppi e questo meccanismo proiettivo può acquisire in determinate condizioni caratteristiche deliranti. Si costruiscono allucinatoriamente mitologie della diversità e si vede nei diversi l’aggressore o la vittima la cui vita è da sacrificare perché priva di valore o da usare strumentalmente o addirittura sfruttata da chi si sente superiore. Il gioco proiettivo è però così complesso che il razzismo mentre è per un verso facilmente definibile, per l’altro sfugge ad ogni semplificazione e diventa un sentimento la cui natura è inafferrabile. Per lo più si ritiene che sia la cosiddetta “razza bianca” ad assumere un atteggiamento razzistico verso le altre razze – nera o gialla – ciò è vero ma è solo l’aspetto più evidente, poiché in realtà, il sentimento di superiorità di ogni popolo rispetto agli altri è quasi universale. Difficile è determinare quali siano i segni per cui un gruppo etnico riconosce negli altri la diversità: quanto diversi debbano essere il colore, la lingua, la cultura, le strutture sociali e famigliari, i costumi sessuali, perché si possa dire che un popolo è di un’altra razza. Le fantasie inconsce costruiscono simulacri che dal fondo della psiche vengono catapultati all’esterno per essere poi appiccicati alle figure reali; è un gioco fantastico-allucinatorio che non si limita agli altri ma anche a se stessi e ai propri simili; la consapevolezza di questi meccanismi è un segno di salute mentale, l’inconsapevolezza è una patologia, parte integrante del complicato fenomeno del razzismo.
Perché il razzismo possa esistere è indispensabile che venga definito in qualche modo il concetto di razza, a costruire il quale insieme con differenze facilmente riscontrabili di colore, lingua e cultura, contribuiscono molto le fantasie indotte dall’educazione conscia ed inconscia. Di fatto le pretese differenze, utili metodologicamente e tanto chiare quando l’osservazione venga fatta di lontano, si rivelano pressoché inesistenti quando si voglia spingere l’indagine a fondo. In realtà è quasi impossibile riscontrare all’interno di qualsivoglia raggruppamento o all’interno di ciascun individuo caratteristiche specifiche uniche, organicamente strutturate, che giustifichino il suo isolamento secondo parametri di differenza razziale. Vi sono indubbiamente caratteristiche somatiche che differenziano gli esseri umani, non tanto in precisi e delimitati gruppi razziali, ma in un variegato panorama di sfumature importanti antropologicamente e sociologicamente valutabili e riconducibili a diverse concezioni culturali, ma che non sono in contraddizione con la sostanziale specifica unitarietà dell’essere umano. Questa è la sola concezione non patologica di razza.
Il primo passo verso un’igiene psichica capace di scardinare le fantasie razzistiche deve partire dalla consapevolezza della componente allucinatoria che esiste nella composizione di ogni giudizio. In particolare attribuire al tutto ciò che appartiene a una parte e la negazione della realtà si mettono in atto quando si persegue una logica razzistica; così, se una persona con caratteristiche diverse dalle proprie o da quelle del gruppo compie un atto delittuoso, si tende ad attribuirne l’origine al fatto di appartenere ad un’altra etnia, mentre non si fa lo stesso quando il gesto è compiuto da qualcuno che è considerato “simile”. In un processo di slittamento si tende poi sempre ad attribuire i gesti che vengono giudicati negativamente ad individui appartenenti a categorie comunque “diverse” anche quando siano commessi da persone dello stesso gruppo etnico, giudicati di volta in volta devianti, perversi, malati, col risultato che si ritiene se stessi o il proprio piccolo gruppo di appartenenza come unici portatori di valori positivi. Le caratteristiche somato-psichiche di popolazioni che la tradizione e il senso comune hanno voluto attribuire ai diversi popoli sono anche fonte di invidia: la potenza sessuale, la spontaneità, l’istintualità libera, la spiritualità di alcuni popoli generano una fascinazione che mette timore ed ansia e si capovolge per difesa nell’invidia che si manifesta poi sotto la forma del rifiuto anche violento. Un elemento essenziale del razzismo è quello che riguarda la funzione che in esso assume la percezione della diversità.
