46 – Agosto ‘88

agosto , 1988

L’Antica Trattoria del Quarto, in via Cattaneo, a un passo da piazza Collicola, ha lasciato, per sua e nostra fortuna, con parte della vecchia gestione, anche le suggestioni della «cucina creativa». Il posto continua ad essere molto gradevole per l’invitante giardino e il gruppo di ragazzi incaricati del servizio – gentilissimi – guidato da una dama piuttosto decisa, la quale, con la determinazione di un generale, controlla ogni movimento della truppa di sala e di cucina. Gli antipasti rustici erano ben assortiti con bruschette condite da un ottimo olio d’oliva e con le originali fondutine al tartufo, fritte a dovere. Non ci siamo sottratti neppure questa volta al rito degli strangozzi al tartufo e siamo stati premiati da una pasta fatta e cotta nei modi richiesti dalla tradizione e profumatissima di un sugo al tartufo senza panna; gli gnocchi verdi alla salvia avevano la sofficità di quelli fatti in famiglia e un gradevole sugo di pomodoro e salvia, ancora una volta senza panna. Solo le penne alla norcina, che pure dovevano essere state gustose, ci sono parse un poco «rafferme». La faraona in salmì era una squisita preparazione di carne soda, ben condita da un giusto salmì; il piatto di arrosti misti offriva diverse carni, tutte croccanti, morbide e succulente; persino il fagottino alla Valnerina, nella sua rusticità, era appetitosissimo. I contorni di verdure erano esaltati dall’olio di cui abbiamo detto e ci è particolarmente piaciuto un piatto di melanzane a fettine sottilissime, ben arrostite e profumate da un buon «salmoriglio» d’olio e d’aglio. Abbiamo trovato qui una delle poche versioni accettabili della zuppa inglese, un tiramisù passabile e purtroppo una crescionda decisamente non in forma. Abbiamo scelto un solo vino nelle tre versioni: bianco, rosato e rosso: un Colli Alto Tiberini del Castello di Ascagnano, il primo appena accettabile, il secondo arricchito da un profumo di mora acerba, il rosso decisamente buono, vellutato e dal ricordo di marasca. Non si può dire che il locale pratichi una politica dei bassi prezzi; ricordiamo però che c’è un menù fisso molto economico,allo stesso livello gastronomico.

Le Due Querce
Le Due Querce ci sono davvero, maestose, davanti all’edificio che da loro prende il nome, nella campagna spoletina, a S. Maria Reggiana, a pochi chilometri dalla super-strada. L’esterno è molto articolato, con l’aggiunta di una pista da ballo sotto le stelle, l’interno è quello solito del ristorante-pizzeria, seminuovo, col forno sulla parete di fondo e l’immancabile frastuono di un infernale televisore. Ai tavoli serve una graziosa ragazzina, gentile e un poco assente; in cucina preparano e sfaccendano, forse, le «mamme». Sono state queste muliebri presenze che ci hanno portato a fantasticare, nell’attesa, sulle possibilità di una cucina semplice, magari, ma ricca di sapori e appetitosa, come si dice fosse quella delle mamme di un tempo. Invece le madri di oggi hanno fretta come i loro figli, che ingoiano senza assaporare. Così abbiamo visto arrivare in tavola piatti preparati con eccessiva noncuranza, tristi nella sostanza e nell’aspetto. Le tre bruschette: al pomodoro, all’olio e al tartufo (lo scorzone), sembravano mortificate loro stesse di offrire così poco; gli strangozzi di buona pasta casalinga all’olio, aglio e peperoncino erano spalmati da una rossa conserva troppo densa, che faceva completamente sparire ogni traccia dell’aglio e del peperoncino; i cattivi ravioli industriali, malcotti, erano, gli uni, conditi con un ragù asciutto e sfibrato, gli altri, invece, con una panna che la presenza del gorgonzola riusciva a stento a rendere meno offensiva.
Nulla se non desolazione abbiamo provato anche di fronte alle portate successive: ignobili scaloppe ai funghi neri e panna, un ossuto, salato e gommoso abbacchio scottadito, una neutra foglia di carne impanata, a dire il vero fritta non male, e una braciola senza identità. A parte le solite patatine pre-fritte, ci ha turbato la rasposità quasi urticante di un fascio di sedicente insalata. Il vino bianco della casa, pur fresco, era rozzo e aspro, il rosso, moscio, malgrado una leggera tendenza a frizzare. Il conto, fortunatamente, si è tenuto a livelli decisamente bassi.

