Psicoanalisi contro n. 49 – Il coraggio di parlare

gennaio , 1989

La psicoanalisi in generale e le varie teorie psicodinamiche in particolare, sono caratterizzate sia da un aspetto filosofico-scientifico sia da una specificità tecnico-pratica che permette l’intervento terapeutico. Il cosiddetto inconscio, individuale o sociale, viene oggi affrontato con i più disparati strumenti, tutti considerati facenti parte di un corpus di conoscenze che, pur nel suo sincretismo, ha acquisito una certa organicità.
Ogni teoria psicodinamica dà più o meno importanza alla parola, ritenendola, in ogni caso, fondamentale strumento terapeutico. Per me la parola non è particolarmente importante, essa può infatti costituire persino un comodo rifugio per chi si voglia nascondere dietro ai suoni articolati di un linguaggio che, se preso isolatamente può diventare strumento di inganno e di illusione. I significanti e i significati di qualunque natura possono essere moltissimi e tutti possono essere usati come strumento terapeutico; tuttavia nella mia metapsicologia c’è un posto abbastanza importante riservato al suono della parola, però intesa come voce, quindi come corpo. Attraverso il corpo-parola io penso sia possibile intervenire per curare.
Nel rapporto terapeutico ogni gesto può essere strumento di intervento, perciò deve essere agito consapevolmente. Riconosco di aver enunciato un ben difficile principio: solo il buon Dio può essere infatti pienamente consapevole e padrone di ogni suo gesto; gli essere umani brancolano molto spesso nelle tenebre dell’inconsapevolezza e dell’inconsistenza, per cui emettono segnali dai molteplici significati di cui non sono assolutamente padroni. Ciò non toglie che ogni uomo debba controllare i messaggi che comunica agli altri e a maggior ragione deve esser capace di controllo il terapeuta. Chi cura non può permettersi di mandare segnali troppo equivoci e deve avere come scopo costante il raggiungimento della massima chiarezza possibile. Per l’essere umano il mondo è ambiguo, di conseguenza anche gli scienziati più precisi debbono saper affrontare l’ambiguità della loro scienza alla quale tuttavia non debbono mai abbandonarsi, proprio perché il loro compito è quello di portare un contributo sufficientemente chiaro ed organico, per quanto sempre contestabile e discutibile. Le parole debbono essere chiare, le affermazioni esplicite sia nel momento dell’enunciazione delle teorie sia in quello dell’applicazione pratica e terapeutica, nella lotta contro la malattia.

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La parola, come ogni altro gesto, può dunque avere valore terapeutico, perciò può avere lo stesso effetto sull’essere umano di una sostanza chimica-farmacologica. Un discorso può sortire effetti benefici, sia per il valore suggestivo delle parole usate, sia per il loro potere di rivelazione. Non è possibile separare nettamente i due tipi di azione: ciascuno conosce il valore e l’importanza della suggestione, può prenderne coscienza, ma non può liberarsene completamente; non c’è consapevolezza che renda immuni dal fascino della suggestione e l’uomo vive dialetticamente nella proposizione e nel superamento dei due termini. Le parole agiscono sempre e le fantasie che esse suscitano sono anch’esse reali.
I sogni sono pensieri dalla concreta e tangibile consistenza. Calderon diceva che se è vero che la vita è sogno è anche vero che i sogni sono sogni; proprio per questo si può dire che se la vita è sogno anche i sogni sono vita, hanno cioè lo stesso grado di realtà di un qualunque altro elemento del vivere quotidiano. Lo scienziato e il terapeuta debbono però essere capaci di distinguere la realtà chiamata fantasia dalla realtà chiamata realtà.
Reale e irreale, fantasia e concretezza sono uniti nel loro esistere; è però importante che si cerchi di sistematizzare un po’ la miriade di sensazioni e percezioni che costituiscono l’uomo. Andare realmente oltre le percezioni umane è praticamente impossibile, perchè ciò che è deve essere percepibile, o meglio: per l’uomo è solo ciò che egli può percepire. L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. Ma sarebbe stato in grado Protagora di rispondere alla domanda: «Che cosa non è?»