Il gruppo e l’individuo hanno spesso difficoltà a costruire un forte sentimento della propria identità, la mancanza del quale può però causare gravi problemi, allora il fatto di riconoscere gli altri come diversi da sé aiuta questo processo di auto- identificazione. Inoltre, su questi «diversi» si possono proiettare le connotazioni negative che disturberebbero il concetto di sé, e che permettono inoltre di aggredire la maschera svalutata di chi è considerato diverso e in quanto tale inferiore. Paradossalmente così il razzismo si fonda anche sulla paura del simile: ovvero di essere simili a chi si è tanto voluto svalutare. Questo non implica l’indifferenza del giudizio, ma soltanto l’accettazione dell’uguale dignità degli uomini nella loro alterità. Ogni gruppo ha maturato diacronicamente e sincronicamente il proprio inconscio sociale, ma ciascun inconscio sociale è in perenne divenire ed interagisce con gli altri. Pericolosi veicoli di razzismo in opposte direzioni possono essere un eccessivo etnocentrismo, ma anche un relativismo culturale privo di coscienza critica, generatore di una indifferenza che per la scienza è una colpa. Il razzismo è una caratteristica, almeno inconsciamente, universale. Riconoscerlo in se stessi è il primo passo per limitarne la pericolosità.
3. INCONSCIO (ingl. unconscious; fr. inconscient; ted. Unbewnfiten, das Unbewufite)
Il termine deriva dal latino tardo inconscium, composto di in negativo e conscium, consapevole. Gli antichi Elleni raccontavano che ad Olimpia, durante la corsa dei carri allo Stadio, accadesse molto spesso un fatto stranissimo: il corridore ormai prossimo alla meta, proprio quando stava per tagliare il traguardo, vedeva sfumare la vittoria per un improvviso scarto dei cavalli spaventati da una visione terribile che li faceva uscire di pista. Di qui nacque la fama di un mitico Taràssippo (Spaventacavalli in greco), spirito dispettoso in agguato per determinare la rovina dell’auriga. Questo racconto sembra essere una parabola che bene spiega il significato di quello che la psicoanalisi di Freud chiamò poi l’atto mancato: probabilmente l’auriga, spesso, travolto dall’emozione per la prossima vittoria, arrivava a compiere un gesto inconsulto, un errore, che disorientava i cavalli e gli faceva perdere l’occasione che sembrava quasi certa. Con grande senso poetico i Greci avevano intuito un meccanismo che solo secoli dopo sarà spiegato nei suoi significati nascosti come espressione dell’inconscio.
Anche Platone anticipa con le sue teorie sulle idee innate qualcosa di simile nel Menone:
“Socrate: Che ti sembra Menone, nelle sue risposte non ha mai espresso un opinione che non fosse sua propria?
Menone: No, egli ha cavato tutto da sé.
Socrate: Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla.
Menone: É vero.
Socrate: E tali opinioni erano in lui, o no? Menone: Sì.
Socrate: Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora?
Menone: Sembra.
Socrate: Tali opinioni sono emerse ora, in lui. Se lo s’interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza non meno esatta di chiunque altro.
Menone: Sembra.
Socrate: Senza, dunque, che nessuno gli insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?
Menone: Sì.
Socrate: Ma ricavare da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare?
Menone: Senza dubbio.
Socrate: E la scienza che ora possiede: o l’ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre.
Menone: Sì.
Socrate: Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l’ha fatta propria in qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse qualcuno che a questo ragazzo ha insegnato i primi elementi della geometria? Nello stesso modo si comporterà relativamente a tutta la scienza geometrica e a tutte le altre discipline. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più ch’egli è nato e vissuto in casa tua. Menone: So benissimo che non gli ha insegnato nessuno”.