Al Druso
L’Arco di Druso, coi suoi resti romani, è uno degli scorci monumentali più «togati» di Spoleto, e proprio lì accanto opera la trattoria e pizzeria Al Druso, dove una volta c’era la Trattoria dell’Angelo. Da allora le cose sono cambiate in meglio, anche se molta strada c’è ancora da fare. L’accoglienza che abbiamo ricevuto l’altra sera è stata cortese e premurosa. Subito dopo gli antipasti tradizionali e un po’ scialbi, abbiamo apprezzato nei primi piatti la totale assenza della panna.
Persino i tortellini al tartufo, che non abbiamo mai trovato senza panna, qui erano conditi da un eccellente sugo al tartufo, profumatissimo e morbido di burro (chi fosse scettico sulla nostra crociata anti-panna faccia il confronto tra questi tortellini e quelli di ogni altro luogo in cui la panna viene messa insieme ai tartufi e capirà le nostre ragioni) tanto buono che ci è spiaciuto che i tortellini non fossero fatti «in casa». Abbiamo percepito come un tentativo di variare i soliti menù la presenza della selvaggina, anche nei primi, seppur fuori stagione: le tagliatelle al cinghiale erano saporite e ben cotte; gli strangozzi alla spoletina, ugualmente ben cotti, erano buoni e piccantini; mentre il risotto con funghi porcini era condito con funghi surgelati e non ben rinvenuti. I due secondi di selvaggi I due secondi di selvaggina che abbiamo assaggiato sono stati un capriolo in salsa al pomodoro più che accettabile e un cinghiale alla cacciatora buono, ma con la carne un po’ troppo sfatta; nel girello ai funghi i porcini erano stati trattati meglio; ma l’agnello al tartufo era un po’ rinsecchito. Coi contorni al gratin è nata una piccola questione con il giovane cameriere bruno che, quando gli abbiamo fatto osservare che li avremmo preferiti caldi, ci ha fatto giustamente presente che, tradizionalmente, sono piatti serviti freddi. Noi riteniamo questo un malvezzo, purtroppo invalso, e comunque non dovrebbero mai, tali piatti, risentire di frigorifero. Buoni i due dolci: la meringa e lo zuccotto, di produzione esterna. I due vini della casa erano un bianco molto rustico ma gradevole, servito a giusta temperatura, e un eccezionale rosso, morbido e profumato, identificabile con un vino di Montefalco. Il prezzo è leggermente tendente verso l’alto.

Cantina del Torgiano
In via di Fontesecca, tra il fervere delle botteghe e del passeggio, ha riaperto, come ogni anno in occasione del festival, la Cantina del Torgiano: un ambiente bizzarro, ma di grande bellezza; per terra c’è la ghiaia e sulla testa un mirabile intreccio di volte ed archi. Siamo tornati, dopo qualche tempo, e dobbiamo dire che il nostro passato entusiasmo si è un po’ raffreddato. Innanzitutto il servizio lascia a desiderare, perché è troppo distratto e confuso, ma poi, col tempo, si è andata affermando una mancanza di fantasia così assoluta, che è difficile desiderare di tornarci spesso, perché la lista ha così pochi piatti e sono sempre gli stessi: fossero almeno preparati in modo superlativo! La qualità è decisamente scaduta e non offre più buoni sapori schietti e rustici, ma piattucoli, che oltre che minuscoli, sono ormai insapori. Qui nulla è cattivo, nulla è repellente come in certi altri luoghi, però l’organo del gusto rimane, tutto sommato, indifferente. Il prosciutto nostrano era ancora di ottima qualità, ma i crostini e le bruschette erano insipidi ed avarissimamente conditi; per di più la salsa ai funghi prataioli risultava assolutamente sgradevole per l’odore ed il sapore di acido fenico e inchiostro che, ci siamo resi conto, non erano dovuti all’effetto di un qualche conservante ma probabilmente al fatto (è solo un’ipotesi) che sono tipici di questi agarici quando sono raccolti negli uliveti; i fagioli con le cotiche erano quasi freddi e papposi e ugualmente freddo il puré di fave, di per sé gustoso come sempre; ci ha fatto invece piacere ritrovare la crescionda, tipico dolce della zona, che sebbene sia proprio del periodo natalizio si può apprezzare anche in estate. Abbiamo assaporato un delizioso Pinot grigio dell’Umbria, del 1987, dal colore del miele, fresco, armonioso e profumatissimo di acacia. Il conto è stato molto alto, anche considerando la centralità del luogo e l’ora tarda.