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Nonostante la viscida ambiguità delle sensazioni e delle percezioni è però indispensabile, come ho già detto, che lo scienziato e il terapeuta operino distinzioni, sappiano costruire schemi ed usino parametri di giudizio; anche se sistematizzare in modo troppo rigido e serioso può rendere sterile tanto la ricerca scientifica quanto l’azione terapeutica. Se però il ricercatore saprà essere abbastanza sereno potrà fare ugualmente buon uso dei propri metodi di ricerca e dei parametri interpretativi che si sarà costruito.

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Le parole sono veicoli di consapevolezza e la consapevolezza può essere terapeutica. Ciò non toglie che, talvolta, venire a conoscenza della «verità» sia destrutturante e magari addirittura distruttivo e possa quindi spingere sulla strada della malattia anziché su quella della salute. La verità di per sé coincide, è vero, con la salute, ma il suo disvelamento deve avvenire nel tempo giusto, se no si rischia di prenderla per una menzogna. La verità è una conquista, ma non deve mai diventare violenza. Quando allora e come dire ciò che si ritiene una verità; come dirlo, per esempio quando ci si rivolge a molte persone simultaneamente? Io ho poca fiducia nelle folle: la massima evangelica che insegna a non dare le perle ai porci è a mio avviso sempre valida e pregnante. Ugualmente mi domando se ci si debba limitare a parlare soltanto a persone già sane e disposte a raccogliere le parole della verità anche quando turbano l’animo. Come psicoanalista, mi trovo di fronte il problema del rapporto con coloro che hanno deciso di intraprendere insieme con me il loro viaggio verso la consapevolezza: sono io che misuro i tempi e decido cosa dire e quando. Spero di fare questo correttamente; quando però parlo a molti, la mia parola arriva in un momento del loro cammino psichico ed esistenziale che io non posso conoscere; è allora legittimo che io dica davvero tutto quello che penso? Non rischio piuttosto, pur sostenendo principi della cui verità sono convinto, di affermare qualcosa capace di nuocere all’equilibrio mentale di chi non è preparato ad ascoltare o a leggere quello che dico o scrivo?

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Prima di sviluppare i vari aspetti delle questioni che ho appena enunciato vorrei premettere un’affermazione che, nella sua apoditticità, può già sembrare una conclusione: io credo che tutti gli esseri umani abbiano il diritto di dire quello che pensano e che nessuna autorità civile o religiosa ha il diritto di impedirlo; qualunque sia l’opinione che venga espressa. Non ci sono ragioni di opportunità o di «ordine pubblico» che autorizzino una deroga al principio della libertà di parola. Imbavagliare uno o diecimila non è segno di ordine, ma solo di brutale violenza, disgustosa stupidità.

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Ho anche detto che io considero importante che le perle non vengano date ai porci; trovo ingiusto sprecare parole, di verità, parlare a chi non è in grado di ascoltare. Non amo sprecare le mie parole. Sono però convinto di essere io solo il giudice legittimo dell’opportunità o meno di quanto intendo dire. Solo io ho il diritto di impormi eventualmente il silenzio. Nessuno ha questa autorità. Eppure io credo nel valore dell’autorità, sono un uomo che ordina e che coordina nel proprio campo di intervento; quando insegno so che faccio anche esercizio di potere, spero però di aver saputo non imporre mai ad alcuno il silenzio. Spero che sempre, nel piccolo ambito in cui esercito la mia autorità, tutti abbiano il coraggio e la possibilità di dire quello che pensano. Non sto qui parlando della maleducazione, non sto incitando i miei amici ed allievi ad essere volgari e scortesi, col pretesto di dire tutto ciò che loro passa per la testa. Non basta che un pensiero affiori alla mente perché ci si senta legittimati ad esprimerlo ad alta voce: la libertà di parola non va confusa con la volgare maleducazione. Ciò non toglie che non vorrei mai dover essere io ad imporre a qualcuno il silenzio; vorrei piuttosto che gli altri imparassero a scegliere i momenti e i modi più opportuni di parlare, avendo il coraggio di dire tutto quello che veramente pensano, con sincerità e cortesia.