(Platone, Menone, XX. 85)
Platone così dimostra che in ogni essere umano ci sono conoscenze, addirittura esperienze del passato, che dormono nell’inconscio, senza essere percepite fino a che qualcosa o qualcuno le porti alla luce con una tecnica appropriata.
Cultura popolare e filosofia hanno da sempre saputo che nell’anima dell’uomo sono nascoste realtà dinamiche e pulsioni che egli stesso non conosce e che ne condizionano il comportamento. L’arte in modo speciale ha fatto propria questa realtà inconscia che continuamente si mescola con la coscienza: la vita è sogno e il sogno è vita. I desideri si affollano, i ricordi e le esperienze vengono rimossi in quel luogo oscuro detto inconscio. Con una contraddizione logica potremmo dire che da sempre gli esseri umani sono consapevoli dell’inconscio, da sempre ne hanno avuto paura, da sempre hanno conosciuto i conflitti che può scatenare, quando per esempio ci mette di fronte alla realtà e alla violenza di desideri che non vogliamo accettare alberghino in noi. Nell’Ottocento la realtà dell’inconscio acquista consistenza scientifica; la scienza ha fatto ciò che molti fanno: ha accettato l’ipotesi dell’inconscio per meglio difendersene e controllarlo. La paura dell’inconscio resta un dato ineliminabile che riguarda tutti i popoli, tutte le società e tutte le culture e la psicoanalisi è la scienza che ha fatto proprio dell’inconscio il suo oggetto specifico di Studio. La cultura oggi non può prescindere da un contributo che la psicoanalisi ha portato allo studio della psiche umana in una dimensione veramente universale che riguarda tutti i popoli della terra, osservati in sé e nelle loro inter-relazioni. Oggi sarebbe forse meglio parlare delle psicologie dinamiche, lasciando il termine psicoanalisi a quella freudiana, legata ad un preciso periodo storico, anche se l’uso comune lo riferisce a qualunque teoria psicodinamica del presente e del passato.
Che l’inconscio fosse in qualche modo da sempre percepito è già stato detto, ma comunque è tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo che inizia un fermento scientifico che si appropria di alcune tecniche suggestive di terapia che facevano appello a risorse come il magnetismo e l’ipnosi, soprattutto al fine di indurre nei soggetti determinati comportamenti o nel far loro rievocare storie nascoste e dimenticate. I dubbi risultati conseguiti e la poca serietà degli operatori fecero però cadere presto in discredito tali metodi, soprattutto giudicati coi criteri della scienza positivistica che proprio alla metà del XIX secolo stava prendendo grande impulso. Ciò nonostante continuava a godere di un certo prestigio l’opera del medico francese Auguste Ambroise Liébeault (1823-1904) che fu l’ispiratore – attraverso la mediazione di Bernheim (1840-1919) – della scuola medica di Nancy che doveva godere ben presto di grande fama. Contro il giudizio di Charcot – che vi vedeva un fenomeno patologico isterico – i due continuarono a sostenere la validità dell’ipnosi come mezzo terapeutico che faceva ricorso alla «suggestione», al fine di permettere a contenuti non consapevoli della psiche del paziente di venire alla luce. Da allora in poi non fu più scandaloso parlare di realtà psichica inconscia. Un altro importante precursore delle teorie psicodinamiche dell’inconscio fu Pierre Janet (1859-1947) che proseguì i suoi studi sugli automatismi psichici parallelamente a Freud, affrontando anch’egli il problema del significato etiologico nelle malattie mentali dei traumi, che potevano essere riportati alla coscienza dall’ipnosi. Sigmund Freud (1856-1939) sintetizzò sistematicamente tutte queste teorie applicando l’ipotesi dell’inconscio e delle sue funzioni alla sua concezione dell’apparato psichico nell’opera L’interpretazione dei sogni del 1899, poi modificata nel 1920.