Il Cigno
Il Cigno è un nome bellissimo, anche per un ristorante, le Fonti del Clitunno sono un luogo paradisiaco, malgrado il traffico della Flaminia; noi però, andando a cena, l’altra sera eravamo certi che avremmo mangiato male: troppo spesso abbiamo visto torpedoni carichi di turisti e di pellegrini diretti ad Assisi fermarsi proprio al Cigno. Tuttavia, poiché i due Farfalloni sono curiosi quasi all’inverosimile, hanno voluto ugualmente ficcarci il naso, coinvolgendo nella mala impresa il solito gruppo di affezionati amici. Era quasi notte e di turisti non c’era più l’ombra, ne restavano solo le tracce nell’aria stanchissima del giovanotto che ci serviva. E’ vero che il turista per tradizione viene considerato degno di ogni maltrattamento, è vero che i pii pellegrini debbono soffrire ed accettare tutto con umiltà e rassegnazione, ma quando è troppo è davvero troppo! Noi siamo rimasti veramente esterrefatti.
Abbiamo quasi tutti scelto il menù di pesce (solo il nostro amico «Chopin» ha scelto quello di carne) e ci siamo trovati davanti un’insalata di mare, priva di qualunque sapore, la cui consistenza ricordava quella degli elastici che una volta si trovavano nelle cartolerie e mercerie di paese; come se non bastasse in alcune ciotole di metallo giacevano cozze sfatte che ad essa si allineavano nell’assenza di ogni gusto; concludevano il «carosello» degli antipasti alcuni vassoi di cannolicchi gratinati sommersi di un pan grattato, sapientemente amalgamato con una grande quantità di sabbia. Il risotto alla pescatora faceva ridere tanto era assurdo col trionfo di quelle teste surgelate di crostacei, emergenti sull’avaro condimento alla panna; il fritto misto era soprattutto salato e molliccio e davvero con pesci di pessima qualità; addirittura deliranti le trote al tartufo, «seccoline», magrissime e umiliate da una poltiglia dolciastra. Né si può dire che abbia avuto miglior fortuna l’amico «Chopin»: le tagliatelle al ragù erano scotte e affogate in un sugo irrancidito, mentre la bistecca di maiale – un pessimo taglio di carne – era completamente cruda. Pesci e carne hanno avuto per degni contorni un’insalata bruciata dall’aceto e le solite frites. Incredibilmente, siamo riusciti a bere quasi con piacere un semplice, e povero, francescano, vino bianco del Lago Trasimeno. Il conto di per sé non si può dire che fosse alto o basso.
I poeti di ogni tempo hanno cantato questo posto, ma evidentemente non devono mai aver mangiato qui.

Come abbiamo già detto nel primo numero del 1984, i pareri dei due Farfalloni: Sandro Gindro e Renzo Rossi, che in questi cinque anni sono stati espressi su questo periodico a proposito di molti luoghi di rinfresco e ristorazione dell’area spoletina, sono allo stesso tempo parziali ed obiettivi. Obiettivi perché esprimono le nostre reazioni di fronte alle situazioni che abbiamo effettivamente sperimentato e parziali perché riflettono il nostro gusto e la nostra filosofia eno-gastronomici. Noi siamo stati in passato e siamo tuttora convinti che ogni giudizio può essere riveduto e lo abbiamo fatto ogni volta che ne è stato il caso. Il nostro intento è di collaborare con tutti coloro che operano per migliorare le condizioni del turismo umbro. Siamo sempre molto decisi e il nostro linguaggio è spesso sarcastico (nelle altre pagine di questa stessa rivista noi due non trattiamo certo in modo più tenero: musicisti, pittori, autori, attori, danzatori e quanti altri operano in campo artistico), ma non abbiamo mai inteso offendere personalmente nessuno.