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Quindi chi esprime le proprie opinioni e ritiene di avere qualcosa di valido da dire deve stare attento a non parlare a persone che non siano in grado di recepire quello che egli intende dire: al mondo abbondano gli sciocchi, ai quali si aggiungono gli invidiosi che in malafede distorcono il senso di ciò che vengono ascoltando. Riconosco che è difficile parlar chiaro in un mondo in cui abbondano gli sciocchi e i vigliacchi, ma mi rifiuto di credere che si debba parlare in modo volutamente oscuro o che ci si debba rinchiudere in ristrette conventicole per non rischiare di sciupare le proprie parole. Se però ci limitassimo a parlare solo a coloro che sappiamo essere schierati dalla nostra parte rischieremmo di essere a nostra volta sciocchi e vili. Del resto più si parla chiaro più alto si leva il clamore scandalizzato degli imbecilli e degli invidiosi che reclamano il silenzio. Io riconosco di esprimere, forse troppo spesso, sentenze scomode, profferite anche, talvolta, in modo presuntuoso ed irritante; ma non me la sento ancora di essere più umile o di mendicare indulgenze, anche perché mi sono accorto che spesso mi viene rimproverata come aggressività la mia chiarezza. Qualche tempo fa una persona che mi domandava di essere accettata alla mia scuola mi ha mosso un appunto: avendomi conosciuto soltanto attraverso le parole che io avevo scritto, aveva osservato che il mio modo di esprimermi, forse proprio per l’eccessiva chiarezza, gli pareva poco adatto in campo scientifico, poiché la sua provocatorietà faceva mettere in discussione la serietà e fondatezza delle affermazioni teoriche. Quando gli domandai mandai allora perché ugualmente volesse entrare nella scuola non seppe rispondermi; e se pure io credo di averlo capito, non lo dirò qui, proprio perché non vorrei, un’altra volta, essere gratuitamente provocatorio.

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A questo punto mi sono accorto di stare intrecciando più argomenti: uno quello che si riferisce al modo di parlare o di scrivere quando ci si rivolge a molte persone di cui gran parte non è probabilmente in grado di comprendere a pieno il senso; il secondo si riferisce al diritto che ogni essere umano deve avere di poter esprimere il proprio pensiero, anche con la consapevolezza che quello che dirà potrà andare perduto; infine ho accennato per terzo all’importanza di parlare sempre il più chiaramente possibile. Sono, queste, tre esigenze che io sento profondamente in me. So che debbo accettare anche la deludente prospettiva di essere ascoltato dagli sciocchi e dai vili. Sono ugualmente consapevole che spesso il fraintendimento è provocato dal modo in cui io parlo, ma ciò non toglie che mi rattristi ogni volta che mi trovo frainteso da chi vuole, in mala fede, dare alle mie parole significati che sono loro estranei. Ancora più forte resta in me il bisogno di dire tutto quello che penso e questo desiderio mi dà anche coraggio. Per difendere questi miei bisogni e i miei diritti, mi sono imposto il massimo sforzo di chiarezza, in ogni momento, talvolta cadendo in eccessi di violenza verbale di cui posso solo rammaricarmi, anche perché mi rendono più facilmente aggredibile.
Uno dei personaggi della commedia dell’arte: il dottor Balanzone, sgangherato medico e presuntuoso scienziato, proprio perché non capiva nulla degli uomini, del mondo e della medicina sputava le sue sentenze in un latino incomprensibile e sgrammaticato; così, molto spesso, fanno filosofi, scienziati e politici i quali scelgono l’oscurità spacciandola per il linguaggio specifico della loro scienza. Io dico a tutti di stare attenti a non mettersi nelle mani di questi dottor Balanzone!

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C’è un problema che è essenzialmente morale, ma allo stesso tempo tecnico: se il terapeuta è legittimato nella sua decisione di scandire i modi e i tempi del suo parlare, sia nel rapporto con singoli individui, sia con gruppi che comunque lo hanno liberamente scelto, quando invece parla a persone per lo più sconosciute che appartengono a una cerchia più allargata e che magari, pur in buona fede, non sono comunque preparate sufficientemente a ricevere comunicazioni che possono essere sconvolgenti, come deve comportarsi?