Nella prima teorizzazione la struttura dell’apparato psichico era “topica” e si divideva in Inconscio (Inc), Preconscio (Prec) e Coscienza (C): «Abbiamo descritto i rapporti dei due sistemi tra loro e con la coscienza, dicendo che il sistema Prec sta come uno schermo tra il sistema Inc e la coscienza; che il sistema Prec non solo sbarra l’accesso alla coscienza, ma governa anche l’accesso alla motilità volontaria e dispone dell’emissione di una energia di investimento mobile, una parte della quale ci è nota come attenzione» (Freud, 1922, p.559). Dopo il 1920 Freud teorizza la struttura della psiche divisa in Es, Io e Super-Io e la presenza dell’inconscio in tutte e tre le istanze, anche se solo l’Es è composto esclusivamente da materiale inconscio: “Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P (percezione, n.d.c.) come da un nucleo (…) ma c’è dell’altro. I motivi che ci hanno indotto ad ammettere un gradino, una differenziazione all’interno dello stesso Io a cui va data la denominazione di Ideale dell’ Io, o Super Io, sono stati esposti altrove” (1922, p. 486-491). Il termine inconscio a questo punto non è più un sostantivo, ma un aggettivo che caratterizza varie istanze della psiche. Le due sistemazioni concordano nel mettere in evidenza i contenuti rimossi dell’inconscio, contrapposti a quelli coscienti. È interessante sottolineare come Freud distingua tra pulsione e istinto, liberando la sua psicologia dalle costrizioni meccanicistiche della scienza positivistica del suo tempo: mentre le pulsioni appartengono alla vicenda esistenziale dell’individuo, gli istinti trasmettono i bisogni della specie. In Pulsioni e loro destini, Freud si occupa da vicino della pulsione distinguendo in essa la fonte, l’oggetto e la meta: la prima è l’eccitamento somatico, la seconda è la cosa precisa e concreta verso cui la pulsione si dirige, la terza è l’estinzione dell’eccitamento, dopo la soddisfazione del desiderio. L’oggetto può variare molto e può essere trovato in sé o fuori di sé, nell’altro dello stesso sesso o di sesso diverso; la pulsione è una spinta (Trieb) a metà tra il somatico e lo psichico. Sia la teoria delle pulsioni sia quella dell’inconscio sono costati a Freud la reputazione di pansessualista, anche perché denunciavano la presenza in persone “normali” di quelle pulsioni che fino allora erano state ritenute perversioni. C.G. Jung (1875-1961) si allontanò dalla teoria freudiana sulla pulsione sessuale e teorizzò la presenza di una forma di inconscio non individuale, comune patrimonio di tutti gli esseri umani che chiamò inconscio collettivo.
Altri psicoanalisti elaborarono in seguito teorie diverse sull’inconscio, ma nessuno poté più prescinderne. Giustamente Freud, comprendendo la gravità delle conseguenze che la sua teoria comportava disse a Jones, al suo sbarco negli Stati Uniti nel 1909, di essere consapevole di stare portando sul continente “la peste”.
Nella prospettiva multiculturale che qui interessa vale la pena di presentare i risultati di una analisi sul campo che illustra bene il significato che l’inconscio ha assunto per tutti i popoli.
È una verità sperimentalmente verificata – oltre che attraverso studi comparati delle diverse culture e civiltà anche dall’esperienza clinica che oggi è possibile fare a diretto contatto con cittadini di paesi molto lontani in una realtà multietnica come quella della città di Roma in cui affluiscono immigrati provenienti dai cinque continenti – che esiste di fatto una costante pulsionale che vale per tutti gli esseri umani e in continua trasformazione sotto le influenze delle inter-relazioni tra le culture e le società.
