65 – Settembre ‘90

settembre , 1990

Sulla corta traversa del Corso che ha nome via dei Montecatini, a pochi passi dal fiume di automobili e di pedoni, ammicca invitante l’insegna de Il falchetto, ristorantino lindo e grazioso, arricchito da una civettuola veranda. Può accadere così che il frastornato viandante si trovi ad approdarvi in cerca di ristoro e di pace. La pace in effetti la trova, insieme con l’accoglienza garbata e spiritosa di un giovane camerierino dotato della stessa gentilezza dei suoi colleghi, ma con un briciolo di ironia in più; per quel che riguarda il ristoro invece le cose andranno volgendo, in poche portate, verso il tragico.
Noi abbiamo iniziato – sapendo di dover attendere persone che sarebbero sopraggiunte solo molto più tardi – con uno tra i nostri cocktail preferiti: il gin rosa, eseguito, su nostre indicazioni, con onesta cura.
L’attesa e l’aperitivo ci hanno poi spinto, piuttosto affamati, verso il tavolo degli antipasti, ma l’assoluta mancanza di qualunque sapore ha reso ben presto sterile il nostro lavorar di mascelle, per cui con diminuito entusiasmo ci siamo accostati ai primi piatti. Esperienza rivelatasi addirittura disperante. Fettuccine ai funghi porcini cementate da un sugo dissennato e incomprensibile, dominato da un sentore intollerabile di bruciato; !inguine al pesto amare più che se fossero state condite con fiele e mirra; gnocchi di patate come evanescenti bozzoli senza alcuna comunicazione tra loro di sugo o condimento purchessia. Piuttosto depressi abbiamo puntato le residue speranze su collaudatissimi secondi: saltimbocca alla romana, insipidi ma commestibili; rognoncino trifolato, preparato come l’avrebbe fatto una mamma indaffarata, tra l’ufficio del mattino e quello del pomeriggio: sapori slegati quindi, ma senza infamia; i calamari alla Luciana invece puntavano tutto su di uno squillante peperoncino che, inducendo a bere, teneva alto il buon umore. I crème caramel hanno riportato la nota amara che sembra essere la caratteristica dello chef: una tremula e depressa gelatina affogata in un amarissimo nero caramello. Dei vini si può dire che abbiamo bevuto un bianco della casa che pareva attinto alla fontanella, un Pinot Grigio del Collio e un Grignolino senza infamia e senza lode.
Il conto ci è parso tradire la voglia di approfittare del viandante di cui sopra e della sua stanchezza.

In Via Emilia esiste un ristorante ‘cinese’ dal nome Il Mandarino, in cui tutto può accadere, in una scenografia hollywoodiana che è la parodia di uno pseudo-liberty cantonese: finti e veri marmi, drappeggi di finta e vera seta, lampadari di finto e vero cristallo, draghi di finto oro e veri camerieri italiani vestiti per finta con vere casacche cinesi. Tutto questo per garantire la cornice più sontuosa alla più orrenda ed improbabile cucina. Noi consigliamo di farci una scappata per godere una serata di lussuosa follia. Astenetevi però dal perdere tempo con crostini di gamberi bruciacchiati o pastrocchi ammollati e densi di fecola, ma chiedete il solo ed unico piatto che – prodigiosamente – qui viene eseguito e servito in modo ineccepibile: l’anatra laccata alla pechinese. Avrete un’esperienza che varrà l’altissimo conto. Ignorate, e se lo diciamo noi potete crederci, la lista dei vini e uscite sobri ma divertiti.
Come è accaduto a noi, anche maliziosamente soddisfatti nell’avere spiazzato due carissimi amici che lì ci avevano invitato, con amore, sperando a loro volta di ’spiazzarci’.