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Voglio adesso raccontare qualche cosa che mi è già accaduto più volte e che forse mi potrà accadere ancora in futuro. Io parlo in pubblico abbastanza spesso e, soprattutto, da diversi anni, tengo incontri mensili cui partecipano centinaia di persone. Mentre svolgo il lavoro di preparazione di ogni singolo incontro, in cui metto a punto le linee generali del mio discorso, mi viene spesso di pensare che questa o quella determinata persona, paziente mia o di uno degli analisti della mia scuola, potrebbe essere seriamente disturbata dal mio dire; d’altro canto le mie conferenze sono ad ingresso libero e comunque non troverei sensato diffidare qualcuno dal parteciparvi. Qualche volta accade che, addirittura, riflettendo su ciò, io mi sia auto-censurato, anche se ho ritenuto questa auto-censura un gesto poco corretto verso tutti gli altri miei uditori. Altre volte, facendo forza a me stesso, ho detto ugualmente ciò che dovevo dire, sentendomi un po’ responsabile verso chi sapevo avrebbe sofferto per quello che dicevo. Ho sbagliato quando ho espropriato chi veniva ad ascoltarmi del diritto di scegliere responsabilmente; oppure ho sbagliato di più quando ho detto tutto quello che pensavo, consapevole di far male a qualcuno? Personalmente mi sento insoddisfatto nell’un caso e nell’altro. Dovrei allora tacere, dovrebbero tacere gli scienziati e in particolare quelli potenzialmente così pericolosi come lo sono gli psicoanalisti? Ci sono verità che non possono essere ascoltate dalle orecchie dei comuni mortali, riservate solo a pochi? A questo punto si tratta di operare una scelta: le ambiguità sono sempre moltissime, le paure si accavallano. Sono problemi che si pongono agli scienziati che si assumono la responsabilità di comunicare con chiarezza il senso delle loro scoperte e invitano gli altri ad accettare le loro scelte o ad opporvisi. Io sono stato molto aiutato anche dalle critiche negative, dagli attacchi e dalle contestazioni: non certo però dall’opposizione degli imbecilli e vigliacchi, di coloro che volevano e vorrebbero farmi tacere, strumentalizzando magari chi è disposto in buona fede ad andare allo sbaraglio in vece loro. La necessità di non soccombere a costoro mi dà il coraggio di parlare nonostante i dubbi e i rischi.

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Ognuno di noi vorrebbe passare nel mondo, coinvolgendosi nelle lotte e mantenere allo stesso tempo le «mani pulite». Questo non è possibile: se ci si rifugia nell’anonimato qualunquistico, se si ripetono le frasi che tutti dicono, se si percorre il cammino dell’esistenza senza operare scelte, senza porsi e porre agli altri molti perché, senza lottare, senza schierarsi, senza odiare e, soprattutto, senza amare, si è colpevoli più che mai di essersi fatti strumento della violenza altrui. Se si sceglie, se si ama fino in fondo non è possibile sottrarsi ad una lotta che è sempre fatta con le mani, con il corpo, con tutto ciò che si è e si ha, compromettendosi intieramente. I rimorsi si accumulano in una vita, ma non è possibile vivere senza rimorsi. Quante cose non vorrei aver fatto, vorrei non aver detto, e quante non ho fatto e detto che avrei voluto fare e dire! Non bisogna indietreggiare davanti ai rimorsi perciò (chi mi conosce sa che non avrei potuto concludere altrimenti) concludo dicendo che, nonostante tutto, se pure consiglio ai terapeuti miei allievi la prudenza, io personalmente ho scelto imprudentemente di parlare e di invitare tutti quelli che lo vogliono ad ascoltarmi o a leggere ciò che scrivo. Non essendo in grado di risolvere la contraddizione, ho deciso che tacerò soltanto quando sarò troppo stanco, troppo triste e troppo vile. Spero che quel giorno sia ancora molto lontano e di essere capace fino ad allora di andare avanti con chiarezza.