L’inconscio è uguale per tutti gli uomini e si rivela universalmente composto di una parte istintuale, di un aspetto individuale e di uno sociale (questo ultimo aspetto si differenzia dal concetto di inconscio collettivo junghiano per il suo carattere storicamente in divenire, non si esprime attraverso archetipi, ma consiste in meccanismi universalmente diffusi) (Gindro, 1993). Per questo è possibile trovare elementi che consentono l’intesa tra i popoli sulla base di dati che sono comuni, come, per esempio: 1) la presenza in tutti della pulsione erotica; 2) l’omosessualità accanto all’eterosessualità; 3) il complesso di Edipo o comunque lo si voglia chiamare, il rapporto fondamentale avuto una volta almeno nella vita con figure omologabili a quelle che la cultura occidentale identifica con la coppia dei genitori; 4) la pulsione verso la distruzione; 5) la tendenza alla depressione; 6) l’universale adozione dei due meccanismi fondamentali di difesa: narcisismo e sadomasochismo.
Questi elementi di base universali si articolano ogni volta in modo diverso fino a creare strutture dinamiche particolari condizionate dall’ambiente. Ne consegue che comportamenti e contenuti di pensiero che non hanno caratteristica di sintomo in un ambiente culturale, potrebbero, però, averla in un altro; sono, queste, manifestazioni come lo sciamanesimo siberiano, la stregoneria centroafricana, etc., che hanno la funzione di equilibrare comportamenti straordinari integrandoli nell’ambiente in cui si verificano.
Alcuni comportamenti patologici invece sono da considerarsi tali in tutte le culture; sono i sintomi quali le fobie in particolare espresse come patofobie in Giappone, Sud-America e Centro America; le thanatofobie specialmente dell’India e dell’America del Nord; il panico, le agorafobie e claustrofobie un po’ ovunque. Anche i rituali ossessivi sono ugualmente diffusi in modo uniforme, come la depressione in tutte le sue forme. Costanti sono anche i simboli del delirio. Gli immigrati che arrivano all’esame clinico nel nostro paese esprimono nel 50% dei casi patologie patofobiche, e nell’altro 50% disagi che si manifestano nelle altre forme.
La sola considerazione che si può azzardare è che la psicopatologia delle nevrosi e delle psicosi si va muovendo verso una forma universalizzata, per l’azione omologatrice dei processi di interscambio culturale. A meno che si verifichi un’ipotesi – non prevedibile per ora – secondo la quale data l’uniformità biologica degli esseri umani e l’azione contrapposta delle tracce dei diversi modi di espressione dell’inconscio sociale, il rimescolamento dei comportamenti umani darà luogo a nuove forme patologiche sconosciute fino ad oggi.
4.ARTE ED ETNIA (ingl. art and ethnicity; fr. art et ethnie; ted. Kunst und Ethnizittit)
L’espressione deriva dal latino arte(m) arte, opera, e dal greco ethnos, razza popolo.
Ci sono tre accezioni principali del termine di origine indoeuropea arte: 1) designa ogni attività umana regolata da una tecnica; 2) designa un prodotto culturale (pittura, poesia, musica, architettura, etc.) oggetto di gusto e giudizi di valore; 3) impropriamente è usato come termine che indica in particolare l’arte figurativa (storia dell’arte, accademia di belle arti, etc.). In rapporto col termine etnia viene qui di seguito considerato nella seconda accezione.
Per Schelling: “La filosofia raggiunge bensì il punto più alto, ma fino a questo punto non porta che quasi un frammento dell’uomo. L’arte porta tutto l’uomo, come egli è, alla conoscenza del punto più alto e in ciò consiste l’eterna diversità e il miracolo dell’arte”. (Schelling, 1800).
Questa è la definizione dell’arte tipica del pensiero romantico. Circoscritta in un’epoca storica essa rappresenta anche la divinizzazione dell’arte, come espressione dell’Assoluto. Però riesce ad esprimere abbastanza bene quel che di impalpabile, ma profondissimo c’è nell’espressione artistica. Al di là delle connotazioni romantiche quanto Schelling dice può essere considerato valido in ogni tempo e per ogni popolo. È impossibile comprendere a fondo un momento della storia, una cultura, una civiltà, se non si sa cogliere il significato dell’arte che ne risulta. Sempre in bilico tra produzione commerciale e rituale religioso, espressione filosofica, o manifestazione di impegno civile e politico, l’arte tuttavia non è commercio, religione, filosofia né politica.
Indubbiamente il periodo romantico ha inteso l’arte che ha prodotto come l’espressione più alta della cultura occidentale; ma allo stesso tempo ha esaltato l’arte classica dell’antica Grecia, considerata un punto massimo ed ormai inarrivabile. L’uomo occidentale è stato sempre convinto che la propria arte sia collegata all’espressione di regole precise (per esempio le regole di Rameau per la musica nel Settecento), mentre accredita ad altre culture la prerogativa di produrre arte libera da regole: “spontanea”. In realtà anche la più spontanea forma d’arte supposta libera e primitiva è sottoposta a regole più o meno decifrabili e il senso di spontaneità deriva in parte dalla difficoltà di comprendere le regole di linguaggi a cui l’etnocentrismo marcato ha poco abituato gli occidentali.
L’improvvisazione e la spontaneità hanno un loro posto in espressioni artistiche come la danza, la musica, etc.; però, soprattutto nell’arte più legata alla tradizione, l’improvvisazione è in realtà basata su regole molto precise che condizionano rigidamente gli interpreti e i creatori. Nell’arte occidentale del Sei e Settecento l’improvvisazione era un passaggio quasi obbligato per un musicista, esecutore o compositore, che volesse mostrare il suo valore; ma anche queste esibizioni dovevano sottostare a tante e tali regole che poco spazio era riservato alla libertà individuale dell’artista. Lo stesso si può dire per la commedia dell’arte barocca in cui l’improvvisazione era legata strettamente ai precetti imposti non solo ai differenti personaggi o caratteri, ma anche al genere della storia da rappresentare. In tempi più recenti l’improvvisazione ha grande importanza nella musica jazz, dove pure è regolata da convenzioni precise. È molto difficile avvicinarsi ai linguaggi artistici di altre culture, diverse dalla propria, perché l’ignoranza dei principi più elementari di sintassi può portare a fraintendimenti che fanno prendere per spontaneo, improvvisato o primitivo un linguaggio che invece obbedisce alle sue regole interne. Detto questo, c’è anche da dire che in realtà, al di là delle barriere che si oppongono alla conoscenza dei principi base dei linguaggi, è possibile capire bene le espressioni artistiche delle diverse culture per il semplice fatto che alla base vi è la sostanziale unitarietà della struttura psichica, conscia o inconscia, degli esseri umani, di qualunque tempo o latitudine, lingua o civiltà. Un brano musicale dell’antico Giappone o del teatro No di quel Paese, una statuetta del centro dell’Africa, si lasciano capire da chiunque abbia voglia di impegnarsi in virtù di una forza psichica interna all’umanità intera; sebbene la penetrazione dei significati più profondi richieda applicazione e determinazione scientifica che poco hanno in comune col gusto superficiale dell’esotico. Se dunque non è vero che esiste un’arte “universale”, dal momento che persino la musica ha linguaggi suoi specifici e impenetrabili senza conoscenze adeguate, è vero al contrario che abbandonarsi senza pregiudizio davanti ad un’espressione qualunque dell’arte universale significa essere in grado di recepire le linee essenziali che la compongono. Per questo dedicheremo ad alcune espressioni artistiche delle diverse culture del mondo note di introduzione che permettano un approccio senza pregiudizi, basato su alcuni precisi postulati psicologici e culturali.
Cinema
1) cinema extraeuropeo
Il cinema è un’espressione artistica capace di rivelare molto dell’anima di un popolo dal momento che – anche per ragioni che si possono definire commerciali – è in stretto contatto con la gente di ogni ceto ed ambiente, esprimendo sogni, desideri e fantasie, pregi e difetti del gruppo e del suo inconscio sociale. L’arte, anche nelle sue forme più aristocratiche ed elitarie, ha radici che affondano nell’humus culturale dell’ambiente in cui sorge e a cui si rivolge. Nel cinema questo circuito è più diretto ancora per la sua natura intrinsecamente interclassista, non tanto per le ideologie che può esprimere, ma per il rapporto immediato tra produzione e consumo che lo caratterizza. Questo spiega anche l’universalità del suo linguaggio che è capace di far provare le stesse emozioni a regine o metalmeccanici di ogni continente, davanti ai film di Chaplin o ai polpettoni americani o alla raffinatezza espressiva di registi come il francese Carnet, il giapponese Kurosawa o l’italiano De Sica.
2) Africa Nera
L’Africa Nera ha un suo cinema che si è formato faticosamente in parallelo con le vicende delle autonomie nazionali e che è caratterizzato ovviamente da toni propagandistici e da povertà di mezzi. Negli ultimi anni si va affermando una vena più vigorosa ed organizzata anche su dimensioni trans-nazionali, malgrado il ripetersi di situazioni di conflitto inter-etnico con le catastrofiche conseguenze che comportano. Tra le voci interessanti si fanno ricordare Mustapha Alassane del Niger, con La bague du roi Kodà del 1963, in cui si apprezza il tentativo di guardare all’Africa senza però scordare la lezione della civiltà europea. Tra gli anni Settanta ed Ottanta si realizzano all’estero alcuni film, di autori africani, sulla storia del continente come Sous le signe du Voo Doo, del 1976, di Pascal Abikanlou sugli aspetti ignoti degli antichi riti.
2.1 Mali, Costa d’Avorio, Burkina Faso
In Mali il regista Al Kali Kahaba realizza un cinema simbolico e didascalico e Souleymane Cissé, autore di film come Il Portatore del 1979, Il vento del 1982 e Yeelen del 1987, il quale ultimo supera i limiti delle opere precedenti di natura didascalica e demagogica. In Costa d’Avorio, si fa notare Desiré Ecaré, formatosi alla scuola francese, che, dopo una serie di documentari, esce con Visage d’une femme del 1985. Nel Burkina Faso agli inizi documentaristici degli anni Sessanta fa seguito un film come Il dono di Dio del 1982, di Gaston Kaboré, di grande suggestione nonostante la facilità di alcuni spunti poetici; poi ancora Paul Zoumbara con Jours de tourment del 1983 sul disorientamento che le novità portano sulla civiltà dei villaggi del continente. Nel 1989 diventa famoso ldrissa Ouedraogo con il film La nonna, sul bel rapporto tra una vecchia e un bambino che riesce in un lavoro di analisi psicologica attenta ai particolari; ancora Samba Trauré del 1993 sulla violenza urbana.
2.3 Senegal
In Senegal il regista Ousmane Sembene si richiama ai principi della negritudine teorizzata da Senghor: esteticamente formato a Mosca è autore di una produzione interessante tra cui si ricordano Il vaglia, del 1968, storia kafkiana e stimolante, Incetta, del 1977, affresco sulla vita tribale; nell’87 affronta in modo graffiante il problema del colonialismo. Un altro regista significativo è Samb Makharam che realizza Kodou nel 1971 e nel 1981 Jom ou l’histoire d’un peuple.
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4) Cinema arabo
La situazione socio-politica dei paesi del continente africano ha una fisionomia ben precisa: negli anni Sessanta e Settanta c’è stato il crollo del vecchio colonialismo e il conseguente tentativo di impostare le autonomie locali. Le lotte tra le varie etnie all’interno delle realtà nazionali hanno complicato il quadro sociale.
4.1 Egitto
Questo ha riguardato meno i Paesi Arabi tra cui l’Egitto che ha assunto una posizione precocemente emancipata anche per quel che riguarda la produzione artistica e cinematografica in particolare. Prima la monarchia, poi la repubblica hanno mirato all’occidentalizzazione del paese fin da subito e anche la cinematografia, introdotta nel paese addirittura prima dell’avvento del sonoro, ha avuto una precoce espansione. Nel primo dopo guerra si ha una vasta produzione destinata al consumo popolare, che affianca l’importazione di opere europee, soprattutto francesi, preferite dalla borghesia delle città. Tuttavia si può isolare il lavoro di un autore come Céline, tra gli anni trenta e quaranta, che traspose sullo schermo molte opere della letteratura europea, come I Miserabili e Romeo e Giulietta (1944), con uno stile formalmente corretto e discreta efficacia narrativa. Nel periodo tra il quaranta e il cinquanta si fa luce Salah Abu Saif, il cui maggior pregio è di scegliere come sceneggiatore Naguib Mafhouz, per film come Il mostro, del 1954 e Il Cairo 30, del 1965, di gusto americaneggiante. La sua ultima produzione è diventata ridondante e retorica con opere come Alessandria, ancora e sempre del 1990. Un caso a sé è il lavoro di un altro regista egiziano, Tewkfiq Salìh, che non opera nel suo paese, ma in altri paesi arabi, facendo denuncia sociale con film come Diario di un procuratore di provincia, del 1968, Le vittime, del 1972 e I lunghi giorni, del 1981.
4.2 Algeria
In Algeria fino all’indipendenza si ha una netta predominanza della produzione cinematografica francese.
Dopo il 1957 prende il via una produzione nazionale fatta, agli inizi, soprattutto di documentari, fino al punto cruciale segnato da La battaglia di Algeri (1966), di Gillo Pontecorvo, una co-produzione italo-algerina sulle giornate decisive del movimento rivoluzionario. Bisogna però aspettare Le vent des Horées di Mohamed Lakdhar Ramina, del 1967, perché si possa segnalare un’opera autoctona significativa, benché fortemente influenzata dalla produzione occidentale: è ancora un film sulla guerra di liberazione, vista attraverso la vicenda umana di una donna in cerca del figlio; è da segnalare anche L’homme qui regardait par la fenetre, 1981, di Merzak Allouache. Sono gli esempi di un cinema molto vivace che trova un buon equilibrio tra la fantasia e la storia nazionale.
4.3 Tunisia
Il cinema in Tunisia è introdotto fin dai tempi del muto, ma non produce opere originali che verso gli anni Settanta quando si registra l’inizio di una cinematografia nazionale che troverà la sua espressione significativa solo nel 1984 con Nacer Khemir e il suo Le paraliseur du désert, cui segue nel 1992 Le collier perdu de la colombe, una tenera leggenda ambientata tra i mori dell’Andalusia dell’XI secolo.
4.4 Marocco
Lo stesso vale per il Marocco dove la routine tiene il campo più o meno fino alla comparsa di un autore come Hamid Benani con il suo film Quand murissent les dattes del 1967.
4.5 Libano
Un caso di qualche interesse è quello del Libano dove le floride condizioni economiche permettono un cinema vitale fin da molto presto con nomi come quello di Mohamed Selmane che firma molte opere note al grande pubblico. Nell’epoca contemporanea la distruzione del Paese impedisce ogni significativa attività di produzione.
Per quel che riguarda complessivamente il cinema arabo si possono ancora segnalare alcune produzioni di rilievo come il film Kafr Kassem, del 1974, di Borhan Alanié che descrive la vita di un villaggio palestinese distrutto dai sionisti e le opere prodotte dal gruppo di Al Fatah prima sulle vicende del canale di Suez e poi di propaganda pan-araba.